L’influenza africana sull’arte europea: questione di sguardi

Questo articolo affronta alcuni aspetti problematici dei rapporti euro-africani in ambito artistico in epoca moderna e contemporanea. Nella letteratura e nella prassi museologica si è consolidata, nel tempo, una visione talvolta semplicistica e parziale di tali rapporti, che si è limitata a rilevare l’assimilazione, da parte delle avanguardie storiche europee di inizio Novecento, di forme e modelli provenienti dall’arte e dall’artigianato coloniale, ovvero da quei paesi extraeuropei (in particolar modo Africa, Oceania, America Centrale), considerati all’epoca primitivi, esotici e, di fatto, asserviti alle potenze imperiali occidentali.

Per affrontare il rapporto intercorso tra Africa ed Europa in termini storico-artistici tra XIX e XX secolo, è necessario munirsi di un buon grado di consapevolezza in quello che può essere considerato il processo primario di ogni assimilazione e comunicazione visiva: lo sguardo. Guardare, esporre allo sguardo, creare e agire per lo sguardo, sono azioni mai prive di significato politico, culturale, antropologico, come riesce a dimostrare John Berger nel suo celebre ciclo di video-lezioni concepite per BBC Two nel 1972 e confluite poi nel volume Ways of Seeing

La grande influenza dell’arte africana sull’arte moderna europea è stata il prodotto di un rapporto di sguardi essenzialmente europei, che possiamo definire interni ed esterni, ossia lo sguardo dell’individuo occidentale su sé stesso e il suo sguardo verso quel che in definitiva considerava altro da sé: l’individuo africano o comunque extra-occidentale (euroamericano). Quel che si è perso, in questa narrazione dell’arte occidentale diventata ben presto canone, è lo sguardo extra-europeo sull’occidente.   

Nel film di Quentin Tarantino Django Unchained (2012), Leonardo Di Caprio interpreta lo spietato possidente terriero e schiavista americano Calvin Candy. In una scena carica di tensione, Candy espone allo sguardo dei suoi ospiti il teschio, perfettamente conservato, dello schiavo africano che aveva servito la sua famiglia per più di una generazione: Old Ben. Egli arriva a eseguire una craniotomia live per dimostrare le cause della sottomissione della “razza negra” a quella occidentale; la frenologia costituirebbe dunque una scienza esatta, in grado di giustificare e spiegare sotto un profilo assolutamente biologico ed evolutivo l’inferiorità degli Africani rispetto alla “razza bianca”. Se nel film di Tarantino le vicende dello schiavo liberato Django risultano inverosimili nella loro tragicomicità, il contesto in cui si svolgono è assolutamente veritiero e storicamente coerente a un pensiero culturale e politico ampiamente diffuso in America e in Europa intorno alla metà dell’Ottocento. La storia dell’arte occidentale, così come la conosciamo nella manualistica scolastica e universitaria, può fornire un utile supporto nella comprensione di quello sguardo interno (proiettato su noi stessi, individui e comunità occidentali) che all’epoca di cui trattiamo porta a discriminare addirittura scientificamente “loro”, gli “altri” (popoli africani e di altre provenienze non occidentali).

Si può iniziare questa rapida ricognizione dal dipinto di Joseph Wright of Derby, Esperimento su di un uccello inserito in una pompa pneumatica (1768), in cui vediamo simbolicamente accendersi la luce della scienza e della conoscenza all’interno della comunità inglese illuminista. La scena, per gli sguardi di stupore, meraviglia e triste preveggenza che circondano l’apparizione luminosa dell’oggetto di culto al centro del quadro, potrebbe di primo acchito ricordare quella di una natività, se non fosse che al posto del Gesù bambino, futuro dio fatto uomo e immolato sulla croce, troviamo la pompa pneumatica. L’esperimento scientifico assume funzione di rito e l’uccellino destinato a morire soffocato è la vittima da sacrificare nel nome del bene collettivo. L’idea che ci identifica come comunità occidentale illuminata inizia proprio da questo modo di guardarci, di ritrarci e raffigurarci. Allo stesso tempo il modello di eroe contemporaneo, vincente e dominante, è quello del Napoleone attraversa le Alpi al Gran San Bernardo di Jacques Louis David (1800), oppure de La libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix (1830), dove l’eroe non è più tanto un modello individuale cui guardare per trovare ispirazione, quanto piuttosto ogni singola parte di un’unità simbolica: l’identità nazionale, sociale e politica, che trova nel movimento rivoluzionario collettivo un senso comune di appartenenza. Altre opere ci informano di uno sguardo auto-riflessivo come società progredita, sia in senso tecnologico-scientifico (si pensi al romantico ma anche proto-impressionista o addirittura proto-futurista dipinto di William Turner Pioggia, vapore e velocità, 1844), sia in quello di un costume sociale sempre più inurbato, emancipato e auto-determinista, espresso bene ne La lettrice di Federico Faruffini (1864-65) o nelle diverse eppur coerenti scene di vita parigine dipinte da Claude Monet (Il carnevale al Boulevard des Capucines, 1873) e Gustave Caillebotte (Strada di Parigi: tempo di pioggia, 1877) ma anche da Henri de Toulouse-Lautrec (Al Moulin Rouge, 1892-1893). 

Muovendoci rapidamente lungo un secolo, tra Inghilterra, Francia e Italia, siamo così arrivati al decennio che chiude il secolo XIX, un’epoca segnata dal pensiero illuminista e positivista il cui simbolo visivo potrebbe senz’altro essere la Tour Eiffel. Inaugurata nel 1889, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, come è noto questa costruzione cela nel terzo piano un “locale segreto”: un confortevole appartamento, voluto dal suo stesso progettista, Gustave Eiffel, accessibile soltanto a lui e ai suoi ospiti. Fra questi, come oggi documenta il diorama ricostruito all’interno, vi fu anche il geniale inventore americano Thomas Edison. I due effettivamente si incontrarono lì durante i giorni dell’Expo parigina e, dall’alto di quell’opera monumentale, che manifestava e ricordava il successo e il dominio del pensiero razionale occidentale, è possibile abbiano concordato sul fatto che quell’epoca poteva ben essere definita all’avanguardia anche e soprattutto grazie all’ingegno di persone come loro: quell’incontro conchiudeva simbolicamente l’affermazione su scala globale di un modello culturale dominante, quello euro-americano.

