Since the beginning of Trump’s presidential campaign, he has promised to begin his second term with new efforts to limit legal migration. “Our southern border is overrun by cartels, criminal gangs, known terrorists, human traffickers, smugglers, unvetted military-age males from foreign adversaries, and illicit narcotics that harm Americans,” according to an order Trump signed that declares a national emergency at the southern border. This is the reason why, in the first days of his presidency, he has restored the so-called “Remain in Mexico” program that it requires migrants seeking asylum to remain in Mexico until their US immigration court date.
Unfortunately, borders and boundaries have always been a problem in history.
Here you’ll find a thematic approach to the issue, navigating texts and resources in and out of literature.
Border walls are among the most politically charged structures in the world today. While some – such as President Trump argue they enhance safety and control, others see them as divisive and ineffective solutions to complex issues. The following activity explores 3 of the most controversial walls in the world.
Hadrian’s wall
The first official wall ever built on English soil, is Hadrian’s wall. It took several decades for the Romans to extend their control to the northern edge of the island, where they eventually built a great defensive wall, stretching over almost 120 kilometres, from the North Sea to the Irish Sea. They called it Hadrian’s Wall, after the Roman Emperor Hadrian who ordered its construction. It marked the Empire’s northern frontier, the region where Roman military control was weakest while riots and revolts were more frequent. In fact, the Romans never managed to penetrate into the mountains of Wales and Scotland, while the area south of Hadrian’s Wall became the Roman province of Britannia and stayed under Roman rule for nearly 400 years. (see LIT HUB, vol1) Stretching about 73 miles from the east coast to the west, it was made from stone and turf and featured forts, milecastles, and turrets along its length.
The wall also served as a symbol of Roman power and a means of controlling trade and military movement. Today, it stands as a UNESCO World Heritage site and a popular archaeological landmark.
Walls are not always made of bricks and concrete. Invisible walls made of prejudice are often more pervasive and damaging than physical barriers, shaping the way individuals and groups interact across society. The following activities explore the theme of invisible walls.
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Many novels take into consideration the role walls have in our lives. An example is “The Wall” by John Lanchester. This dystopian novel explores themes such as climate change, division, immigration and many more. Rising seas have forced nations to build concrete barriers to keep out both water and desperate refugees known as “Others”. The protagonist, Joseph Kavanagh, is a young boy who, at the beginning of the novel, begins his compulsory service as a defender of the wall.
L’intelligenza artificiale (IA) è diventata un tema centrale nel dibattito educativo e sociale, coinvolgendo tanto la didattica quanto i metodi di valutazione. Se da un lato i sistemi di IA promettono di semplificare alcuni processi di analisi e apprendimento, dall’altro emergono questioni importanti legate all’affidabilità dei modelli e alla loro effettiva “capacità” di ragionare. Le aziende produttrici si pubblicizzano dichiarando l’uscita di modelli sempre più “intelligenti”, ma come si misura la capacità di ragionamento di un sistema di IA?
Per rispondere a questa domanda sono stati costruiti numerosi benchmark, indici misurabili, con l’idea di confrontare fra di loro i vari Large Language Model (quali ad esempio ChatGPT, Claude o LLaMa). Tuttavia, gli attuali indicatori presentano spesso alcuni di questi limiti:
i benchmark vengono ideati e applicati dalle stesse aziende produttrici;
test e addestramento attingono a una sovrapposizione sostanziale di fonti, minando la validità dei risultati, in quanto il modello “riconosce” le risposte invece di “ragionare”;
i benchmark si riferiscono unicamente a domande e risposte fornite in lingua inglese.
Inoltre, molti di questi indicatori misurano principalmente la capacità di completare frasi o di riconoscere pattern statistici, senza valutare in modo adeguato la profondità del ragionamento, l’adattabilità a contesti specifici e la coerenza.
I sistemi di AI giudicati attraverso le prove INVALSI
Alcuni gruppi di ricerca italiani, fra cui uno dell’Università di Milano Bicocca, hanno proposto e stanno sperimentando l’utilizzo dei test INVALSI pubblici come benchmark per confrontare la performance dei vari sistemi di IA disponibili. A prima vista potrebbe sembrare insolito sottoporre un’IA a un test pensato per gli studenti, eppure proprio studi recenti (come quello citato) mostrano che questi strumenti standardizzati possono costituire un benchmark efficace per capire quali modelli di IA siano più adatti a specifici compiti linguistici, logico-comprensivi e di ragionamento.
Le prove INVALSI, concepite per misurare competenze quali la comprensione del testo, le capacità di riflessione linguistica e le abilità logiche e matematiche, stanno aiutando i ricercatori a evidenziare molti limiti degli attuali sistemi di IA.
Gli errori commessi dai sistemi IA crescono all’aumentare del grado scolastico
Le analisi condotte mostrano una tendenza piuttosto chiara: le intelligenze artificiali ottengono risultati generalmente migliori sulle prove INVALSI di grado inferiore, ad esempio la scuola primaria rispetto a quelle di scuola secondaria, dove si richiedono competenze più complesse e una maggiore capacità di ragionamento.
Ma dov’è che le IA incontrano maggiore difficoltà?
I modelli di IA sembrano gestire bene i quesiti a risposta multipla semplice su testi o nozioni di base, mentre incontrano difficoltà evidenti in attività che richiedono elaborazioni linguistiche approfondite, interpretazioni articolate o conoscenze più strutturate, tipiche dei livelli di istruzione superiori.
