Il gioco degli scacchi: uno sport per la mente

Il tema che abbiamo deciso di trattare questo mese è quello del gioco a scuola. Nel riflettere su quale approfondimento proporre ci sono venuti in mente diversi giochi da tavolo molto validi che proponiamo regolarmente tra cui il Senet, il Ludus Duodecim Scriptorum e gli Scacchi.

I primi due giochi Ginevra li propone durante gli approfondimenti di storia legati alle grandi civiltà; per quanto riguarda gli scacchi invece, Giuditta li propone nella normale attività curricolare come potenziamento di innumerevoli competenze e abilità. L’esperienza di Giuditta con gli scacchi è iniziata nel 2009, quando per la prima volta si è avvalsa della valida competenza degli istruttori e delle istruttrici del Circolo UST di Trento per guidare i bambini e le bambine nella scoperta di questo gioco. In seguito, dopo aver avuto modo di comprendere il meccanismo alla base del gioco e in che modo questo potesse diventare un valore aggiunto a scuola, Giuditta ha seguito alcuni corsi per diventare istruttrice a sua volta.

Il movimento dei pezzi, legato a regole geometriche fa subito pensare che gli unici vantaggi che si possano avere dalla pratica costante di questo sport siano quelli di sviluppare la geometrizzazione del pensiero e le abilità di calcolo, tuttavia questo è solo uno degli aspetti positivi di questo gioco dalle innumerevoli sfaccettature. Ogni partita prevede che i due avversari muovano i pezzi a turno: questo aiuta i bambini e le bambine a sviluppare la pazienza. Ad ogni mossa segue una contromossa, e ogni azione ha una causa e una conseguenza, questo permette di lavorare sulla successione spazio-temporale e sulle relazioni di causa ed effetto. 

Prima di muovere un pezzo il giocatore o la giocatrice deve osservare la scacchiera, la posizione dei pezzi e valutare la mossa appena fatta dall’avversario; quando muove, deve prevedere cosa farà l’avversario o l’avversaria. Tutto questo comporta un rafforzamento delle capacità di osservazione, riflessione, memorizzazione, astrazione, previsione e decisione. Man mano che si imparano nuove strategie da mettere in pratica, si rinforzano anche le competenze di memoria e si sviluppa in particolare la memoria visiva. Studiare strategie codificate permette inoltre di acquisire un metodo di indagine e analisi e di sviluppare capacità di progettazione in vista di uno scopo. 

A tutto questo si aggiunge la necessità di sviluppare attitudini psicologiche, di creatività e fantasia necessarie alla risoluzione dei problemi che si devono affrontare durante la partita. Infine, ma non ultimo per importanza, il gioco degli scacchi permette di consolidare e potenziare il controllo emozionale sia per gestire le emozioni durante la partita, sia per gestire la pressione pre-partita e le emozioni in caso di vittoria e sconfitta. Per esperienza diretta possiamo dire che, dopo un training di tre mesi in classe seconda, i bambini e le bambine dimostrano tempi di attenzione più lunghi e maggiore capacità di mantenere una posizione composta al banco rispetto a bambini e bambine che non praticano questo sport.

In classe quinta si ottengono sessioni di gioco della durata di 40-60 minuti in cui gli alunni e le alunne dimostrano concentrazione e attenzione costantiQuesti risultati si riflettono nella didattica di tutti i giorni, durante le attività individuali e gli esercizi in classe, dove gli alunni e le alunne dimostrano concentrazione, autonomia e spiccata capacità nella risoluzione di problemi.

Il gioco degli scacchi è inoltre uno sport che permette di promuovere la parità di genere in quanto non ci sono disparità legate alla forza e prestanza fisica. Questo gioco può essere inoltre praticato da bambini e bambine con disabilità fisica e utilizzato con efficacia e soddisfazione anche per i bambini e le bambine che presentano disturbi specifici di apprendimento. Anche per introdurre il gioco degli scacchi abbiamo deciso di partire da una storia; la nostra scelta è caduta sul passaggio di “Alice attraverso lo specchio” in cui Alice incontra la Regina Rossa e diventa un pedone della scacchiera.

Il video qui proposto è suddiviso in tre parti:

  • prima parte: lettura e interpretazione della storia;
  • seconda parte: presentazione del movimento dei pezzi degli scacchi;
  • terza parte: videotutorial con i passaggi per realizzare il minilapbook contenente la scacchiera portatile.

Video

 

MATERIALI AGGIUNTIVI

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LE AUTRICI

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

Un été à l’ombre des… polars

Et oui, mes chers passionnés de Proust, aucune nouvelle édition de la Recherche, cet été. Du reste, le grand classique du XXe siècle français n’est peut-être pas le genre de lecture à glisser dans votre valise et auquel s’adonner sous le parasol. Le succès international rencontré par la série Lupin, dans l’ombre d’Arsène, mise à disposition de ses abonnés par la plateforme Netflix le 8 janvier 2021, a relancé l’intérêt du public envers les romans de Maurice Leblanc, créateur du célèbre gentleman cambrioleur Arsène Lupin.

Grâce à ce classique indémodable de la littérature populaire, les libraires ont vu soudain redécoller leurs ventes. Écrivain et journaliste né à Rouen en 1864, Maurice Leblanc est le père du personnage Arsène Lupin, devenu l’archétype du gentleman-cambrioleur, maitre du déguisement.

Son succès commence en 1905, lorsque Pierre Lafitte, directeur du mensuel Je sais tout, lui demande une nouvelle inspirée des aventures de Sherlock Holmes. À cette époque, en effet, Conan Doyle connait un succès  extraordinaire grâce à la publication, en France, des enquêtes de son héros Sherlock Holmes en 1902. Après les critiques de son confrère anglais, Leblanc utilise alors un stratagème en syntonie avec son héros, Arsène Lupin, en appelant son ennemi, le détective britannique, Herlock Sholmès et le meilleur ami de celui-ci, Wilson.