Tale modello fondava le sue basi anche sul colonialismo, giustificato perfino “scientificamente” da teorie – e purtroppo anche da pratiche – che stabilivano non tanto una gerarchia di merito e supremazia tra i popoli, quanto una scala di differenziazione specifica tra le “razze umane”, lungo la quale ovviamente gli individui africani si collocavano sul gradino più basso mentre i colti borghesi europei su quello più alto. Tale presunzione para-scientifica veniva divulgata in quelle stesse Esposizioni Universali che presentavano le più aggiornate conquiste tecniche nei più svariati campi di applicazione economica, artistica e sociale. Tra i divertissements venduti durante l’Expo parigina vi erano anche le Vues Stéréoscopiques, un sistema di riproduzione delle immagini che permetteva di osservare delle fotografie all’interno di un visore bioculare che restituiva l’effetto ottico della tridimensionalità (l’antenato del nostro Oculus). Tra le vedute stereoscopiche prodotte dalle edizioni Paris-Stéréo nel 1889, la serie n. 16 permetteva di osservare il Village Nègre. Si trattava della documentazione fotografica delle oltre quattrocento persone deportate a Parigi da diverse colonie francesi in Africa, per essere esposte al pubblico nelle loro “abitudini quotidiane” durante l’Expo. Questa triste pratica inaugurava i cosiddetti “zoo umani” diffusi nelle varie esposizioni universali inaugurate a decine nell’emisfero occidentale dell’epoca. Nell’intenzione dei governi che agevolavano tali prassi, la presenza dei “villaggi negri” in questo tipo di rassegne stava a marcare in modo tangibile e fisico l’incolmabile distanza, la differenza tra la società civilizzata del modello europeo e i “selvaggi”, quei popoli sottosviluppati provenienti dalle colonie. Più sottilmente si trattava di una forma retorica di propaganda estrema che tendeva a rafforzare nelle società occidentali la convinzione nel e il sostegno al modello di sviluppo occidentale fondato sullo sfruttamento delle colonie e dell’altro.

Si può, anzi si deve precisare che benché tale visione fosse di fatto dominante all’epoca, non era in ogni caso totalizzante e univoca nella società occidentale, esistendo un pensiero alternativo. Tuttavia, è bene ricordare come il razzismo scientifico si fosse insediato anche nelle menti più lucide e prestigiose del pensiero filosofico moderno, basti pensare ad alcuni brani contenuti nelle lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, dove si afferma che lo stato di barbarie a cui si trova l’Africano non consente all’Europeo di immedesimarsi e quindi comprendere pienamente la sua natura, così come non è possibile farlo nei confronti di un cane. Se ne deduce, secondo Hegel, che il rapporto di schiavitù è l’unico in grado di stabilire un canale di comunicazione tra “loro” e “noi”, anzi per Hegel la schiavitù rappresenta un’opportunità per gli Africani di evolversi a stretto contatto con gli esseri civilizzati superiori. Hegel, certamente, precisa che la schiavitù rappresenti un’ingiustizia contraria all’essenza libera dell’essere umano, tuttavia non può esimersi dal riconoscere che per conquistarsi la libertà l’uomo deve prima acquisire la necessaria “maturità”. Nel pensiero occidentale ottocentesco la cultura dell’altro da sé viene dunque semplificata in un infantilismo barbarico, suscettibile di essere manipolato, dominato, “educato” a discrezione del popolo illuminato dominante. Nascono in questo secolo termini e miti come quello del “buon selvaggio” (che affonda le sue radici nello “stato di natura” ipotizzato da Jean-Jacuques Rousseau nel suo Discours sur les sciences et les arts, 1750), dell’“arte negra” ma soprattutto del “primitivismo”. Quest’ultimo termine fa la sua comparsa nel Nouveau Larousse Illustré del 1897, mentre nel 1915 Carl Einstein pubblica il suo celebre saggio sulla scultura africana dal titolo Negerplastik

Il confronto con le “culture altre” prende così vita nei centri urbani europei, non soltanto tramite le Esposizioni Universali ma anche attraverso i primi musei tematici. Parigi rappresenta ancora, in questo senso, l’epicentro di una tendenza che vede sorgere in tutta Europa i musei coloniali ed etnografici, con l’istituzione del Musée Permanent des Colonies (1855) e più tardi nel più noto Musée d’Ethnographie du Trocadéro (1878-1935). Il Trocadéro (come veniva comunemente chiamato a Parigi) si trovava a poche centinaia di metri dalla Tour Eiffel ed era meta frequente delle esplorazioni urbane di alcuni artisti dell’avanguardia parigina internazionale, come ad esempio Matisse, Picasso, Braque, Brancusi e Modigliani, solo per citarne alcuni tra i più noti. All’intero del museo erano esposti, secondo uno schema accumulatorio tipico della museografia dell’epoca, gli oggetti più disparati provenienti dai paesi extraeuropei: amuleti rituali accanto ad armi, utensili agricoli, capi d’abbigliamento e oggetti d’uso quotidiano, tutto senza alcuna contestualizzazione. Il museo come contenitore dei trofei o dei frutti simbolici della colonizzazione permane ben oltre il XIX secolo, basti pensare che nel 1931, con l’Exposition Coloniale Internationale, a Parigi si inaugura il Palais de la Porte Dorée, di fatto un museo delle colonie il cui edificio, esistente ancora oggi, ospita dal 2007 il rinnovato Museo Nazionale di Storia dell’Immigrazione.

La presenza degli artisti in questa tipologia di musei è sicuramente un primo elemento di rottura in un sistema culturale costruito sulla dimostrazione quotidiana della superiorità europea nei confronti delle culture altre. Gli artisti sono uomini del loro tempo, perciò pur spiegandosi anch’essi con termini come “arte negra” o “arte primitiva”, di fatto aprono, con le loro ricerche, a una contaminazione del linguaggio espressivo occidentale che senza dubbio è stata ed è ancora oggi uno dei fenomeni che ha avuto conseguenze e implicazioni più profonde e durature sullo sviluppo delle arti visive globali. Nel discorso storico-artistico, del resto, con il termine primitivismo non si identificano solamente e non tanto le arti plastiche di Africa, Oceania, Asia e Centroamerica, quanto varie declinazioni del confronto innescato dagli artisti occidentali con le civiltà lontane dagli epicentri dell’arte europea (lontane geograficamente o culturalmente). Per questo, nell’ultimo decennio del XIX secolo, la contaminazione del canone, e in un certo senso il suo rinnovamento in senso primitivista si può riscontrare nei paesaggi esotici e naif di Herni Rousseau, come nei quadri eseguiti a Thaiti da Gauguin, o ancora nelle scene bretoni dipinte dallo stesso Gauguin e da Van Gogh. In Italia la ricerca sui primitivi si orienta verso l’arte espressa dai pre-rinascimentali, come Giotto e Masaccio, portando a risultati come Le figlie di Loth di Carlo Carrà (1919), oppure indaga la plastica delle statue funerarie etrusche, come nel caso delle grandi terrecotte eseguite da Arturo Martini degli anni trenta.