Ragionamenti sbagliati che possono portare alla risposta giusta
Un’evidenza degna di nota riguarda poi i quesiti di riflessione linguistica o di logica avanzata, dove il modello è chiamato ad applicare più passaggi di ragionamento per arrivare alla soluzione. In alcuni casi, le IA analizzate sono giunte alla risposta esatta, ma attraverso un processo tutt’altro che lineare o coerente: ad esempio, per stabilire se in una frase fosse corretta o meno l’aggiunta di una lettera “h”, un modello ha iniziato inspiegabilmente a tradurre il testo in francese e a confrontare la presenza della “h” in varie parole francesi, ignorando del tutto la regola ortografica italiana. In altri frangenti, gli algoritmi hanno mescolato nozioni matematiche fuori contesto o generato paragrafi senza alcun nesso logico, salvo poi “approdare” al risultato giusto quasi per combinazione. Questo meccanismo di “ragionamento contorto” solleva interrogativi sulla validità delle spiegazioni che l’IA fornisce e su quanto la correttezza della risposta sia frutto di un processo statistico casuale.
In generale, si nota che — sebbene l’IA arrivi a indicare alcune risposte in maniera efficace — non sempre è in grado di approfondire il perché di quelle risposte. Questo è un aspetto cruciale per i docenti, che nell’interpretare il risultato di una prova valutano non solo la correttezza, ma anche i processi di apprendimento e di ragionamento sottostanti.
Quesiti a cui le IA si rifiutano di rispondere
Alcuni modelli, specie quelli a carico di grandi aziende, si rifiutano di rispondere nei casi in cui la domanda includa parole percepite come violente o discriminatorie. Possono essere un esempio i testi che parlano di guerra o di contestazione. Questo è dovuto a sistemi di protezione che vengono inseriti al fine di evitare usi impropri delle IA o la generazione di contenuti discriminatori o pericolosi. Tuttavia, i sistemi proprietari, non avendo una reale comprensione del contesto, tendono a “censurare” contenuti che percepiscono come inadeguati, anche quando tali passaggi sono assolutamente leciti e funzionali all’esercizio di comprensione.
L’interesse dell’Istituto INVALSI per i risultati di queste ricerche
L’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI) segue con grande interesse l’utilizzo delle sue prove come benchmark per valutare la capacità di ragionamento delle IA, poiché sono necessarie riflessioni non solo su come questo strumento stia influenzando e influenzerà la didattica ma anche su come in risposta dovrà evolvere la valutazione.
Uno dei temi sarà legato anche al modo in cui le prove INVALSI, ma anche i docenti, dovranno cercare di misurare competenze sempre più “umane” e meno aggirabili da procedure puramente statistiche.
Se la direzione fosse quella di puntare a limitare l’utilizzo dell’IA per lo svolgimento delle prove, i dati indicano una strategia che punta a domande aperte, con quesiti che mettano alla prova la coerenza del percorso risolutivo, anziché limitarsi alla verifica del risultato finale (come nel caso de quesiti a risposta multipla semplice o di tipo vero/falso), oppure sottoponendo nuovi tipi di prove che richiedano riformulazioni creative e ragionamenti articolati. Su questo aspetto vale la pena ricordare che molti LLM, in questo momento, non integrano sistemi in grado di “tracciare linee” o interpretare adeguatamente grafici e schemi, ciò vuol dire che problemi di questo tipo necessitano di una rielaborazione per affinché l’IA possa proporre una soluzione.
Portare l’IA in classe
Gli esempi riportati mostrano un quadro dello stato attuale del “ragionamento” dei sistemi di IA, ma bisogna tenere presente che questi tool evolvono in fretta e le correzioni ai modelli sono continue, e permetteranno a questi strumenti di rispondere sempre meglio a ogni tipo di test. Questo non significa che i chatbot saranno capaci di “ragionare” come un essere umano ma solo che sarà sempre più difficile smascherare il loro comportamento statistico. Oggi, nel momento in cui questa tecnologia è ancora da perfezionare, è possibile mostrare agli studenti casi di ragionamento errato mostrando che affidarsi totalmente a questo tipo di tecnologia è rischioso. Lavorare in classe su un utilizzo consapevole e sullo sviluppo di competenze che permettano agli alunni di verificare la veridicità e la qualità di quello che viene proposto da ChatGPT, Copilot, Claude e tutti gli altri sistemi di IA potrebbe rivelarsi la migliore delle strategie.
La centralità della scienza e della tecnologia nel mondo contemporaneo è sperimentata prima di tutti da studentesse e studenti, per la loro vita socio-mediale ma soprattutto per la duttilità nell’interazione con tecnologie emergenti, nel bene e nel male, come già anni fa si iniziò a rilevare (Sherry Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia, 2019) e recentemente si è tornato a discutere (Alberto Pellai, Barbara Tamborini, Vietato ai minori di 14 anni. Sai davvero quando è il momento giusto per dare lo smartphone ai tuoi figli?, 2021). Per young adults e over-30 potremmo dire altrettanto, sebbene con performance diverse. Se la possibilità di apprendere e adattarsi è a vario titolo comune a tutti, non possiamo dire lo stesso circa la consapevolezza storica relativa a scienza e tecnologia. Un nato dopo gli Anni Zero ha pochi strumenti per comprendere che scienza e tecnologia sono prodotti di cultura e di consumo che nel tempo hanno incrementato il loro impatto sociale, il loro ruolo nella costruzione di comunità, la loro capacità di modificazione dell’ambiente e della natura come risultato di processi di trasformazione storica. La riflessione intorno alla dimensione culturale della scienza e della tecnologia è invece fondamentale per acquisire consapevolezza critica del presente e capacità di analisi, tali da volgere in apprendimento attivo le ricadute passive di scelte attuate nel contesto scolastico e politico. A tal fine, introdurre nella didattica e nella formazione scolastica e universitaria, a vario modo e a vari livelli, elementi metodologici e contenutistici provenienti dalla storia della scienza e della tecnologia costituisce un approccio originale e fecondo per la formazione del pensiero critico, un vero e proprio grimaldello per sviluppare competenze trasversali, oltre che alla didattica delle singole discipline STEM. In particolare, il concetto di “rivoluzione scientifica” permette di aprire prospettive promettenti per la progettazione didattica transdisciplinare.