L’œuvre  (L’Arrestation d’Arsène Lupin) connait un grand succès, mais son auteur, qui rêve de devenir Flaubert ou Maupassant, souffre de ne pas avoir gagné la renommée auprès des lettrés. Malgré son scepticisme envers le potentiel d’une série en livres, Leblanc donne une suite à la nouvelle et poursuit l’écriture de nombreux romans (17), nouvelles (38) et pièces de théâtre (5) jusqu’à sa mort, en 1941, à Perpignan.

Grâce à Arsène Lupin, Leblanc crée ainsi un type, celui du « caméléon et justicier, anarchiste et dandy » (Justicier, anarchiste et dandy: pourquoi Arsène Lupin continue de séduire) qui a inspiré plusieurs adaptations pour le théâtre, la radio, l’opérette, les bédés, les mangas, le cinéma et la télévision.

Les passionnés de Lupin, qui ont fondé en 1985 l’association Les Amis d’Arsène Lupin, ont même retrouvé et répertorié les lieux qui ont constitué le décor des aventures de leur héros et créé de vrais itinéraires touristiques. Et alors, cet été faites le plein de soleil en lisant les romans de Leblanc et partez sur les traces du célèbre gentlemen cambrioleur !

Bibliographie essentielle

Romans et nouvelles:

  • Arsène Lupin, gentleman cambrioleur (1907)
  • Arsène Lupin contre Herlock Sholmès (1908)
  • L’aiguille creuse (1909)
  • Les confessions d’Arsène Lupin (1913)
  • L’ile aux trente cercueils (1919)
  • La comtesse Cagliostro (1924)
  • La femme aux deux sourires (1933)
  • Les milliards d’Arsène Lupin (1941)

Théâtre:

  • Arsène Lupin (1908), pièce en 4 actes, écrite par Francis de Croisset et Maurice Leblanc
  • Une aventure d’Arsène Lupin (1911), saynète représentée au music-hall La Cigale

Cinéma et télévision:

  • Arsène Lupin contre Ganimard (1914), film français de Michel Carré, avec Georges Tréville
  • Arsène Lupin détective (1937), film français de Henri Diamant-Berger, avec Jules Berry
  • Arsène Lupin (1971-1974), série de Jacques Nahum, avec Georges Descrières
  • Lupin (2021), série Netflix, avec Omar Sy

Pour connaitre l’association des « lupiniens »:

Pour connaitre les lieux d’Arsène Lupin:

La matematica e l’azzardo

Cara lettrice, caro lettore,

l’inizio dell’anno scolastico coincide con la ripresa dell’anno sociale. Non c’è momento migliore per parlare dell’azzardo, dei suoi legami con la matematica e di come questa disciplina possa aiutare a combatterne la dipendenza patologica.

Breve storia dell’azzardo

I giochi con componenti casuali hanno origini antichissime e venivano praticati in molte parti del mondo: dall’antico Egitto alla Cina, passando per l’odierno Iran. L’azzardo vero e proprio, in cui cioè è presente una componente economica legata a eventi incerti, è già presente nell’antica Roma, in cui si praticavano regolarmente scommesse sugli esiti delle lotte tra gladiatori. La stessa parola “azzardo” deriva dal nome arabo dei dadi, diffusissimi in Europa già dal medioevo, al punto da essere citati anche da Dante e da Geoffrey Chaucer.

Non chiamatelo gioco

Secondo l’Articolo 721 del Codice Penale italiano, “sono giochi d’azzardo quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria”. Eppure oggi diverse associazioni stanno promuovendo campagne affinché non si parli più di “gioco” d’azzardo, ma semplicemente di “azzardo” o “azzardopatia”, nel caso di dipendenza patologica.

Come mai è opportuno distinguere l’azzardo dal gioco? L’azzardo non è forse un gioco? Per provare a rispondere dobbiamo provare a dare una definizione di gioco che ci permetta di stabilire se le attività “nelle quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi interamente aleatoria” si possano considerare ludiche. Nell’articolo di maggio abbiamo lanciato ai lettori la sfida di provare a definire che cosa siano i giochi. La risposta che fino a ora ci è sembrata più esaustiva è quella del game designer Mark Rosewater, secondo il quale un gioco è “a thing with a goal (or goals), restrictions, agency, and a lack of real-world relevance”, ovvero “una cosa con uno o più obiettivi, restrizioni, in cui i partecipanti hanno la possibilità di effettuare delle scelte significative e che non ha rilevanza concreta”. L’azzardo ha un obiettivo (vincere soldi), ha delle restrizioni (le regole con cui si punta e si determina la vincita o perdita finale), chi vi partecipa ha la possibilità di effettuare delle scelte significative (la più semplice, presente anche nelle slot machine, è l’entità della puntata), ma ha una rilevanza concreta dovuta alle perdite economiche. Di conseguenza, secondo la definizione di Rosewater non si tratta di un gioco.

La nascita della probabilità

Vista la posta in gioco, talvolta considerevole, e le conseguenze sulla vita quotidiana, i partecipanti ad attività di azzardo hanno sempre cercato di mitigarne o addirittura dominarne il rischio. Per esempio, nell’antica Roma era venerata la dea Fortuna; inoltre il culto di quella divinità è proseguito almeno fino al Rinascimento. Un approccio più scientifico dell’azzardo è iniziato nel XVI secolo, con i lavori di Cardano, Pascal e Fermat. Al di là dell’analisi dei giochi specifici, quei primi studi hanno portato alla definizione classica di probabilità: la probabilità di un evento e uguale al rapporto tra il numero dei casi favorevoli al suo verificarsi e il numero dei casi possibili, a condizione che tutti i casi siano considerati ugualmente possibili. In formula, se ci sono k casi favorevoli e n casi totali, la probabilità è p=k/n. Questa definizione può essere usata per risolvere il quesito “Chi sta vincendo?” dell’articolo di giugno.