Nei primi anni del XX secolo Henri Matisse fu l’artista che maggiormente colse e seppe far propri gli stimoli provenienti dalla visione e dallo studio delle opere d’arte africana, non soltanto grazie ai musei e alle esposizioni parigine ma anche attraverso un’esperienza diretta presso i popoli dell’Africa settentrionale, dove l’artista si reca più volte fino al 1907, anno del suo viaggio in Italia. Le geometrie di sculture e tessuti africani forniscono a Matisse nuovi spunti di carattere formale e strutturale, che egli riporta nella composizione dei propri dipinti di quegli anni, in una fusione di riferimenti alla tradizione pittorica rinascimentale e alle arti africane. Tale sapiente integrazione e rielaborazione di modelli per certi versi antitetici è percepibile anche in opere fondamentali del suo percorso, ben note al grande pubblico, come La joie de vivre (1905-06) o La danse (1910). Anche in opere più tarde come Portrait de M.me Matisse (1913) e Sculpture et vase de lierre (1916-17) la citazione quasi letterale della scultura africana (rispettivamente nel volto della moglie e nella statua) sottende a un ripensamento globale delle geometrie interne al dipinto. 

Come è noto, negli stessi anni dei viaggi africani di Matisse, e in particolare nel 1907, Pablo Picasso completa l’opera che nella letteratura segna l’avvio del cubismo: Les demoiselles d’Avignon (1907), dipinto rimasto visibile per lungo tempo soltanto nello studio dell’artista, che ritrae la celebre scena di nudo di un gruppo di prostitute. L’opera si completa formalmente con la metamorfosi di tre dei cinque volti di donna in maschere africane. Al contrario di Matisse, che nell’arte extraeuropea trova soluzioni inedite ai rapporti geometrici interni a pittura e scultura, Picasso è attratto dalla potenza emozionale, persino spirituale che la sintesi dell’arte africana era in grado di comunicare. Certamente non si trattava soltanto di questo: anche dal punto di vista formale e compositivo i dipinti di Picasso del periodo analitico (seconda metà del primo decennio del secolo) dimostrano rapporti volumetrici e geometrici di chiara derivazione africana. Gli studi di Picasso, di Matisse e di George Braque erano luoghi in cui oggetti artistici o rituali provenienti dall’Africa si potevano ammirare esposti alle pareti.

Nei primi anni dieci del Novecento – mentre l’influenza africana si perpetuava anche in alcuni assemblaggi della versione sintetica della ricerca cubista di Picasso – sempre a Parigi la sintesi formale ispirata alle maschere dei popoli Fang e Makongo si diffonde e si ritrova ben presente nelle sculture di Constantin Brancusi (Mademoiselle Pogany, 1912, La Maiastra, 1912) e Amedeo Modigliani (Testa, 1911-13). La ricezione dei modelli artistici provenienti dal continente a sud del Mediterraneo è evidente anche in altri movimenti d’avanguardia europei, coevi ai Fauves e ai Cubisti, basti pensare ai dipinti ma soprattutto alle xilografie del gruppo espressionista Die Brücke, fondato a Dresda nel 1905, pur in una più asciutta e nervosa configurazione grafica (Erich Heckel, Fränzi distesa, 1910; Karl Schmidt-Rottluff, Devozione, 1912). Con il procedere dei decenni sarà poi soprattutto il Surrealismo ad assimilare opere ed oggetti prodotti da popoli extraeuropei (soprattutto oceanici) in chiave straniante e irrazionale. 

Per concludere questa breve analisi, è opportuno fare un passo più vicino a noi e considerare un ulteriore sguardo focalizzatosi sulle vicende che abbiamo appena trattato: nel corso del Novecento, infatti, il fenomeno dell’influenza dell’arte africana sulle avanguardie europee è a sua volta diventato oggetto di sguardi e di esposizioni, non sempre centrati sul punto fondamentale della questione. Dal 27 settembre 1984 al 15 gennaio 1985 il Museum of Modern Art di New York ospitò la mostra Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern, a cura di William Rubin e Kirk Varnedoe. Ancora una volta lo sguardo privilegiato è stato quello eurocentrico, che mette in luce le opere d’arte africana soltanto nella misura in cui possono essere ricondotte a quelle ben più note e celebrate degli artisti modernisti occidentali. Sul numero di novembre 1984 di Artforum, Thomas McEvilly stigmatizzò l’allestimento e il taglio critico dell’esposizione, sottolineando l’assenza di dati e spiegazioni sul contesto di provenienza delle opere africane esposte, denunciando la repressione del contesto, dei significati, dei contenuti e concludendo che la mostra non aveva fatto altro se non dimostrare il perpetrarsi dei meccanismi di appropriazione culturale del colonialismo da parte dell’egoismo occidentale.

Di approccio completamente differente si è rivelata la mostra Africa Reborn. African aesthetics in contemporary art, curata da Philippe Dagen per il Musée du Quai Branly Jacques Chirac di Parigi (9 febbraio-11 luglio 2021). Lo sguardo si sposta qui sulle interrelazioni artistiche fra Africa e mondo un secolo più tardi rispetto ai fatti avvenuti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. La mostra mette infatti in evidenza come le estetiche, i linguaggi e le tradizioni africane abbiano continuato a influire e a fornire nuovi spunti negli artisti d’avanguardia di tutto il mondo, a partire dalla fine del secolo scorso. Significativamente il punto di partenza della mostra del Quai Branly è proprio il ricordo e la documentazione della fallimentare esposizione del MoMA Primitivism del 1984.

Oggi che nel micro-universo globalizzato dell’arte contemporanea ogni discriminazione di latitudine e longitudine sembra svanita, in favore di una sempre maggiore consapevolezza interculturale dei fenomeni artistici, è ormai consolidata l’abitudine non tanto a considerare l’arte africana nella sua specificità, ma a considerarla per molti aspetti come l’arte più interessante o – per restituirle un termine modernista – più d’avanguardia nella scena attuale. Anche queste sono semplificazioni, basti pensare all’abusata (ma vera) citazione che non esiste un’Africa ma tante Afriche (e come potrebbe essere altrimenti per un continente tanto vasto quanto complesso, vario e stratificato?). Da molti anni gli artisti provenienti da queste Afriche sono apprezzati e premiati nei contesti espositivi internazionali, basta citare i ghanesi John Akomfrah e El Anatsui, l’americana-etiope Julie Mehretu o i sudafricani William Kentridge e Marlene Dumas, mentre i più giovani emergenti, come Ibrahim Mahama o Godwin Champs Namuyimba, sono oggi all’attenzione della critica e del mercato.

Si può concludere questa breve analisi con quanto riportato sul sito della Phaidon, editore a fine 2021 della vasta ricognizione African Artists: From 1882 to Now: “l’arte moderna e contemporanea africana è in primo piano nell’attuale movimento curatoriale e collezionistico della scena artistica odierna”. Ci troviamo forse in prossimità di un giro di boa nell’incrocio di sguardi?