Il presente e l’immediato passato della scienza e della tecnologia
Un primo passo può essere partire dal presente, per comprendere alcuni aspetti della società mediale in cui siamo immersi, del ruolo delle tecnologie di comunicazione e dell’informazione, delle strutture sociopolitiche che facilitano o meno l’accessibilità alla conoscenza. Le attuali caratteristiche tecno-scientifiche quando sono emerse? Chi sono stati i protagonisti principali che hanno reso possibile lo scenario attuale? In questa prospettiva è interessante introdurre il concetto di “rivoluzione dell’informazione”, proponendo figure centrali per capire il Novecento ma ancora marginali nelle programmazioni scolastiche quali Claude Shannon, Alan Turing o John Von Neumann fino a studiosi oggi molto noti in Italia come Luciano Floridi o Nello Cristianini. Ancora più importante, però, è radicare il concetto di rivoluzione dell’informazione in quello più generale di “rivoluzione scientifica”.
Il passato della scienza e della tecnologia e l’idea di una “rivoluzione scientifica”
In letteratura, la categoria storiografica di “rivoluzione scientifica” ha vissuto innumerevoli fasi e subito profondi ripensamenti. Intesa dapprima come “rivoluzione copernicana”, a motivo dello spostamento del centro del mondo dalla Terra al Sole da parte di Copernico (1543), essa è divenuta con Immanuel Kant (Critica della ragion pura, 1781) modello di rivoluzione per altri sistemi di sapere come la filosofia. I cambiamenti interni alla vecchia filosofia della natura spinsero verso la scienza moderna. Essi hanno poi trovato una più recente codifica storiografica, prima di assonanza storico-politica (Herbert Butterfield, TheWhig interpretation of history, 1931; Le origini della scienza moderna, 1949) e poi filosofico-scientifica (Thomas Kuhn, La rivoluzione copernicana, 1957; La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962). Negli ultimi decenni si è messa in discussione l’idea in sé di rivoluzione scientifica secondo molteplici prospettive (tra le più recenti, Stephen Shapin, The Scientific Revolution, 2018).
Cosa rende “scienza” la “scienza”
Dietro alle discussioni circa le rivoluzioni scientifiche e le loro capacità di impattare sulle nostre società vi sono una serie di aspetti che questi dibattiti hanno ben focalizzato, al di là delle singole posizioni poi adottate dagli studiosi. Cosa rende la “scienza” davvero “scienza”?
L’abilità a interpretare in modo nuovo, o almeno diverso, il patrimonio scientifico del passato.
La capacità di organizzare e formalizzare in vario modo i ragionamenti.
La dimensione sperimentale e osservativa.
La capacità di dimostrare la validità dei propri risultati teorici o applicativi, soprattutto mediante predizioni utili per la scienza stessa o per la società.
Il consenso all’interno di una comunità internazionale di studiosi.
L’organizzazione interna delle comunità scientifiche e il loro rapporto di indipendenza/dipendenza con i sistemi politici e di produzione.
La possibilità di rispondere alle richieste tecnologiche della società.
Far emergere il legame tra una qualche idea di scienza e le sue componenti storico-epistemologiche è il primo passo per una cultura STEM davvero innovativa e capace di prospettiva critica. La scienza è una forma di cultura, determina modi di vedere il mondo, influenza un immaginario personale e collettivo, è un luogo privilegiato per imparare ad argomentare in forma corretta. Conoscere le vicende di chi ha elaborato teorie, lo sviluppo delle tecniche formali o strumentali, l’interazione tra quando accade nei laboratori e quanto accade fuori rende la scienza un ambito estremamente interessante per ricostruire processi di trasformazioni storiche, oltre a essere un’appassionante avventura umana e non solo uno strumento di profitto.
Le parole dei bambini sono preziose: a volte sono leggere, altre volte profondissime, capaci di rivelare un mondo interiore che aspetta solo di essere ascoltato. Come insegnanti, il nostro compito non è solo quello di insegnare loro a scrivere correttamente, ma soprattutto di aiutarli a scoprire la loro voce, a dare forma ai pensieri e alle emozioni che portano dentro.
Un modo per farlo è attraverso gli albi illustrati, strumenti potenti che intrecciano immagini e parole, lasciando spazio all’interpretazione, all’immaginazione e all’espressione personale.
Ascoltare le voci dei bambini
Scrivere è proprio un modo per far sentire la propria voce: non attraverso sterili esercizi, ma immergendosi in attività più profonde e vere. Per scrivere poi bisogna prima sentirsi accolti, in uno spazio dove ci sia modo di parlare e di esprimersi. E chi meglio della comunità di lettori e scrittori della classe e degli albi illustrati può darci questa possibilità? Quando leggiamo un albo in classe, non stiamo solo raccontando una storia: stiamo aprendo un dialogo, stiamo dicendo ai bambini che anche loro hanno qualcosa da dire, che il loro pensiero merita spazio.