Oltre la definizione classica di probabilità

Le condizioni per applicare la definizione classica di probabilità sono molto restrittive: per esempio essa non si può utilizzare quando è difficile stimare se i casi considerati siano equiprobabili. Questo accade molto spesso per eventi empirici, per esempio i risultati delle gare sportive. Per tali situazioni occorre estendere la definizione di probabilità in un modo adeguato. All’inizio del Novecento il matematico Bruno De Finetti ha proposto una definizione soggettiva della probabilità proprio basata sul concetto di azzardo. Secondo la definizione di De Finetti, infatti, la probabilità che un individuo razionale attribuisce a un certo evento si calcola mediante il rapporto tra la somma che egli ritiene giusto scommettere, rischiando di perderla se l’evento non si verifica, e la somma che ha diritto di ottenere in cambio se l’evento si verifica. In formula, se un individuo è disposto a pagare C per ottenere S in caso si verifichi l’evento E, la probabilità è p=C/S. L’ipotesi di razionalità dell’individuo garantisce che la definizione di De Finetti estenda quella classica; inoltre, essa si può applicare anche quando le ipotesi per utilizzare la definizione classica non sono soddisfatte. La definizione di De Finetti permette inoltre di studiare in modo più dettagliato il comportamento degli individui, per esempio valutando la loro propensione o avversione al rischio.

Uno sguardo razionale sull’azzardo

Utilizzando gli strumenti matematici a nostra disposizione, come possiamo giudicare l’azzardo? Secondo De Finetti, un coinvolgimento continuo nell’azzardo porta alla rovina del giocatore, anche in presenza di giochi equi. Invece le proposte di azzardo, anche quelle legalizzate dallo stato italiano, non sono mai eque, ma sono sempre a favore del banco. Quindi, da un punto di vista dell’ottimizzazione della somma di denaro a nostra disposizione, l’unica scelta razionale è di non giocare mai.

Secondo il professor Franco Brezzi dell’Università di Pavia, c’è anche un altro modo razionale per rapportarsi con l’azzardo, per esempio con un gratta e vinci. L’acquisto di un biglietto infatti avrebbe senso se finalizzato a concedersi di sognare per qualche momento la possibilità di vincere. Anche solo comprarne due, però, vorrebbe dire pagare due volte uno stesso servizio, un atteggiamento decisamente poco razionale.

Per approfondire

Dante poeta-giudice del mondo terreno | Due lezioni di Roberto Antonelli su RaiScuola

Poco meno di 100 anni fa, nell’anno orribile del crack di Wall Street, il 1929, usciva un volume che avrebbe rivoluzionato gli studi danteschi nel mondo: si tratta di “Dante als Dichter der irdischen Welt” (“Dante poeta del mondo terreno”) del filologo tedesco Erich Auerbach. È ispirandosi a quest’ultimo che Roberto Antonelli, filologo romanzo e professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza , pubblica il libro “Dante poeta-giudice del mondo terreno” e propone due lezioni-conferenze – presenti nel palinsesto di RaiScuola – che sono una lettura meticolosa e originale del poema dantesco.

Al titolo dell’opera di Auerbach, Antonelli aggiunge la parola “giudice” per rimarcare subito che il tema della giustizia, insieme a quello dell’amore, rappresenta un filo conduttore fondamentale per comprendere la CommediaIl poema dantesco – ci dice il filologo romano – va interpretato complessivamente, evitando interpretazioni esclusivamente metafisiche, che sono ovviamente ben presenti, ma non ne costituiscono l’unico asse portante.   

Dante ci narra un viaggio nell’Aldilà fino a Dio per fornirci tutte le possibili evidenze filosofiche e teologiche. Ma ci dice anche che tutto ciò è rivolto al suo ritorno sulla Terra, a ciò che potrà fare per spingere gli esseri umani ad agire e salvarsi da quella grande crisi in cui egli li vede immersi, insieme a se stesso. Per questo la Commedia può essere letta come un gigantesco teatro della memoria e del mondo: memoria delle tante manifestazioni dell’animo umano, meravigliose e tragiche nello stesso tempo. 

E, sempre per questo, il poema è anche una grande macchina elaboratrice di giudizi sui comportamenti e sulle emozioni degli esseri umani che ci porta a una riflessione appassionata sul tema della giustizia. La giustizia divina e quella umana sono rappresentate attraverso la soggettività di Dante in quanto Autore e in quanto Personaggio: due aspetti solo talvolta sovrapponibili che producono continue occasioni di drammatizzazione, di dubbio e di conflitto, nelle quali il Lettore – di fatto il terzo protagonista della Commedia – è chiamato a confrontarsi e interagire, ancora oggi. 

Attraverso le pene e i premi rappresentati nel suo viaggio ultraterreno, Dante vede in anticipo il giudizio dato da Dio alle azioni sulla terra di ogni essere umano. Naturalmente è un giudizio di Dio immaginato e voluto da Dante, anche al di là dei criteri del suo tempo, sia sul piano religioso che giuridico. Si crea così spesso una contrapposizione o un conflitto fra l’animo e i sentimenti di Dante come Personaggio che viaggia nell’Aldilà per purgarsi dei propri peccati e ciò che Dante come Autore fa incontrare al viaggiatore nell’Aldilà; si pensi al caso di Francesca da Rimini, condannata dal giudizio divino, ma vista con affetto e pietà da Dante personaggio e viaggiatore.

Sul grande tema della giustizia si trova coinvolto anche il terzo protagonista del poema: il LettoreOgni personaggio, con la sua pena o il suo premio, diventa infatti un problema con cui confrontarci.  È giusto il giudizio divino rappresentato nel poema? E se no, perché? Le pene e i premi rappresentati nel poema sono ancora attuali? E se il giudizio di Dio fissato nella Commedia è giusto, cosa dovrebbe fare il lettore, cosa dovrei fare io, per migliorare?

Il poema diventa così strutturalmente un’opera di carattere interattivo, poiché chiama continuamente anche il lettore a giudicare, a pensare. È lo stesso Dante infatti, in punti particolarmente importanti, a rivolgersi direttamente al lettore per metterlo in guardia, esortarlo, chiamarlo a partecipareNon è difficile capire il fascino che esercita ancora oggi la Commedia come vero e proprio paradigma nel quale specchiare dubbi e aspirazioni che sono anche dell’età contemporanea: a distanza di sette secoli, Dante continua a parlarci.