Bibliografia essenziale

  • John Berger, Questione di sguardi, il Saggiatore, Milano 2021.
  • Marine Degli, Marie Mauzé, Arts premiers. Le temps de la reconnaissance, Gallimard, Parigi 2006.
  • Manlio Dinucci, Geostoria dell’Africa, Zanichelli, Bologna 2000.
  • Joseph L. Underwood, Chika Okeke-Agulu, Phaidon Editors, African Artists: From 1882 to Now, Phaidon Press, New York-London 2021.

Scopri l’opera

  • Con gli occhi dell’arte” di Valerio Terraroli – Sansoni per la scuola – Rizzoli Education, 2022 – Testo di storia dell’arte per la scuola secondaria di secondo grado

Quanto contano le fonti nell’insegnamento della geostoria?

Il desiderio di conoscere: riflessioni di un’insegnante 

Quando insegniamo storia a scuola ci troviamo a combattere contro una serie di difficoltà pratiche: dover sintetizzare lunghi periodi e complesse dinamiche politiche o culturali in una manciata di ore; rendere comprensibile e auspicabilmente interessante per gli studenti una materia che a loro appare spesso distante e noiosa. Il primo problema ci costringe talvolta a una schematizzazione che rischia di diventare da un lato banalizzante, dall’altro troppo astratta. La seconda difficoltà è connessa alla natura stessa dell’insegnamento: il miglior maestro, come spiega Massimo Recalcati nel suo libro L’ora di lezione, è quello che chiarisce la materia ma allo stesso tempo riesce a destare nello studente il desiderio di saperne di più, sempre di più… Questo è il sogno di tutti noi insegnanti: lasciare una traccia nella memoria di chi ci ascolta, trasmettendo non tanto – o non solo – le date delle battaglie e i nomi dei generali, ma un metodo, una chiave per leggere la realtà e uno sprone a diventare, in qualunque campo, individui mentalmente attivi, interessati a scoprire e a conoscere e magari anche a creare, non solo fruitori passivi di tutto ciò che viene propinato dagli onnipresenti mass-media. Vorremmo insomma lasciare ai nostri studenti uno ktèma eis aièi, un possesso per sempre, per dirla con Tucidide. 

La giusta distanza 

La storia e la geostoria sono infatti tra le materie più adatte alla formazione intellettuale e persino etica di chi la studia con partecipazione e passione. La storia antica è infatti allo stesso tempo lontanissima e vicinissima al nostro mondo e alla nostra quotidianità. In classe mi capita spesso di fare collegamenti fra il mondo greco o romano e le dinamiche attuali, di cui si parla sui giornali o in televisione o su internet, ed è bello quando sono i ragazzi stessi a cogliere un’analogia o un richiamo tra le due epoche, perché mostrano in questo modo di aver compreso sia la vicenda antica sia quella moderna, scavando sotto la superficie e osservando i fatti con uno sguardo nuovo e acuto. Allo stesso tempo, però, il compito dell’insegnante è anche quello di evitare un appiattimento che porti a considerare tutti i secoli e le società uguali tra loro, perché sarebbe tanto scorretto quanto valutare il passato morto e sepolto e inutile al presente. Si tratta di trovare la giusta distanza.

L’utilità delle fonti  

In questo arduo compito ci vengono in aiuto le fonti antiche: testi letterari ed epigrafici, ma anche immagini e oggetti relativi alle epoche di cui dobbiamo parlare hanno infatti una duplice utilità nell’ambito dell’insegnamento. Da un lato permettono di ovviare al rischio che la nostra spiegazione risulti troppo astratta, offrendo un aggancio alla realtà concreta, dall’altro sono un mezzo immediato per spiegare in modo sintetico ma coinvolgente un evento o un fenomeno, mostrando sia le affinità sia le inevitabili divergenze tra la nostra società e quella antica. Penso a quanto sia utile l’orazione Per l’uccisione di Eratostene di Lisia per comprendere la condizione della donna nell’Atene del V secolo a.C., o il complesso iconografico dell’Ara Pacis per spiegare la politica di Augusto. Anche gli oggetti hanno in questo senso una grande importanza, soprattutto quando spieghiamo epoche come la preistoria, nelle quali non esistono fonti scritte: sappiamo quanto sia cruciale nello sviluppo del genere umano la produzione dei chopper, o come sia significativa dal punto di vista religioso e culturale la presenza di corredi funebri nelle sepolture degli uomini di Neanderthal. 

Ieri e oggi 

Grazie alle fonti antiche possiamo introdurre in classe anche un discorso metodologico sul fact checking, ovvero sulla valutazione critica delle informazioni a nostra disposizione, che risulta cruciale non solo nell’approccio al passato ma anche nella lettura del presente. I testi letterari sono infatti spesso faziosi, parziali e fortemente ideologizzati, mentre le immagini e gli oggetti presentano una difficoltà di interpretazione che dipende dal loro essere testimonianze “mute” che si prestano a molteplici letture. Hanno quindi le stesse caratteristiche delle fonti d’informazione nelle quali si imbattono oggi i nostri studenti: articoli di giornale, blog, ma anche le migliaia di immagini che ci circondano e di oggetti che ci vengono proposti come simboli più o meno espliciti di un modo di vivere e pensare…un semplice spot pubblicitario di pochi secondi può racchiudere in sé una molteplicità di messaggi reconditi che solo chi ha la mente allenata può afferrare. Studiare le fonti del passato può dunque aiutarci a decrittare le voci del presente, cogliendo elementi di continuità e discontinuità senza cadere nella trappola della retorica e della propaganda. 

Oltre i luoghi comuni

Con un approccio concreto all’insegnamento della geostoria, che passi attraverso l’uso massiccio delle testimonianze antiche, è possibile quindi sfatare alcuni pregiudizi su questa materia. La storia non è una disciplina remota e ardua da attualizzare: dinamiche scottanti e attuali come le migrazioni dei popoli o la questione ambientale non sono un’esclusiva del mondo moderno ma problemi coi quali si sono confrontati anche uomini e donne antichi. Perciò esiste una stretta e naturale commistione tra storia, educazione civica e geografia, al di là dei programmi ministeriali. I netti confini che tracciamo oggi tra le varie discipline non venivano percepiti allo stesso modo dagli antichi e, per esempio, per i Greci, storia, geografia e mito si confondevano tra loro: lo dimostra il celeberrimo inizio delle Storie di Tucidide, nel quale si cita Minosse come primo talassocrate della grecità. Anche le fratture nette che siamo costretti a porre, per utilità didattica e pratica, tra le varie civiltà, non hanno naturalmente un reale fondamento, e ancora facendo appello alle fonti lo possiamo facilmente mostrare ai nostri studenti: Erodoto ci mostra quanto la civiltà Egizia sia presente nell’immaginario greco; tutta l’arte romana è prova dell’influenza che la Graecia capta di oraziana memoria ebbe sul ferus victor latino; un brano di Sant’Agostino o un’immagine di San Giorgio che uccide il drago (derivata dall’iconografia di Bellerofonte e la Chimera) illustrano a sufficienza quanto a lungo sia sopravvissuta l’eredità culturale classica nel mondo cristiano.      