Dopo la lettura, il silenzio è il primo segnale che qualcosa si sta muovendo: è proprio il momento in cui i bambini elaborano, interiorizzano. Poi arrivano i commenti, le osservazioni spontanee, quelle che spesso sorprendono, perché ci fanno vedere la storia con occhi diversi. È qui che nasce la scrittura: dall’ascolto autentico di ciò che i bambini pensano, sentono e vogliono dire, e soprattutto dall’ascolto reciproco della comunità di lettori e scrittori, che arricchisce tutti e ciascuno.
Il ricalco di scrittura: un ponte tra lettura e voce personale
Un buon modo per accompagnare i bambini a trovare la loro voce è il ricalco di scrittura. Non si tratta di copiare, ma di partire da un modello per trasformarlo in qualcosa di proprio. L’albo illustrato offre una struttura rassicurante: i bambini possono ricalcare lo stile, la sequenza, alcune espressioni, ma inserire il loro vissuto, i loro pensieri, i loro colori.
Come fare nella pratica?
Leggere un albo insieme: non limitarsi a una lettura veloce, ma lasciare spazio alle osservazioni, ai dettagli, alle emozioni che emergono.
Chiedere ai bambini di dire o scrivere una lista di cosa li ha colpiti: può essere una frase, un’immagine, una parola, un sentimento che la storia ha suscitato in loro.
Scrivere ricalcando: si può partire riscrivendo un pezzo della storia cambiando qualche elemento, oppure trasformando una scena con il proprio punto di vista.
Dare valore alle parole dei bambini: ogni bambino scrive con il proprio stile, con le proprie idee. Non dobbiamo correggere in modo rigido, ma accogliere il loro modo di esprimersi e guidarli nella padronanza della scrittura.
Scrivere per raccontarsi
Il ricalco di scrittura non è solo un esercizio: è un modo per aiutare i bambini a raccontare sé stessi. Spesso non sanno da dove iniziare, hanno paura della pagina bianca. Ma se gli offriamo una guida, un punto di partenza, le loro parole troveranno il coraggio di uscire.
Quando un bambino scrive, ci sta affidando qualcosa di suo. Un pensiero, un frammento di mondo interiore. Sta dicendo: “Questa è la mia voce”. E il nostro compito, come insegnanti, è far sì che quella voce si senta forte e chiara.
Per approfondire scrittura e albi illustrati:
Queste riflessioni hanno guidato la scelta di inserire nei libriMagica Matildeun percorso per ogni classe che prenda spunto da un albo illustrato, dove bambini e bambine sono invitati a dire la loro sulle storie lette e condivise con insegnanti e compagni.
Nel primo ventennio del XXI secolo, si sono succeduti rapidi cambiamenti sotto l’aspetto della creazione, della produzione, della distribuzione e anche delle modalità di diffusione e di fruizione della moda stessa. Cambiamenti radicali, in particolare sotto il profilo della produzione, e una nuova consapevolezza sociale, politica e culturale, sono stati causati dall’avanzamento tecnologico e dalla globalizzazione.
Uno degli aspetti più rilevanti dei cambiamenti sopraggiunti all’inizio del Duemila, riguarda da una parte la nascita di aziende che offrono prodotti di abbigliamento con forte contenuto moda a prezzi molto competitivi (fast fashion o low cost), dall’altro il fenomeno delle acquisizioni di numerosi brand storici della moda da parte dei grandi gruppi del lusso.
In questa modifica ha comportato la sostituzione della figura dello stilista con quello del “direttore creativo” (un esperto del settore messo a capo di un team che coordina la collezione la quale, pur dovendo innovare, deve rispettare la tradizione del marchio senza perdere di vista la competizione sul mercato).
Il nuovo modo di produrre dà maggiore importanza al concetto di heritage (cioè dell’eredità culturale del brand), che si impone a scapito delle capacità di innovazione e di ricerca autonoma del fashion designer.
Nell’impostazione produttiva delle holding del lusso finalizzata ad un rapido aumento dei profitti, il marketing prevale sulla fase di ideazione. Tutto ciò comporta che i direttori creativi siano sostituiti frequentemente, non soltanto se il fatturato non risponde alle aspettative dei finanziatori ma anche per evitare che lo “stile personale” prevalga sull’immagine “storica” della griffe.
La produzione di moda, attualmente, affronta tematiche quali le problematiche di genere, di inclusione e diversità, di sostenibilità ambientale e di equità.
La pervasiva presenza dei social e della tecnologia, che ha raggiunto traguardi impensabili all’inizio del XXI secolo, coinvolge direttamente anche l’abbigliamento.
In questo quadro, un aspetto che ha assunto molta importanza è il fenomeno dello storytelling, che punta alla narrazione dei valori delle griffe, ora produttrici di simboli e status symbol grazie a film, video d’arte e performance. Lo storytelling è capace di trasformare ogni oggetto in racconto e, per traslazione, ogni racconto diventa uno strumento di legittimazione del brand. Che la comunicazione nel fashion system abbia ormai assunto un’importanza strategica, lo testimonia la sfilata A/I 2024/25 organizzata da Glenn Martens per Diesel, che ha messo in scena una sorta di “Truman show”, affinché tutti si sentano parte della community del brand. Nell’invito alla sfilata, infatti, figura un QR code tramite il quale 1000 fan di Diesel da tutto il mondo hanno avuto libero accesso alle fasi di preparazione della sfilata: tre giorni di live stream durante i quali hanno potuto assistere e interagire virtualmente.