Per approfondire

Roberto Antonelli parte dal celebre saggio di Gianfranco Contini del 1965 in cui ci si domandava se la Commedia fosse ancora letta e si rifiutava la distinzione crociana tra poesia e non poesia nel poema dantesco. Oggi sul web la Commedia di Dante è molto studiata e cercata, si tratta di un’opera che presenta una straordinaria apertura sul mondo e sugli uomini. Probabilmente è il libro con il maggior numero di personaggi che sia mai stato scritto e Dante lo ha attentamente programmato.

Il nucleo centrale del discorso di Antonelli riguarda il rapporto tra Dante e Bonifacio VIII. Fu questo papa a indire il Giubileo del 1300, cui forse Dante partecipò da pellegrino, restando colpito dall’entusiasmo dei fedeli. Dante considera il papato di Bonifacio VIII l’origine dei mali della Chiesa e colloca il papa nell’Inferno tra i Simoniaci, anche se all’epoca in cui immagina di aver compiuto il proprio viaggio nell’Aldilà era ancora vivo. La condanna di Bonifacio VIII, che fu causa dell’esilio di Dante, è totale e senza appello: Dante si fa testimone del proprio tempo e nello stesso tempo del cammino dell’umanità.

L’autore prosegue la sua riflessione sul tema della giustizia e sulla Commedia come grande opera rivolta al mondo terreno, pur essendo nello stesso tempo il più grande poema visionario e religioso della storia umana.

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Dante poeta giudice del mondo terreno

Roberto Antonelli – Viella

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Ambiente, territorio e animali nella Divina Commedia

Nella selva oscura della Commedia non ci sono confortanti tracce dell’uomo, ma soltanto presenze ostili, animali feroci e la sensazione di una minaccia incombente. Dante ci racconta un bosco che fa paura, in cui sono presenti tutti gli ingredienti che ritroviamo anche nelle fiabe dei bambini, a partire da quella di Cappuccetto Rosso: c’è il senso di smarrimento e c’è persino il lupo cattivo. La sensazione di paura è creata dalla percezione di ritrovarsi in solitudine nel mezzo della natura.

La selva selvaggia e la lupa

L’incipit della Commedia di Dante è stato uno dei più potenti veicoli di un immaginario negativo tanto del lupo, quanto del suo habitat, il bosco. Proviamo però a leggere il testo, per meglio comprenderne la logica interna. 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Il viaggio iniziatico di Dante comincia da un bosco, un luogo che è stato spesso usato, basti pensare alle fiabe, come simbolo, non necessariamente negativo, del passaggio e della trasformazione. Dante prova paura quando si ritrova in una “selva” buia e “selvaggia”. Questa qualifica – “selvaggia” – non è per nulla tautologica ed è decisiva per capire quale particolare tipo di bosco terrorizzi gli uomini del Medioevo: si tratta di un bosco profondo, non toccato da mano umana, dove la natura trionfa. È lì che il Poeta si perde («la diritta via era smarrita», «la verace via abbandonai»).

La selva selvaggia di Dante è ben differente dai boschi “domestici”, segnati dalla presenza umana e da coltivazioni temporanee o arboricole, come il castagno, e non è neppure assimilabile alla “foresta”, che, se poteva essere molto simile nella conformazione e nelle specie arboree, evocava invece nei suoi contemporanei un’immagine assai diversa da quella di un luogo pericoloso, abbandonato e incontaminato. La “foresta” del Medioevo è uno spazio di pertinenza regia, sottoposto al diritto pubblico, accessibile soltanto secondo determinate regole e il cui uso può essere riservato per particolari attività, come, per esempio, la caccia del re e dei suoi fedeli. Non stupisce dunque che Dante preferisca usare la parola foresta per definire il bosco dell’Eden, dove giungerà al termine della salita del Purgatorio. La foresta è dunque un luogo sottoposto alla legge imperiale sulla terra dei vivi, secondo gli ideali politici del Poeta, e alla legge divina nel Paradiso terrestre, che prelude al Regno dei Cieli.

Nello spazio ostile della selva, invece, dopo avere incontrato due fiere feroci, Dante si imbatte nella terza, la più temibile di tutte:

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 

(Dante, Inf. I)

Fa dunque la comparsa la lupa, che avanzando ricaccia il povero Dante proprio in quella parte più fitta del bosco. Se restiamo sul piano letterale, il comportamento della lupa non ha nulla di sorprendente: spinge la preda nel suo habitat, dove la vegetazione è più fitta, gli alberi crescono affastellandosi gli uni sugli altri ostacolando il passaggio della luce e la presenza umana è assente. 

Tra natura e allegoria

Ciò che rende davvero Dante un abile regista dell’horror è la capacità di caricare la selva di una connotazione sinistra, legata non già ai pericoli materiali, ma a quelli allegorici che si intuiscono per l’anima dell’autore. Dante infatti non si è perso soltanto nella foresta, ma anche nella vita, e le fiere sono spaventose, ancor più che per le ferite fisiche che possono produrre, per quelle interiori derivanti dai vizi che rappresentano. 

La lupa, in particolare, è l’unica fiera dantesca che ha solo attributi negativi: rappresenta infatti gola, dissolutezza, cupidigia, lussuria e avarizia. E non è per nulla casuale la scelta di Dante di parlare della lupa al femminile: in latino, infatti, il termine lupa era usato per le prostitute (da cui “lupanare”). Insomma, come del resto doveva essere nelle orecchie di qualsiasi contemporaneo di Dante, abituato a sentir parlare di lupi nelle prediche religiose, la lupa era identificabile senza incertezze con l’allegoria del male tout court.

Ma la lupa ha ulteriori significati. Non si riferisce soltanto a peccati e vizi individuali, né a un’allegoria generica. È stata infatti interpretata come la personificazione della chiesa corrotta di Bonifacio VIII, che Dante critica aspramente. E c’è anche la possibilità che, evocando la lupa, Dante avesse in mente un preciso ritratto sociale. Egli doveva essere ben consapevole che per un cittadino di un qualsiasi comune italiano all’inizio del XIV secolo, a partire da Firenze, il lupo aveva anche una precisa connotazione politica. Come abbiamo visto, nei discorsi politici, ai lupi famelici – «di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza» dice Dante – si fa frequentemente ricorso per simboleggiare le divisioni interne alla città, la discordia e gli abusi dei magnati, cioè delle famiglie più potenti della città, caratterizzate dall’ostentazione della ricchezza, da uno stile di vita violento e dalla volontà di dominio sugli altri concittadini. Avari, lussuriosi, dissoluti e golosi: così dovevano apparire i magnati alla maggioranza della popolazione. E proprio questo tema politico – dei conflitti e delle divisioni interne causate dagli odi familiari – è senz’altro fra i leitmotiv della Commedia.