Per approfondire

Consigliamo di vedere la registrazione dei live streaming già tenuti dagli storici A. Però e R.Rao – Fonti scritte per la geostoria e Insegnare la geostoria attraverso le immagini e di non perdere le loro prossime lezioni di Le Umanistiche Live – Temi e metodi per la geostoria.

Scopri l’opera

  • Le porte della storia” di Riccardo Rao e Anna Però – La Nuova Italia – Rizzoli Education, 2022 – Testo di geostoria per la scuola secondaria di secondo grado

Il Giorno della Memoria – “Otto: autobiografia di un orsacchiotto” 8 concetti chiave per capire e ricordare.

 

A che età possiamo cominciare a raccontare ai bambini della Shoah?

La risposta a questa domanda è “a qualsiasi età”, infatti con le parole giuste e soprattutto con la storia giusta possiamo parlarne anche ai bambini più piccoli.

Le vicissitudini narrate nel libro “Otto: autobiografia di un orsacchiotto” sono particolarmente indicate per ripercorrere tutti gli avvenimenti che si sono succeduti durante il conflitto della Seconda Guerra Mondiale. Attraverso gli occhi di Otto possiamo osservare il succedersi degli eventi: la comparsa delle prime stelle gialle sul petto, l’arrivo delle SS e della Gestapo e la deportazione nei campi di concentramento, il conflitto armato, i bombardamenti, la fine della guerra e la ricostruzione.

L’orsetto, proprio come i bambini non riesce a capire alcune dinamiche, si interroga su alcune situazioni. Le racconta da spettatore e protagonista contemporaneamente.

Attraverso i suoi dubbi e le sue domande possiamo guidare le bambine e i bambini a esplorare l’argomento, a fare supposizioni e poi a conoscere la realtà dei fatti.

La scelta dell’autore, Tomi Ungerer, di scegliere come protagonista l’orsetto aiuta i bambini a empatizzare con la narrazione in quanto, quasi tutti, da bambini hanno avuto un orsetto o un peluche a cui erano molto legati e possono capire la relazione affettiva tra i protagonisti.

Il video qui proposto è suddiviso in tre parti:

  • prima parte: lettura e interpretazione della storia;
  • seconda parte: presentazione del puzzle e dei concetti chiave esposti dal libro;
  • terza parte: video tutorial con i passaggi per realizzare la bustina con il puzzle dell’orsetto.

Video

MATERIALI AGGIUNTIVI

LE AUTRICI

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

Il sale: estrazione e cristallizzazione

  • Discipline di riferimento > scienze, geografia, tecnologia e informatica
  • Destinatari > alunni del triennio conclusivo della scuola primaria
  • Obiettivo > a) conoscere cos’è il sale da cucina; b) conoscere come e in quale luogo avviene la sua estrazione; c) sperimentare la formazione dei cristalli di sale.

Sapete che cosa sono i minerali? Sono sostanze inorganiche allo stato solido, di origine naturale, con una composizione chimica ben definita e una struttura cristallina

Un esempio di minerale molto conosciuto è il sale da cucina, chiamato anche cloruro di sodio (formula chimica = NaCl).  

Questa immagine rappresenta le meravigliose saline di Mozia, che si trovano tra Trapani e Marsala. In questo luogo, sfruttando il calore del sole, si fa evaporare l’acqua del mare per separarla dal sale, che si deposita e si cristallizza sul fondo delle vasche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia è ricca di saline. Le si può trovare: 

  • in Emilia-Romagna, in particolare a Cervia (in provincia di Ravenna);
  • nel Lazio, in provincia di Viterbo (Saline di Tarquinia);
  • in Puglia, in provincia di Barletta-Andria-Trani (Salina di Margherita di Savoia);
  • in Sicilia, in provincia di Siracusa (Saline del Priolo);
  • in Sardegna, nel parco regionale di Molentargius.

 

 

Attività 1 

Provate a svolgere una ricerca su Google Maps (o Google Earth), poi collocate le saline su questa cartina muta dell’Italia. 

File 1 da scaricare

Attività 2

A questo punto, possiamo concretamente scoprire come si estrae il sale e come si formano i cristalli attraverso un semplice esperimento.

Consultate questa scheda per conoscere l’occorrente e il procedimento da seguire!

File 2 da scaricare 

Curiosità!
Già in tempi molto antichi, l’uomo imparò ad estrarre il sale ed era consapevole di quanto fosse prezioso: veniva usato per insaporire i cibi, per prolungare il tempo della loro conservazione e anche come vera e propria moneta di scambio.

Attività 3

Vi invito, per comprendere ulteriormente il valore del sale, a fare una ricerca con i compagni e l’insegnante sull’origine e sul significato della parola salario”. Sono certa che vi stupirà!

L’autrice 

Gloria Ragni

Insegnante di scuola primaria, promotrice del fare per apprendere e sostenitrice dell’utilizzo integrato del digitale nella didattica.  Ha un blog didattico https://maestraglo.altervista.org e condivide su Instagram le sue avventure da maestra (la trovate come @maestraglo). 

Conoscere il razzismo per combatterlo

Il 27 gennaio si celebra la Giornata internazionale della Memoria che, come è noto, è la data nella quale si ricorda la liberazione dei detenuti del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa. Un evento, quindi, strettamente legato all’orrore della Shoah.

Non va dimenticato, però, che la Shoah è stato il frutto delle teorie razziste che sono state sposate da ampi settori della scienza della prima metà del Novecento. A che punto è, oggi, la scienza? Che cosa ci dice a proposito delle razze e del razzismo?

Le buone notizie arrivano dall’America. Dall’altra parte dell’Oceano, da quasi un secolo gli psicologi stanno analizzando le credenze e i sentimenti reciproci della popolazione bianca e della popolazione di colore. Ebbene, gli studi dimostrano un marcato e costante calo degli stereotipi e degli atteggiamenti negativi. 

Le novità più importanti, però, arrivano dalle neuroscienze, ovvero dalla scienza che osserva da vicino il comportamento del cervello. Uno studio condotto da alcuni studiosi e studiose della Harvard University e della New York University, pubblicato su Nature Neurosciences del 2012, fornisce alcune chiavi di lettura che possono essere la base per una discussione o un’attività in classe.

Di fronte alla foto di una persona di un’etnia diversa, il nostro cervello si attiva in due tempi diversi:

  • la prima reazione produce una sorta di “allerta”, una reazione sostanzialmente negativa e di preoccupazione. Subito dopo, però, interviene la parte più razionale del cervello che mitiga il rifiuto;
  • tuttavia, se vengono mostrate immagini di persone famose, pur appartenenti a un’etnia diversa, la prima reazione di paura e rifiuto non si verifica.