Oggi la società è “ibrida”, “fluida”, cioè meno definita, e i giovani tendono a utilizzare elementi di diverse sottoculture che vengono condivisi non solo nelle strade o in luoghi di ritrovo fisici, ma principalmente sui social network. Molto spesso oggi coloro che lanciano nuove tendenze sono gli influencer: giovani con una grande cerchia di follower, o personaggi famosi.
Nuove tecnologie
Parlare di moda contemporanea oggi, significa parlare di wearable technology e di virtual fashion. In questo settore, l’interesse per i nuovi traguardi scientifici procede con le sperimentazioni e le ibridazioni sui materiali e sulle tecnologie indossabili applicabili agli indumenti, su cui tuttora si lavora ampiamente, fino ad arrivare alla produzione di proposte esclusivamente virtuali.
La virtual fashion rappresenta la connessione fra realtà virtuale e sartoria. La moda digitale, con la sua elaborazione tecnica, si avvicina molto a essere considerata una forma d’arte, poiché nel mondo reale questi abiti, completamente costituiti da pixel, non esistono.
L’azienda norvegese Carling, nel 2018, ha creato la sua prima collezione “Neo-Ex” costituita da diciannove capi digitali facendo il tutto esaurito in una settimana. “Neo-Ex”, nell’intenzione dei produttori, ha anche lo scopo di ridurre gli sprechi.
Il primo contatto del prêt-à-porter di livello alto con la moda virtuale si concretizza nel 2019 con la progettazione di abiti ispirati a personaggi del videogame “League of Legends”, progettati da Nicolas Ghesquière per Louis Vuitton, tramite una partnership con la società di sviluppo americana Riot Games.
Nello stesso anno, Jeremy Scott, direttore creativo di Moschino, disegna una capsule collection per il videogame “The Sims” La capsule, oltre ai disegni pixelati e ai classici motivi “The Sims”, comprende accessori e abiti indossabili, una limited edition composta da otto capi disponibili nelle boutique della maison in tutto il mondo a partire da aprile 2019 e sul sito web.
L’haute couture si mostra sensibile alle novità tecnologiche con la fashion designer olandese Iris van Herpen, La designer presenta il suo primo abito stampato in 3D nella collezione P/E 2011, chiamata “Crystallization” distinguendosi per l’uso di nuove forme e nuovi metodi che ibridano l’alta sartoria con la tecnologia.
Altri argomenti che approfondiscono il complesso mondo della produzione e fruizione della moda, si possono rintracciare nel volume Storia della Moda e del Costume.
Il 22 marzo si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua, un’iniziativa nata nel 1992 durante la Conferenza di Rio de Janeiro delle Nazioni Unite. L’evento nasce con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza dell’acqua e promuovere una gestione responsabile delle risorse idriche di acqua dolce.
Tale tema è inoltre presente nell’AGENDA 2030 con il goal 6: garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie.
Come si legge sul sito di WWF, la quantità di acqua dolce sul pianeta è circa il 3% delle risorse idriche, metà della quale è immagazzinata nei ghiacciai, ciò implica la necessità di educare ad un utilizzo responsabile delle risorse idriche, promuovendo una cultura del risparmio consapevole di questo bene prezioso.
Nelle nuove linee guida per l’insegnamento dell’Educazione Civica un percorso sull’acqua trova la sua collocazione nel traguardo per lo sviluppo della competenza n.7 “maturare scelte e condotte di tutela dei beni materiali e immateriali” del nucleo concettuale “Sviluppo economico e sostenibilità” dove si legge: “Riconoscere, con riferimento all’esperienza, che alcune risorse naturali (acqua, alimenti…) sono limitate e ipotizzare comportamenti di uso responsabile, mettendo in atto quelli alla propria portata.”
Per parlare di questa giornata abbiamo pensato di partire da una panoramica sull’acqua, il ciclo dell’acqua e la necessità di preservare questo bene prezioso, per poi proporre delle attività che possano essere più centrate sul tema di educazione civica, oppure che possano essere collegate per tema e significato a questo argomento; infatti, la parola acqua ci permette di lavorare su aspetti differenti collegati alla lingua:
Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.
Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.
Negli ultimi anni, l’Intelligenza Artificiale ha dimostrato un potenziale straordinario in numerosi settori, tra cui quello spaziale e dell’aviazione. La crescente domanda di spostamenti in aereo porta ad un aumento significativo dell’interesse nei confronti dello sviluppo dei velivoli e della loro manutenzione. Questo presupposto implica l’esigenza di ottimizzare le strategie legate alle operazioni di volo, servendosi anche di soluzioni tecnologiche attraverso l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale.
Inoltre, anche l’esplorazione spaziale sta assumendo un’importanza sempre crescente ed è fondamentale ottimizzare processi, missioni e sicurezza per assicurare un avanzamento tecnologico sempre più veloce ma allo stesso tempo efficiente.
Vediamo insieme quali sono le migliori applicazioni dell’AI in questo settore!
Progettazione e sviluppo dei velivoli
Attraverso il “Machine Learning“, gli ingegneri sono in grado di sfruttare dei programmi che, partendo da dati iniziali, migliorino nel tempo le prestazioni di componenti meccanici, aumentando resistenza, rigidità ed efficienza. In questo modo, è possibile esaminare migliaia di configurazioni strutturali per ridurre peso e resistenza aerodinamica di un velivolo, migliorando allo stesso tempo la sicurezza.
Inoltre, questi programmi rendono possibile prevedere le caratteristiche di materiali compositi innovativi, partendo da alcuni dati relativi alle proprietà di materiali già esistenti, accelerando il processo di sviluppo.