Due sono dunque i piani su cui il Poeta costruisce il nostro senso di angoscia. Da un lato, il confronto con uno spazio naturale che si presenta in una veste temibile e ostile all’uomo, la selva popolata da animali feroci, che svolge un ruolo analogo a quello che avrebbero potuto rivestire il mare in tempesta o il vulcano durante un’eruzione. Dall’altro, Dante gioca sul senso del male, sul significato allegorico che assumono i luoghi e gli animali, ma anche sull’angoscia del presente causata dalla congiuntura politica di inizio XIV secolo.

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Il tempo dei lupi

Storia e luoghi di un animale favoloso di Riccardo Rao – edizioni Utet

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Fiestas populares: patrimonio intagible

Muchas de las fiestas y tradiciones populares que se celebran en verano y en primavera tienen un origen diferente. Algunas se remontan a festividades paganas (San Juan), otras recuerdan acontecimientos religiosos (La Pascua, Santiago Apóstol o el Inti Raymi) o históricos (los Sanfermines, las fiestas de Moros y Cristianos o la Romería vikinga en Catoira); en cambio, en otras, el elemento religioso se mezcla con elementos paganos (el Carnaval y las Fallas); y, en otras, como la Tomatina, tienen natales oscuros.

Para conocer mejor estas fiestas os dejamos unos enlaces con los que vuestros alumnos pueden seguir ejercitando no solo sus capacidades de comprensión de lectura, de escritura y oral, sino también el léxico (geografía, clima, moda, colores) y la gramática (tiempos verbales, perífrasis de futuro).

Para conocer más detalladamente las fiestas en España y en Hispanoamérica, podéis visitar los siguientes enlaces.

Este mes, nos despedimos con un acertijo para que propongáis a vuestros alumnos: ¿Qué tienen en común la fiesta de Os Maios” (Los Mayos, en español) en Galicia, el Calendimaggio o Cantar maggio que se celebra en diferentes ciudades toscanas, la fiesta de I Ceri en Gubbio y el huevo? 

¡A ver quién de vuestros alumnos lo adivina antes!

I centenari danteschi nell’Italia unita

1865 – L’Italia delle cento città 

Non furono molti gli intellettuali che, nel 1821, ricordarono il V centenario della morte di Dante, avvenuta a Ravenna nel settembre del 1321, anche se un viaggiatore francese dell’epoca osservava: “la tomba di Dante è, per l’immaginazione, il primo monumento di Ravenna, e una delle più illustri tombe del mondo”.

Nel maggio del 1865, in occasione del VI centenario della nascita, l’Italia unita lo celebrava solennemente a Firenze, centro di un vero e proprio festival durato giorni e culminato nell’inaugurazione del monumento all’Altissimo Poeta in piazza Santa Croce, alla presenza di Vittorio Emanuele II. Era l’Italia delle cento città che convergeva nelle strade medievali e rinascimentali di Firenze, da poco capitale del Regno, a testimoniare la patria “dal basso”, quella orgogliosamente municipale che aveva cooperato alla lotta per l’indipendenza. Naturalmente i discorsi si sprecarono e la retorica corse a fiumi: un cliché che si sarebbe ripetuto puntualmente in occasione dei centenari successivi. 

I motivi della spettacolarizzazione di Dante

La spettacolarizzazione di Dante si sposava con l’esigenza di costruire una narrazione della vicenda letteraria italiana in funzione dell’immancabile esito nazionale. Alcuni grandi anticipatori avevano intuito l’Italia unita secoli prima del Risorgimento: Dante era stato il primo anello di questa gloriosa catena. Il ruolo dello Stato, nella preparazione della kermesse fiorentina, era stato tutto sommato modesto, dato che una vera e propria politica culturale mancava alla Destra storica al potere; il vivace mondo dell’intellettualità di provincia aveva sopperito col suo entusiasmo e con le inevitabili ingenuità.

1921 – Lo Stato nazionale vincitore della Grande Guerra

Alcuni decenni più tardi, nel settembre del 1921, quando Dante tornò nell’agenda nazionale in previsione del VI centenario della morte, il clima era del tutto diverso. Questa volta protagonista assoluto era lo Stato nazionale, vincitore della Grande Guerra, che aveva reso reali i confini geografici della patria intravisti da Dante nella Divina Commedia. Il vaticinio si era dunque realizzato e l’Altissimo Poeta poteva figurare a buon diritto fra i precursori del nazionalismo trionfante. 

Si tenga presente il clima: concluso il “biennio rosso”, il riflusso sul patriottismo, nelle sue diverse accezioni, era in pieno corso. A novembre sarebbero state solennemente traslati i resti del Milite Ignoto al Vittoriano, il grande monumento eretto a ridosso del Foro Romano. Le celebrazioni dantesche disegnavano un percorso nel duplice segno della morte in nome della patria: da quella celebre del 1321 a quella eroica, avvenuta in un punto indefinito del fronte, durante la carneficina del 1915-1918.

1965 – La Repubblica democratica

Nel 1965, la Repubblica democratica che si apprestava a festeggiare il VII centenario della nascita di Dante era espressione di una comunità laboriosa e ottimista. Il boom economico aveva accompagnato fuori della marginalità e dell’arretratezza milioni di italiani; la scuola funzionava da efficace “ascensore sociale”. La lingua degli italofoni, la lingua di Dante, ormai prevalente sulla dialettofonia ancora ben radicata in un recente passato, era divenuta un vettore di emancipazione individuale e collettiva. L’Altissimo Poeta fu soprattutto studiato nelle classi, mandato a memoria, inserito nel percorso di formazione dell’alunno. Una lettura ben diversa da quella del 1921: l’orgoglio nazionale restava, ma era quello di una democrazia compiuta e in ascesa, che valorizzava le sue radici culturali.