Ovviamente, la stessa dinamica si presenta nel caso in cui la foto mostri una persona non famosa, ma comunque conosciuta dalla persona che si sottopone all’esperimento. Anche questa è una buona notizia. Qualsiasi sia la reazione della parte più arcaica del nostro cervello, le neuroscienze ci dicono che la conoscenza reciproca è la chiave per realizzare una società a misura di tutti.

E allora, ecco ribadita una delle principali funzioni della scuola, oggi: essere luogo di incontro e di conoscenza delle mille diversità. L’inclusione sostanziale inizia con la conoscenza.

La stella a sei punte con i pattern blocks

Cosa sono i pattern blocks?

Sono delle particolari forme tra le quali esistono delle interessanti relazioni. I pattern blocks sono di sei forme (e sei colori diversi) ma in questa proposta didattica ne vengono utilizzate solo quattro in una versione monocolore (gialla): l’esagono, il trapezio, il rombo e il triangolo equilatero (fig. 1).

 

 

 

 

Figura 1

L’obiettivo del gioco è quello di costruire una stella a sei punte utilizzando i pattern blocks. Tra gli allegati trovi tutti i materiali necessari per svolgere l’attività proposta: la sagoma della stella da riempire, i pattern blocks da stampare e ritagliare e una griglia triangolare sulla quale disegnare eventualmente le soluzioni individuate (fig. 2).   

               

 

 

 

 

 

 

Figura 2

Se gli alunni utilizzano queste forme per la prima volta è utile dedicare una prima fase all’esplorazione delle caratteristiche di ogni forma e alle loro relazioni. In particolare, osservando le forme, i bambini scopriranno che il rombo può essere costruito con due triangoli equilateri, il trapezio con tre triangoli oppure con un rombo e un triangolo e che l’esagono può essere costruito utilizzando due trapezi o tre rombi o sei triangoli oppure combinando tra loro le diverse forme.

La stella a sei punte può essere costruita in diversi modi: possiamo lasciare i bambini liberi di trovare la propria soluzione oppure chiedere di rispettare dei vincoli.

Possiamo chiedere, ad esempio, se la stella può essere costruita utilizzando tutti pezzi della stessa forma.

É possibile comporre la stella utilizzando solo triangoli? Sì (ne serviranno dodici).

É possibile comporre la stella utilizzando solo rombi? Sì (ne serviranno sei). 

A questo punto è interessante riflettere sulla quantità di triangoli e rombi necessari per comporre la stella: perché proprio la metà/il doppio? Perché la superficie di un rombo corrisponde a quella di due triangoli.

Continuiamo l’esplorazione.

É possibile comporre la stella utilizzando solo trapezi? No, anche se la superficie di quattro trapezi corrisponde alla superficie totale della stella. Infatti se utilizziamo come unità di misura il triangolo, l’area di un trapezio è uguale a tre triangoli e quindi quattro trapezi corrispondono a dodici triangoli ovvero la superficie della stella. Se non è possibile utilizzare solo trapezi, proviamo a capire quanti ne possiamo inserire al massimo: il numero massimo è tre (trapezi) ai quali dobbiamo aggiungere tre triangoli per completare la stella.

É possibile comporre la stella utilizzando solo esagoni? No, come per i trapezi, anche se la superficie di due esagoni corrisponde a quella della stella, non è possibile posizionare le due forme nella sagoma.

Dopo aver esplorato la possibilità di utilizzare tutte forme uguali, verifichiamo se è possibile utilizzare tutte le forme contemporaneamente.

É possibile comporre la stella utilizzando tutte forme diverse? No, anche se la somma delle superfici delle quattro forme corrisponde alla superficie della stella. È impossibile perché l’esagono può essere posizionato solo al centro e ciò impedisce la collocazione delle altre forme.

Si può proseguire invitando i bambini a comporre la stella con delle specifiche forme oppure chiedendo di verificare se è possibile farlo con i pezzi indicati o lasciandoli liberi di individuare altre possibili soluzioni. I bambini possono riportare le soluzioni trovate sulla scheda allegata incollando o disegnando i pattern blocks (fig. 3) oppure rappresentarle sulla griglia (fig. 4) o elencarle in una tabella come quella qui sotto riportata.

 

 

 

 

 

 


Figura 3,
Figura 4              

La tabella seguente contiene le possibili composizioni della stella a sei punte con i pattern blocks (le prime quattro soluzioni corrispondono a quelle finora esplorate).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come abbiamo visto, i pattern blocks possono essere utilizzati per familiarizzare con le forme geometriche o lavorare sul concetto di area. La possibilità di ragionare sull’area o sulla somma di superfici utilizzando, ad esempio, il triangolo come unità di misura rende questo lavoro adatto anche per i bambini più piccoli che ancora non conoscono le unità di misura convenzionali.

Sebbene questa proposta didattica può essere semplificata per le prime classi della scuola primaria può essere altresì arricchita, per i bambini più grandi, con ulteriori sviluppi. In particolare, queste forme, per le specifiche relazioni che esistono tra loro, sono utili anche per la comprensione del concetto di frazione. Possiamo infatti utilizzare l’esagono come intero di riferimento e indicare la frazione corrispondente alle altre tre figure: il triangolo 1/6 , il rombo 1/3 o 2/6 e il trapezio 1/2 o 3/6.

Possiamo introdurre le prime somme con le frazioni accompagnando ogni composizione con l’espressione corrispondente. Ad esempio, se comporremo la stella con due trapezi, due rombi e due triangoli scriveremo: 1/2 + 1/2 + 1/3 + 1/3 + 1/6 + 1/6 = 2 oppure 3/6 + 3/6 + 2/6 + 2/6 + 1/6 + 1/6 = 12/6 = 2.

Questa proposta didattica è solo una delle attività che è possibile svolgere con queste forme: un materiale semplice e divertente che si presta ad essere utilizzato in modi sempre differenti per facilitare l’apprendimento di importanti concetti aritmetici e geometrici.

Per approfondire

Scarica la griglia
Scarica la stella a sei punte
Scarica i Pattern Blocks

SIMONA FIORENTINO

Insegnante di scuola primaria, specializzata nella didattica inclusiva, con una grande passione per la matematica. Condivide idee e attività ludiche di matematica sulla pagina Facebook/Instagram @ludomatica.