Manutenzione predittiva
La manutenzione è senza dubbio un fattore cruciale nell’industria aerospaziale per evitare disastri strutturali e assicurare la massima sicurezza. Con “manutenzione predittiva” intendiamo l’analisi di dati mediante sensori installati su macchine e impianti, che permettono di identificare potenziali guasti prima che si verifichino. I sensori forniscono una comprensione più approfondita dellecause e delle raccomandazioni specifiche da seguire, che permettono di evitare attività di manutenzione non necessarie che comportano costi e tempi di inattività.
Automazione e controllo dei voli
Tra le opportunità offerte dall’Intelligenza Artificiale, il volo autonomo è quella che, indubbiamente, suscita il maggior interesse. Lo scopo è quello di ridurre la dipendenza dai piloti umani senza tuttavia sacrificare i livelli di sicurezza che, al contrario, risultano sempre più elevati. Lo sviluppo di aerei commerciali completamente autonomi è ritenuto possibile dopo il 2035 per via dei numerosi anni di studio e analisi che precedono l’effettiva realizzazione di questo ambizioso progetto.
Attualmente, uno degli aerei autonomi ed ecosostenibili più famosi al mondo è sicuramente Odysseus, il cui collaudo si è svolto nel 2019, dopo circa un decennio di sviluppo. La struttura di Odysseus è realizzata principalmente in carbonio, caratteristica che lo rende leggero e resistente. È equipaggiato con motori elettrici alimentati esclusivamente da pannelli solari posizionati sulle ali e sulla fusoliera. Durante la notte, quando i pannelli non ricevono luce, l’aereo utilizza batterie che immagazzinano energia sufficiente durante il giorno. Grazie a questo sistema ecologico, l’aereo non necessita di ulteriori fonti di energia ed è in grado di volare indefinitamente.
Esplorazione spaziale: Curiosity e Perseverance
L’interesse per l’esplorazione dello spazio sta crescendo, ed è proprio per questo motivo che, per rispondere a questa esigenza, c’è la necessità di applicare l’Intelligenza Artificiale a veicoli spaziali e satelliti. Essa è fondamentale per pianificare missioni di esplorazione planetaria, analizzare enormi quantità di dati e prevenire i rischi.
Una delle applicazioni più interessanti ed innovative è la navigazione autonoma dei rover Perseverance e Curiosity, che su Marte utilizzano complessi algoritmi per navigare in maniera indipendente su terreni sconnessi, evitando gli ostacoli. Perseverance possiede un sistema molto avanzato, che include una serie di telecamere ad alta risoluzione e sensori che permettono di creare mappe tridimensionali del terreno, permettendo al rover di orientarsi autonomamente ed evitare ostacoli in tempo reale. Inoltre, il rover è dotato di strumenti avanzati come lo SHERLOC, che utilizza algoritmi per analizzare i campioni di roccia più promettenti, riducendo il carico di lavoro umano. Negli anni, lo sviluppo di tale sistema è stato notevole, partendo, con Curiosity, da una velocità massima sul terreno di 20 metri all’ora fino ad arrivare, con Perseverance, ad una velocità massima di 120 metri all’ora.
Scoperta di nuovi esopianeti
Una delle missioni fondamentali della NASA che ha permesso la scoperta di tantissimi esopianeti è stata la missione del telescopio spaziale Kepler, il cui scopo era la ricerca e conferma di pianeti simili alla Terra in orbita attorno a stelle diverse dal Sole.
I ricercatori hanno utilizzato algoritmi di Machine Learning per analizzare i dati forniti dal telescopio. Osservare pianeti così distanti è impossibile, proprio per questo Kepler non li osserva direttamente, ma rileva le variazioni nella luminosità delle stelle dovute al passaggio dei pianeti davanti a loro. Quando un pianeta transita davanti alla sua stella, porta a una momentanea riduzione della luminosità apparente per chi la sta osservando a distanza: misurando l’intensità e la frequenza della variazione della luce, Kepler può determinare se il cambiamento è dovuto al passaggio del pianeta in esame o al comportamento della stella, grazie all’addestramento dei computer da parte dei ricercatori e delle ricercatrici.
Questo metodo consente anche di ipotizzare dimensioni e caratteristiche dei pianeti scoperti. L’Intelligenza Artificiale ha dimostrato di essere in grado di confermare la presenza effettiva di un pianeta con un’accuratezza del 96%.
Falcon 9: i sistemi di atterraggio di SpaceX
Falcon 9 è un razzo riutilizzabile a due stadi progettato e prodotto da SpaceX per il trasporto di persone e carichi utili nell’orbita terrestre e oltre. La riutilizzabilità consente a SpaceX di rilanciare le parti più costose del razzo, il che a sua volta riduce il costo dell’accesso allo spazio. Questo razzo utilizza un sistema di guida, navigazione e controllo basato su sensori avanzati, GPS e algoritmi ad apprendimento automatico che forniscono al razzo la sua posizione esatta durante la fase di rientro e la traiettoria ottimale basandosi su atterraggi effettuati in passato.
Il primo stadio è in grado tornare sulla Terra in modo indipendente e atterrare verticalmente su una piattaforma predeterminata, in acqua o sulla terraferma. Per rendere ottimali le manovre, è inoltre necessario utilizzare delle telecamere ed analizzare i dati metereologici per far sì che il razzo possa adattarsi a condizioni avverse come onde e vento.
Conclusioni
L’Intelligenza Artificiale, come abbiamo visto, sta rivoluzionando il settore aeronautico e spaziale, migliorando la sicurezza, l’efficienza e l’affidabilità delle missioni. Grazie a sistemi avanzati di analisi dati e apprendimento automatico, gli ingegneri possono prendere decisioni più rapide e precise, riducendo i rischi e massimizzando le risorse disponibili.