Dante oggi: globale e internazionale, ma con le domande giuste

E’ difficile dire, oggi, quale sia il senso del nuovo centenario. Prevalente è l’idea, piuttosto generica, di un Dante “internazionale”, “globale”, che interpella donne e uomini del mondo intero con la forza ancora intatta della sua parola. Un Dante messaggero di “italianità”, come si sarebbe detto una volta, testimonial di una pacifica “grande potenza culturale”? Può darsi che questa, a livello governativo o istituzionale, sia o sia stata l’intenzione originaria. La sensazione, al di là delle iniziative – talune bellissime, altre nel solco della retorica consueta – è che a un Paese in cerca di sé stesso sia difficile chiedere un progetto prospettico, valido per il futuro. Dante, quindi, può sicuramente darci la risposta, ma spetta a noi porgli la domanda giusta. 

LeggiAMO | Dante, una vita da romanzo

Dante è da sempre, in un certo senso, un personaggio “da romanzo”: egli stesso ha descritto in forma (parzialmente) narrativa la propria vicenda biografica nella Vita nuova e poi in quell’immenso racconto in versi che è la Divina Commedia. Anche i suoi contemporanei vedevano in lui un individuo al centro di esperienze eccezionali e “romanzesche”, almeno a giudicare da un celebre aneddoto riportato da Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante: passeggiando un giorno a Verona il poeta viene additato come “colui che va nell’inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono” da alcune donne, che riconoscono nel suo colorito olivastro e nel nero crespo dei capelli gli effetti del calore e del fumo infernali. Dante, che ascolta i commenti delle donne, se ne compiace molto, “sorridendo alquanto”. Ma è soprattutto agli occhi dei moderni che il poeta appare dotato dei tratti tipici dei protagonisti dei romanzi: il carattere volitivo e determinato nell’affrontare i mille ostacoli dell’esistenza e la volontà inflessibile di raggiungere un determinato scopo: la salvezza eterna, ma anche la gloria. Non stupisce quindi che, in età moderna e contemporanea, la figura di Dante si sia ritrovata al centro di molte opere narrative, scritte anche prima del fatidico settecentenario che si celebra quest’anno. 

Mario Tobino, Biondo era e bello, Mondadori 1974
Mario Tobino, psichiatra e scrittore, ripercorre passo passo la vita di Dante, intrecciando eventi storici e documentati con dettagli romanzeschi necessariamente inventati. Soprattutto viene approfondito quel lato emotivo e psicologico dell’esistenza del poeta che ci risulta normalmente oscuro o che si può dedurre indirettamente solo dai dettagli sparsi nelle sue opere. Dall’infanzia, quando il piccolo Dante sente nascere in sé, come “liberato da un dio”, il primo afflato poetico, fino alla morte, alla presenza dei familiari più cari. Tobino segue il percorso umano e letterario del poeta nel contesto dell’Italia del Due-Trecento, servendosi di uno stile visionario e dinamico, a tratti quasi poetico. 

Punti di forza: lo stile originale; la ricostruzione suggestiva degli eventi storici e biografici.

Quale Dante? Un Dante “tridimensionale”, arricchito di tratti psicologici inediti.

 

 

Enzo Fontana, Tra la perduta gente, Mondadori 1996
Nell’ultimo anno della sua vita, il 1321, Dante si trova a Ravenna, sotto la protezione del podestà Guido Novello da Polenta. Affaticato ma ancora energico ripensa al suo passato, ai lunghi anni di lontananza dai figli, che ora sono con lui, alla
Commedia, conclusa da poco, cui apporta gli ultimi ritocchi. Accetta con entusiasmo l’incarico affidatogli da Guido, di compiere una missione diplomatica a Venezia, ma proprio da quel viaggio tornerà febbricitante, e poco dopo morirà, circondato dai suoi cari. 

Punti di forza: l’empatia che l’autore mostra nei confronti del suo Dante.

Quale Dante? L’uomo alla fine della vita, afflitto dalla sofferenza dell’esilio ma fiero e consapevole del proprio valore.

 

 

Giulio Leoni, Dante e i delitti della medusa, Mondadori 2000
Nel primo di una fortunata serie di gialli storici che lo vede protagonista, Dante si muove, in qualità di Priore, in una Firenze cupa e inquietante, per indagare sull’omicidio raccapricciante di una celebre cantante. Attorno all’improvvisato investigatore figurano personaggi a noi noti della letteratura e della storia di quegli anni, da Guido Cavalcanti a Lapo Gianni al cantore Casella, citato nel Purgatorio e compagno, nella finzione narrativa, della donna assassinata. Il Dante di Giulio Leoni è certo meno affascinante di quello della Divina Commedia, ma l’operazione di riutilizzo della sua figura in un romanzo di genere è senz’altro interessante. 

Punti di forza: la descrizione della Firenze del Trecento come luogo di intrighi e delitti; la trama gialla avvincente.

Quale Dante? Un investigatore dilettante, non esente da vizi e difetti, che si fa guidare più dalle emozioni che dalla logica.

 

 

Hafez Haidar, Il viaggio notturno del Profeta, Piemme 2008
L’autore immagina che Dante, in esilio a Verona, riceva la visita di un misterioso frate, proveniente da Toledo, che gli porta in dono la traduzione di un testo arabo, la
Scala di Maometto. Questo codice esiste davvero, risale al VII secolo e Hafez Haidar ne offre, nel suo romanzo, la prima versione in italiano; il tema è un viaggio che Maometto avrebbe compiuto, sotto la guida dell’arcangelo Gabriele, dalla Mecca a Gerusalemme e poi fino al settimo cielo, il tutto nello spazio di una sola notte. Riprendendo una nota teoria sulle possibili fonti arabe della Divina Commedia, Haidar ipotizza che Dante abbia composto il suo poema ispirato da questa lettura e dopo aver vissuto egli stesso, in sogno, un viaggio nei regni dell’aldilà.  

Punti di forza: lo stile onirico, da Mille e una notte; la divulgazione di un testo arabo che racconta una vicenda simile a quella della Divina Commedia.