Speciale giornata della memoria

LA TRAGEDIA DELLA SHOAH, a cura di Roberto Balzani

Il termine Shoah definisce oggi il genocidio nazista degli Ebrei avvenuto fra il 1939 e l’inizio del 1945. Esso deriva dalla lingua ebraica ed è utilizzato nella Bibbia con il significato di catastrofe e distruzione. Roberto Balzani nel suo nuovo manuale Come siamo La storia ci racconta (La Nuova Italia, 2022) ci introduce al tema con un’infografica dedicata ai campi di concentramento (doc. 1), propone un percorso storiografico con brani di Bauman, Collotti e Friedländer (doc.2) e un focus su Auschwitz (doc. 3) e infine porge in maniera dialogica il suo punto di vista sull’importanza del 27 gennaio come giorno della memoria in chiave europea (doc. 4).

 

Scarica il pdf completo della Tragedia della Shoah, a cura di Roberto Balzani

LIVE STREAMING, di Claudio Vercelli

Sul nostro sito puoi rivedere lo speciale de Le Umanistiche Live Memorie e storia della Shoah. L’impatto dello sterminio sulla coscienza europea con Claudio Vercelli. Lo storico contemporaneista esperto di Shoah ci guida in una ricca lezione sullo sterminio delle comunità ebraiche durante la Seconda guerra mondiale. Qual è il vero oggetto della riflessione e della comunicazione, sia tra il pubblico generalista che in un contesto più rigorosamente didattico?
Proponi il video integrale dell’evento ai tuoi studenti in classe!

Guarda il live streaming

Costruendo un gioco… si impara!

Hai mai proposto in classe la tombola delle tabelline? Si estraggono i bigliettini con le tabelline (es. 3×4) e i bambini che nella propria cartella hanno il risultato della moltiplicazione pronunciata (es. 12) devono coprire quel numero. Vince chi copre per primo tutti i numeri della propria cartella. È un gioco divertente e utile per esercitarsi con le tabelline, acquisire maggiore sicurezza e velocità nel calcolo orale.

È vero che giocando si impara, ma ancora di più se iniziamo con il progettare il gioco da utilizzare! Hai mai pensato quindi di proporre la costruzione della tombola delle tabelline? Inizialmente può sembrare un’attività semplice, ma via via emergono delle domande alle quali è possibile dare una risposta solo analizzando a fondo la tavola pitagorica. Quando sarà il momento di giocare, i bambini avranno già acquisito una maggiore confidenza con le tabelline!

Iniziamo proponendo ai bambini la costruzione delle cartelle, della tombola rivisitata, ognuna delle quali contiene dodici numeri. Possiamo inizialmente lasciare i bambini liberi di scegliere i numeri da inserire nella propria cartella. In questa prima fase osserviamo come procedono e quali scelte operano. Molto probabilmente, si renderanno subito conto che non è possibile scrivere qualsiasi numero, ma che è necessario sceglierli accuratamente.

Quando tutti i bambini hanno annotato sul quaderno i numeri da inserire nella propria cartella, possiamo procedere con un sondaggio: chiediamo quali numeri hanno scelto e riportiamo le risposte sulla lavagna senza commentare. Chiediamo se qualcuno ha scelto dei numeri pronunciando tra questi alcuni non presenti sulla tavola pitagorica e osserviamo le loro reazioni. Poi insieme analizziamo le loro proposte e, eventualmente, eliminiamo quelle non corrette.

Un’interessante domanda da rivolgere ai bambini è il motivo che li ha spinti a scegliere proprio quei numeri. Le motivazioni possono essere diverse e imprevedibili (es. tabellina che ricordano meglio) ed è importante raccoglierle perché saranno il punto di partenza per una riflessione successiva.

Torniamo al quesito iniziale: quali numeri inserire nelle cartelle? Trovarne dodici è un compito abbastanza semplice, ma affermare quanti e quali siano i possibili numeri tra i quali scegliere non lo è affatto. Non è possibile dare una risposta immediata, ma richiede un’attenta analisi della tavola pitagorica 10×10.

Iniziamo considerando l’intervallo dei numeri. Qual è il numero più piccolo che troviamo sulla tavola? L’1 ovvero il risultato di 1×1. E quello più grande? Ovviamente 100, il prodotto di 10×10! Individuiamoli sulla tavola: il primo si trova nella prima casella in alto a sinistra e il secondo nell’ultima casella in basso a destra!

Partiamo da una certezza: sulle cartelle della tombola non possiamo inserire numeri maggiori di 100. Ma possiamo inserire tutti i numeri da 1 a 100? No, alcuni numeri non sono presenti. Mancano ad esempio l’11, il 13, il 17 ecc.

Quali numeri ci sono? Possiamo stampare o preparare una griglia del 100 (fig. 1) e colorare o inserire solo i numeri che compaiono sulla tavola pitagorica. Scopriremo che ci sono 42 numeri diversi su 100 possibili! Osserviamo meglio. Ci sono la maggior parte dei numeri più piccoli poi cominciano a diradarsi: ci sono infatti trentuno numeri da 1 a 50 e undici numeri da 51 a 100. Tra i primi venti numeri (1-20) mancano solo 11, 13, 17, 19 (che sono numeri primi). Tra gli ultimi venti numeri (81-100) ce sono solo tre, e cioè 81, 90, 100.

Figura 1. Griglia del 100

Ora sappiamo quali numeri possiamo inserire nelle cartelle. Ma possiamo sceglierli casualmente? Tutti i numeri hanno la stessa probabilità di uscire? No! Ad esempio, è più probabile che esca 24 rispetto a 25 perché 24 è il prodotto di 4×6, 6×4, 3×8 e 8×3, mentre 25 compare una sola volta sulla tavola pitagorica come risultato di 5×5.

Per realizzare delle cartelle eque, cioè che mettano tutti i partecipanti nelle stesse condizioni, senza agevolare o penalizzare nessuno, è necessario distinguere i numeri in base al numero di volte che compaiono sulla tavola pitagorica. Come possiamo fare? Realizziamo o stampiamo una tavola pitagorica e coloriamo in modo diverso le caselle dei numeri in base al numero di volte che compaiono: di rosso le caselle con i numeri che compaiono due volte, di blu quelle con i numeri che compaiono tre volte e di giallo quelle con i numeri che compaiono quattro volte.

Rimarranno bianche le caselle con i numeri che compaiono una sola volta. Piccola riflessione: dove si trovano le caselle bianche? Lungo la diagonale che va da in alto a sinistra a in basso a destra, dove sono collocati i quadrati perfetti. Perché proprio lungo la diagonale? Essendo la tavola pitagorica simmetrica rispetto a questa diagonale, gli altri numeri che si trovano nelle altre caselle compariranno almeno due volte. I numeri che compaiono una sola volta sono sei (fig. 4): 1, 25, 49, 64, 81, 100.

I numeri che compaiono due volte sono ventitré (fig. 2):

Figura 2. Tavola pitagorica: in rosso i numeri che compaiono due volte

2, 3, 5, 7, 14, 15, 21, 27, 28, 32, 35, 42, 45, 48, 50, 54, 56, 60, 63, 70, 72, 80, 90.