Con il continuo sviluppo di tecnologie intelligenti, il futuro dell’aerospazio vedrà una crescente integrazione dell’IA. La sua evoluzione non solo renderà lo spazio più accessibile, ma potrebbe anche rappresentare un passo fondamentale verso l’esplorazione interplanetaria e la colonizzazione di nuovi mondi.
Biografia Autrice
Ilaria Sanna è attualmente una studentessa al terzo anno di Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Milano. Nata a Roma ma cresciuta tra Modena e Bologna, ha frequentato un Liceo Linguistico Quadriennale per poi appassionarsi alle materie scientifiche, più nello specifico in ambito spaziale e dell’aviazione.
Attualmente è parte dell’associazione studentesca Skyward Experimental Rocketry del Politecnico di Milano, che ha come ambizioso progetto annuale la progettazione e la costruzione di un razzo-sonda sperimentale. Le piace riempire il tempo libero dedicandosi al volontariato e all’attività fisica, oltre che contribuire al progetto di Generazione Stem.
La Giornata Mondiale della Voce (World Voice Day) è stata istituita nel 1999 in Brasile, con l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione verso il corretto uso di questo strumento, soprattutto tra coloro che lo usano in modo professionale: insegnanti, cantanti, attori e oratori.
Una ricorrenza poco nota ma che merita di essere posta al centro di una riflessione, anche in considerazione del fatto che proprio attraverso la voce i bambini, come gli adulti, esprimono emozioni, raccontano storie, costruiscono relazioni.
Il 16 aprile, Giornata Mondiale della voce, può essere quindi un’occasione preziosa per riflettere sull’importanza dell’espressione orale nella scuola primaria e per proporre attività che aiutino i bambini a usare la propria voce in modo efficace, consapevole e creativo.
Perché lavorare sulla voce con i bambini?
L’oralità è alla base di ogni apprendimento. Parlare bene significa pensare meglio, ascoltare in modo più attivo e sviluppare fiducia in se stessi. Un bambino che sa esprimersi con chiarezza e sicurezza sarà più pronto ad affrontare le sfide scolastiche e sociali. Come sappiamo, la scuola ha tradizionalmente concentrato la sua attenzione sulla scrittura, la lettura viene proposta soprattutto come attività silenziosa e spesso le occasioni legate al parlato sono strutturate e confinate a momenti specifici della giornata. Verrebbe da domandarsi, quindi: quale spazio dedico a questo aspetto, nella mia didattica?
Un buon punto di partenza può essere l’utilizzo di strumenti che accompagnano i bambini e le bambine alla scoperta delle proprie potenzialità espressive, ma su questo faremo un focus specifico al termine dell’articolo.
Attività pratiche per valorizzare la voce in classe
Per celebrare la Giornata della Voce e per integrare l’educazione all’oralità nella routine scolastica, ecco alcune proposte operative adatte alla scuola primaria.
1. Il gioco delle emozioni
Obiettivo: modulare la voce per esprimere stati d’animo diversi.
Scrivere su bigliettini diverse emozioni (gioia, paura, rabbia, sorpresa, tristezza…).
Un bambino pesca un bigliettino e deve pronunciare una frase assegnata dall’insegnante con l’emozione indicata (es. “Oggi c’è il sole” detto con tristezza).
Gli altri compagni provano a indovinare l’emozione.
Variante: usare filastrocche o brevi testi narrativi.
2. Il microfono immaginario
Obiettivo: favorire la sicurezza nel parlare in pubblico.
Creare un “microfono immaginario” (o usarne uno finto) per far esprimere i bambini davanti alla classe su argomenti semplici (es. “Parla del tuo animale preferito” o “Racconta una cosa divertente che ti è successa”).
Incoraggiare la varietà di tono, ritmo e volume.
Premiare l’originalità e la capacità di coinvolgere il pubblico.
3. Parole in movimento
Obiettivo: esplorare il legame tra voce e corpo.
Scegliere parole evocative (es. “vento”, “fulmine”, “mare calmo”, “allegria”).
I bambini devono pronunciarle e accompagnarle con un movimento che ne esprima il significato.
Variante: creare una sequenza di parole per costruire una piccola performance vocale e gestuale.
5. Sussurra, parla, grida
Obiettivo: modulare il volume della voce.
L’insegnante dice una frase e i bambini devono ripeterla in tre modalità: sussurrando, parlando normalmente e gridando (senza esagerare).
Si riflette insieme su quando è più appropriato usare ciascuna modalità nella vita quotidiana.
Un alleato per dare voce ai bambini
L’educazione alla voce e all’espressione orale non dovrebbe essere relegata a un solo giorno all’anno, ma far parte integrante della proposta didattica di ogni insegnante. Per questo, all’interno del sussidiario dei linguaggi “Le storie di Gea”, abbiamo inserito una novità assoluta in ambito editoriale: il “Taccuino per esprimersi”.
Per scrivere, sì, ma anche per parlare, come recita il sottotitolo, nel taccuino i bambini e le bambine hanno la possibilità di mettersi alla prova con attività specifiche per organizzare l’espressione orale in forma laboratoriale: dall’organizzazione di un discorso alla difesa del proprio punto di vista.
In questa Giornata della Voce, dunque, celebriamo l’importanza di dare spazio ai bambini per raccontarsi, giocare con le parole e scoprire la potenza della loro espressione. Perché una voce allenata che sa come esprimersi è una mente che pensa e riesce ad affrontare le mille sfide quotidiane a cui va incontro.