Quale Dante? L’esiliato, che rimpiange Firenze e Beatrice e sogna di lasciare una traccia grazie al suo poema.

 

Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori 2012
Uno dei più grandi dantisti moderni, scomparso di recente, ha scritto questa imprescindibile “biografia romanzata” del poeta, dettagliata fino ai minimi particolari (chi avrebbe mai detto che Dante fosse grande amico del fratello di Beatrice-Bice Portinari?) e scorrevole come la più gradevole delle opere di finzione. 

Punti di forza: la serietà assoluta dell’autore e la sua abilità di affabulatore.

Quale Dante? Il Dante storico, reso più vivo dalla ricchezza dei particolari desunti con acribìa da ogni riga delle fonti note.

 

 

 

Matteo Strukul, Dante enigma, Newton Compton 2021
L’autore, specializzato nel raccontare epoche passate con un tono e un ritmo da fiction televisiva (come dimostra il caso della fortunata saga dei Medici), si è molto documentato per raccontare gli anni (dal 1288 al 1293) della giovinezza di Dante. Il suo scopo, dichiarato fin dal titolo, è colmare con la fantasia alcuni interrogativi insoluti sulla vicenda biografica del poeta, a partire dalla (forse) difficile conciliazione tra l’amore ideale per Beatrice e il rapporto con la moglie, Gemma Donati. Protagonista del romanzo è anche la storia di Firenze, con le feroci dispute tra guelfi bianchi e neri e le guerre con le altre città toscane. 

Punti di forza: il ritmo incalzante, da fiction televisiva, con cui viene raccontata la storia di Firenze; l’abile fusione di realtà e finzione.

Quale Dante? Un giovane uomo innamorato dell’amore e di Beatrice, costretto a scendere a compromessi con la dura realtà dei suoi tempi. 

Ripartiamo. Riaprono i musei

Dopo un anno vissuto pericolosamente, siamo alla ripartenza: i musei e le istituzioni culturali riaprono. Ma potrà tornare tutto come prima del Covid? E che cosa abbiamo imparato da questa esperienza?

Riaprono i musei, le mostre, le gallerie d’arte, i siti monumentali e gli scavi archeologici; riaprono cinema e teatri e ciò segna, al di là della retorica massmediatica, un passaggio importante sul quale è importante riflettere, soprattutto per le prospettive future. Lasciando cadere qualsiasi dietrologia relativa alla questione se sia stato giusto, o meno, chiudere al pubblico le istituzioni museali, i complessi monumentali e i luoghi dello spettacolo, i quali, per altro, sull’esperienza del lockdown del 2020 si erano per la gran parte dotati di sistemi e di protocolli di sicurezza, credo sia giunto il momento di riflettere su quali questioni si siano aperte in conseguenza all’emergenza sanitaria.

La chiusura forzata dei “luoghi della cultura” ha marginalizzato ulteriormente l’esperienza culturale rischiando di consolidare la convinzione che l’esperienza culturale diretta con l’opera d’arte, con il monumento, con il museo non sia indispensabile, anzi non sia necessaria e, in ogni caso facilmente sostituibile con altri mezzi. Superate le preoccupazioni sulle condizioni di sicurezza, sono emerse in questi giorni considerazioni sulla economicità o meno delle aperture che toccano il tema oggi centrale dei musei, come evidenziato anche dal dibattito avviatosi all’interno di ICOM sulla definizione dell’istituzione museale, sulla sua identità, sulle tipologie dei pubblici, sui modelli di gestione, sulle forme dei rapporti verso le comunità.

Durante la chiusura forzata, ogni istituzione museale, grande o piccola che fosse, ha cercato di mantenere un rapporto con l’esterno attraverso la messa in campo di una serie variegata di proposte digitali, di visite virtuali, di brevi approfondimenti su alcune opere del proprio patrimonio con esiti diversi e non sempre di alta qualità. Tuttavia quella necessità ha spinto i più a confrontarsi con gli strumenti della comunicazione a distanza e del racconto virtuale, la quale, a sua volta, ha mostrato dei limiti, non strutturali, ovviamente, ma di contenuto e di approccio. Non basta, infatti, riversare nel digitale tour virtuali, già visti in molti casi, micro schede di opere, come “pillole” di sapienza o testi banalizzati per poter essere attrattivi per un pubblico generalizzato sì, ma non generico e che spesso è smaliziato nell’uso del web ed è capace di scegliere e che quindi va invogliato in modo intelligente ad entrare in contatto con le realtà culturali.

L’apertura di questi giorni, che ci si augura definitiva, non cancellerà quell’esperienza, come del resto la DAD non sarà messa nel dimenticatoio come un brutto ricordo perché proprio quelle esperienze hanno fatto intravedere delle possibilità e con esse dobbiamo fare i conti. Pur nella profonda convinzione che che nulla può sostituire il rapporto diretto con le opere e con i contesti, va altresì sottolineata la grande potenzialità di arricchimento, di coinvolgimento, di superamento delle gerarchie culturali, sociali, economiche che l’impiego intelligente, variegato, perennemente rinnovato del digitale possiede. La possibilità di raggiungere una larghissima fetta di pubblici deve indurre i musei e le istituzioni culturali in genere ad elaborare linguaggi, strategie di comunicazione, soprattutto sistemi di mediazione, coinvolgimento e diffusione di contenuti e chiavi di lettura del patrimonio storico-artistico come strumento di condivisione e formazione dei cittadini; anche perché andrebbe portata a compimento la missione del museo come servizio pubblico, secondo quanto prescritto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, elaborando un progetto articolato ed efficiente. Esistono tanti modi di costruire una storia a partire da ciò che un museo custodisce anche attraverso le potenzialità virtuose delle nuove tecnologie, insieme alla capacità che un’istituzione culturale deve possedere di connettersi con i nuovi pubblici.