 

Quattro numeri compaiono tre volte (fig. 3): 4, 9, 16, 36. Sono tutti numeri quadrati (2×2, 3×3, 4×4, 6×6) che hanno altri divisori (es. 36 è il prodotto di 4×9, 9×4 e 6×6): ognuno di questi numeri è presente sulla diagonale principale e in altre due caselle simmetriche rispetto alla diagonale.

Figura 3. Tavola pitagorica: in blu i numeri che compaiono tre volte

I numeri che compaiono quattro volte sono nove (fig. 4): 6, 8, 10, 12, 18, 20, 24, 30, 40.

Figura 4. Tavola pitagorica: in giallo i numeri che compaiono quattro volte e in bianco quelli che compaiono una volta sola

Se osserviamo bene noteremo che nelle prime cinque righe e colonne, dove si trovano i numeri fino a 50, si concentrano i numeri che compaiono quattro volte (caselle gialle), mentre i numeri che si trovano nel quadrato 5×5 in basso a destra compaiono prevalentemente due volte (caselle rosse) perché i numeri più grandi, pur avendo diversi divisori, non tutti sono presenti sulla tavola pitagorica.

Torniamo di nuovo alla domanda iniziale: come scegliere i dodici numeri da inserire in ogni cartella? Ora è chiaro che la scelta non può essere dettata, ad esempio, da una preferenza personale ma deve basarsi su un criterio condiviso. È possibile decidere, ad esempio, di inserire in ogni cartella (fig. 5) un numero che compare una volta (caselle bianche), sette numeri che compaiono due volte (caselle rosse), uno che compare tre volte (caselle blu), tre che compaiono quattro volte (caselle gialle).

Figura 5.

A questo punto non resta che creare le cartelle definitive e iniziare a giocare: possiamo utilizzare materiale di recupero (es. cartoncino delle confezioni) e qualche tappo di plastica (sassolini o altro materiale da riciclo) da usare per coprire i numeri usciti.

Buon divertimento!

Simona Fiorentino

Insegnante di scuola primaria, specializzata nella didattica inclusiva, con una grande passione per la matematica. Condivide idee e attività ludiche di matematica sulla pagina Facebook/Instagram @ludomatica.

Educazione Civica: L’albero di Natale. Riflettere insieme per proteggere e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre.

 

“Sono solo un bambino, come posso fare la differenza?”

Questa la domanda, che apriva l’articolo del mese scorso “Un passo alla volta, faccio la differenza!”

Riflettere insieme per lottare contro il cambiamento climatico risulta valida anche per il tema di questo articolo, nel quale andremo a riflettere sull’obiettivo 15 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre.

 

Partendo quindi dal libro “L’albero di Natale” di Hans Christian Andersen illustrato da Marc Boutavant andremo a conoscere i pensieri e le aspirazioni di un abete che crede che diventare un albero di Natale sia un grande privilegio, ma che scoprirà a sue spese la triste realtà che si cela nell’essere tagliato e portato via dal bosco.

Una storia che non ha lieto fine se non quello di veder cessare le tribolazioni dell’albero, ma che ci permette di avviare un’importante riflessione sul consumismo fine a sé stesso e soprattutto introdurre una riflessione sul problema della deforestazione.

Quella che vi proponiamo è un’attività che può essere affrontata all’interno del curricolo di Educazione Civica per sensibilizzare fin da subito i bambini e le bambine alla tutela delle foreste. 

Raccontare una storia di così forte impatto, dove il protagonista si trova a perdere la vita per un futile motivo come quello di decorare una casa per pochi giorni di festa, ci permette di stimolare i bambini e le bambine in una discussione alla ricerca di soluzioni sostenibili per risolvere questo problema. Potremo quindi proporre l’acquisto di alberi che abbiano le radici e che possano essere ripiantati in un secondo momento oppure di realizzare un albero con materiali di riciclo. L’attività che proponiamo è quella di realizzare un biglietto d’auguri ritraente un albero di Natale da realizzare con ritagli di carta di giornale e avanzi di carta da pacco.

Il video qui proposto è suddiviso in tre parti:

  • prima parte: lettura e interpretazione della storia;
  • seconda parte: riflessione su cosa è possibile fare per evitare di tagliare gli alberi di Natale inutilmente;
  • terza parte: videotutorial con i passaggi per realizzare il biglietto di Natale con materiali di riciclo.

Video

MATERIALI AGGIUNTIVI

LE AUTRICI

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

Feliz Navidad y Próspero Año Nuevo 2022

¡Hola a todas y todos!

Este año nos hemos hecho compañía hablando de la importancia de respetar a los niños, a los animales y al ecosistema. También hemos hecho reflexionar a nuestros alumnos sobre lo que quieren ser de mayores y que todo es posible con esfuerzo.

Después, hemos echado un vistazo al pasado para recordar algunas mujeres que a costa de su vida han luchado contra la dictadura franquista y otras que nos han abierto el camino a las mujeres de hoy en día.

Después para relajarnos y cerrar el año académico nos hemos ido de fiesta por los pueblos de España. En septiembre, hemos abierto el curso 2021/22 celebrando la importancia de todas las lenguas y recordando que la fuerza de la cultura está en el mestizaje.

Y ahora a las puertas de otras Navidades covidianas, con las calles llenas de luces y de las decoraciones navideñas y los estantes de los supermercados repletitos a rebosar de turrones, mazapanes, cavas, sidras y garrapiñadas os deseamos ¡unas felices fiestas navideñas y un mejor y próspero año nuevo 2020!

Novedades de lecturas, esta vez para los profes.

  • Paloma Sánchez-Garnica, El alma de las piedras, 2021, ed. Planeta
    Año 824. Tres curiosos personajes descubren la tumba de a Santiago Apóstol y crean el Iocus Sancti Jacobi para glorificar a Dios. Dos siglos después, una joven noble, Mabilia, descubre una marca en una piedra que conduce a un pergamino en el que se cuenta el “milagroso” hallazgo. Una novela fantástica para descubrir los secretos ocultos del Camino de Santiago con mucha acción.
  • Carmen Mola, La bestia, 2021, ed. Planeta
    Thriller frenético. Año 1834, en Madrid hay terrible epidemia de cólera. Pero la peste no es lo único que aterroriza a sus habitantes: en los arrabales aparecen cadáveres desmembrados de niñas que nadie reclama. Todos los rumores apuntan a la Bestia…
  • Paloma Sánchez-Garnica, Últimos días en Berlín, 2021, ed. Planeta
    Cuando Yuri Santacruz asistió al nombramiento como canciller de Adolf Hitler, no podía imaginar lo mucho que cambiaría su vida en Berlín. Había llegado allí unos meses atrás, después de haber huido, junto con parte de su familia, de San Petersburgo, asfixiados por una revolución que los había dejado sin nada.