Significativo in questo senso è stato l’appello-manifesto che Sylvain Bellenger (direttore del museo e della Reggia di Capodimonte a Napoli), Sergio Risaliti (direttore del Museo Novecento a Firenze) e Giovanni Iovane (direttore dell’Accademia di Brera a Milano) hanno pubblicato in “Artribune” il 20 novembre 2020 rimarcando la necessità che i musei, pur non rinunciando ad essere luoghi di conservazione del patrimonio e di ricerca, siano allo stesso tempo “campus dinamici, poli culturali” nel senso che siano, dove possibile, anche “luoghi interdisciplinari di residenze artistiche e di laboratori creativi, istituti di formazione e perfezionamento per curatori, restauratori e mediatori culturali”. Insomma, i musei devono cogliere questa occasione per darsi un nuovo e diverso posizionamento in ambito culturale e sociale.

La ripresa di una circolazione turistica multiforme dovrebbe essere, appunto, l’occasione per elaborare approcci e mediazioni culturali al patrimonio storico-artistico, così come all’ideazione e organizzazione di mostre, più consapevoli, più selezionati e più meditati rendendo la qualità delle scelte sempre più attrattiva e coinvolgente, avendo anche la responsabilità di contribuire a formare non solo il senso di un’appartenenza culturale, ma anche il gusto del pubblico. 

Di nuovo centrale dovrà essere il rapporto con il mondo della scuola e della formazione a cui vanno dedicate attività laboratoriali, integrate con quelle scolastiche, certo, ma a cui va aggiunta la prospettiva di una formazione permanente e la crescita di giovani mediatori culturali intesi come opportunità per avvicinare le loro famiglie e le loro culture al patrimonio storico-artistico.

Il cambio di rotta, il riallineamento consapevole a nuovi modelli di gestione di relazioni con il pubblico da parte dei musei ha bisogno non soltanto di fondamentali decisioni a livello politico e istituzionale, ma ha soprattutto bisogno di un cambio di mentalità, di allacciare strette relazioni con le Università, i centri di ricerca, le scuole di ogni ordine e grado, le comunità in una prospettiva che abbia il coraggio di essere nuova. 

Per approfondire

Matematica… sotto l’ombrellone

Cara lettrice, caro lettore,

in spiaggia sotto l’ombrellone o su un bel prato di montagna non c’è compagnia migliore di un buon libro. Per accompagnare il tuo relax estivo, voglio consigliarti delle storie avvincenti in cui la matematica ha un ruolo rilevante, talvolta anche da protagonista.

Quando Camilleri sbagliò i conti

Andrea Camilleri è conosciuto soprattutto per il personaggio di Salvo Montalbano, commissario di polizia di Vigata, l’immaginaria città siciliana ispirata a Porto Empedocle e ai suoi dintorni. Lo scrittore ha rivelato di utilizzare un metodo rigorosissimo per scrivere i romanzi di Montalbano: diciotto capitoli di dieci pagine ciascuno, non una di più, non una di meno. Però nel racconto “Trappola per gatti”, tratto dalla raccolta “Un mese con Montalbano”, il grande scrittore siciliano si è lasciato sfuggire un errore di conto. Nella storia, settantasette negozianti devono pagare il pizzo con cadenza mensile, con “tariffe ad personam che variavano dalle cento alle trecentomila lire”. Date queste premesse, non si può che rimanere sorpresi quando, poco oltre, si legge che la somma raccolta da tutti i commercianti in un mese è pari a centosettanta milioni. Infatti la cifra dovrebbe essere compresa tra un minimo di sette milioni e settecentomila lire (centomila lire per settantasette negozianti) e un massimo di ventitré milioni e centomila lire (trecentomila lire per settantasette negozianti). L’errore però è di Camilleri; Montalbano invece riesce a far scattare la sua trappola per gatti e a mettere nel sacco i riscossori del pizzo.

Denis Guedj: la storia della matematica diventa romanzo

La storia della matematica è vastissima e ricca di vicende affascinanti, che sconfinano nella leggenda. La misteriosa morte in mare di Ippaso di Metaponto, colpevole di aver divulgato al di fuori della scuola pitagorica l’incommensurabilità della diagonale di un quadrato rispetto al lato (quella che oggi chiameremmo l’irrazionalità della radice di due), l’evoluzione dei sistemi di numerazione e la nascita dello zero, le sfide tra i matematici italiani del Rinascimento…

Denis Guedj, professore di storia della scienza nell’università Paris VIII, è riuscito a trasporre numerosi di questi episodi in romanzi appassionanti. Il più famoso è il giallo “Il teorema del pappagallo”, che intreccia una misteriosa vicenda della Parigi del XX secolo agli eventi principali della storia della matematica. Guedj ha anche romanzato la storia del calcolo della lunghezza del meridiano terrestre nella Francia rivoluzionaria, tra intrighi politici e guerra civile (“Il meridiano”), e l’analoga misurazione effettuata da Eratostene di Cirene nell’Egitto tolemaico (“La chioma di Berenice”). Il suo romanzo che preferisco è “Zero, o le cinque vite di Aemer”, il cui punto di vista non è quello degli scienziati, ma di cinque donne che, in luoghi e momenti diversi della storia, si sono trovate nella posizione privilegiata di osservare il lungo percorso che ha portato alla nascita della cifra 0.

La matematica astratta come storia d’amore

Dalla storia saltiamo alla fantascienza con “Divisione per zero” di Ted Chiang, dall’antologia “Storie della tua vita” (che include anche “Storia della tua vita”, da cui è stato tratto il film Arrival di Denis Villeneuve). Si tratta del racconto di una storia d’amore, in cui un problema dei fondamenti della matematica fa da contrappunto alla storia di due coniugi, a partire dal loro incontro fino alla loro separazione. Ognuna delle nove scene è preceduta da una brevissima spiegazione che accompagna il lettore nella comprensione del problema della coerenza della matematica, cioè del motivo per cui sarebbe disastroso scoprire che la matematica è contradditoria. Ted Chiang è riuscito a tradurre questo problema squisitamente astratto in una vicenda umana concreta, in cui è possibile immergersi completamente partecipando alle gioie e alle sofferenze dei protagonisti. Perché la matematica non è solo numeri e simboli, ma anche anima e, soprattutto, cuore.

Riferimenti

L’intervista a Camilleri in cui l’autore spiega il metodo che adotta per scrivere i romanzi di Montalbano: guarda l’intervista