Difficilmente contemplando un bel dipinto pensiamo ad una scia di morte che dura da secoli o addirittura da millenni. Eppure, soprattutto un tempo, avere a che fare con il colore significava correre dei rischi per la salute non indifferenti, spesso mortali. Dal piombo al mercurio, passando per l’arsenico e il cianuro, la storia dell’arte e della moda è punteggiata di pigmenti che contengono elementi chimici potenzialmente letali. Eppure, senza questi elementi tossici non avremmo mai avuto la maggior parte delle opere d’arte che oggi conserviamo nei musei e che hanno ispirato l’umanità. Alcuni di questi colori hanno avvelenato lentamente generazioni di pittori e tintori, altri hanno tinto gli abiti e decorato per anni le pareti delle case e di chi voleva essere alla moda. Analizziamo i principali.
Rosso: Il fascino color sangue del cinabro e del minio
Il rosso è il colore della passione, del potere e… dell’intossicazione da mercurio. Il cinabro, noto anche come vermiglione, è un minerale rosso brillante costituito da solfuro di mercurio (HgS) è tanto bello e ipnotico, quanto velenoso. I minatori che lo estraevano vivevano poco, i pittori che lo maneggiavano poco di più. Durante l’epoca romana, le miniere di cinabro erano considerate luoghi estremamente pericolosi. Schiavi e prigionieri erano spesso costretti a lavorarvi, affrontando le esalazioni letali di mercurio. Questa pratica era talmente rischiosa che equivaleva senza possibilità di scampo a una condanna a morte. Le prime tracce dell’uso del cinabro risalgono al Neolitico, con ritrovamenti a Çatalhöyük, in Anatolia, datati tra l’VIII e il VII millennio a.C. In Cina, già nel 1500 a.C., il cinabro veniva impiegato sia come pigmento che in pratiche alchemiche. Nell’antica Roma, era apprezzato per la sua tonalità vivida, nonostante la ci fosse già la consapevolezza dei rischi associati alla sua manipolazione. Questo non impediva alle matrone di impiegarlo per arrossare le guance o come rossetto: serviva a dare al viso un tono rosato “sano”, passando sopra ai possibili rischi in nome della bellezza. Il cinabro offre una tonalità di rosso senza eguali, se si è disposti ad ignorare la tossicità del mercurio. La polvere di cinabro, se inalata o ingerita, può causare gravi avvelenamenti da mercurio. Nonostante ciò, la sua popolarità è perdurata nei secoli, spesso a scapito della salute di artisti e artigiani. Fu utilizzato anche in Messico e Perù già in epoca pre-colombiana e anche in India, dove veniva impiegato anche come medicinale. Si utilizzò per tutto il medioevo (ce ne parla anche Cennino Cennini) e lo ritroviamo fino all’età moderna, dove venne gradualmente sostituito dal vermiglio, meno caro e sicuramente meno tossico. Scomparve dalle tavolozze, ma rimase negli armadietti dei medici: veniva infatti impiegato come farmaco per la sifilide, fino al divieto del suo uso nel XIX secolo.
Anche il minio è un minerale presente in natura e si tratta di un ossido misto di piombo(II) e piombo(IV). Il suo nome deriva dal latino minium, probabilmente collegato al fiume Miño in Spagna, vicino al suo luogo di estrazione più famoso. Questo pigmento era ampiamente usato fin dall’antichità per affreschi, manoscritti miniati (da cui il termine miniatura) e decorazioni architettoniche. Nel Rinascimento, il minio venne impiegato anche nella pittura a olio, sebbene la sua forte tendenza a scurire nel tempo ne abbia limitato l’uso. Tra le opere che ne conservano traccia troviamo gli sfondi e le vesti di alcune icone medievali e i dettagli architettonici in affreschi romani di Pompei. La sua tossicità, dovuta alla presenza di piombo, ha portato nel tempo al suo abbandono, ma anche in questo caso il suo ruolo nella storia dell’arte resta innegabile. Restava uno dei pochi modi insieme al tossico realgar (a base di arsenico) per ottenere l’arancione fino alla scoperta dei composti del cromo.
Verde: C’è dell’arsenico sulle mie pareti
Un altro pigmento altrettanto affascinante quanto pericoloso è il verde di Scheele, un composto a base di arsenico scoperto nel 1775 dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele. Questo verde brillante trovò rapidamente applicazione nella pittura e nella decorazione, ma la sua instabilità e la sua tendenza a scurire ne limitarono l’uso artistico. Per risolvere questi problemi, venne sviluppato il verde di Parigi (o verde di Vienna), una variante più resistente alla luce e dal colore ancora più intenso. Questo nuovo pigmento, una polvere cristallina di un verde straordinariamente brillante, trovò impiego non solo nella pittura, ma anche in ambiti molto meno prevedibili.
Il nome verde di Parigi deriva dal suo utilizzo nell’Ottocento per derattizzare le fogne della capitale francese. Tuttavia, la sua diffusione andò ben oltre la lotta ai topi: questo verde straordinariamente attraente finì per colorare di tutto, dai gilet alle scarpe, dai guanti ai pantaloni, dalle candele alla vernice. Persino le decorazioni per dolci e i giocattoli per bambini contenevano questa polvere velenosa. L’impiego più diffuso e letale fu probabilmente nelle carte da parati. Sul finire del XIX secolo, più della metà delle carte da parati conteneva pigmenti a base di arsenico, compresi il verde di Scheele e il verde di Parigi. Questi colori risultavano estremamente economici da produrre e garantivano una resa estetica straordinaria, ma nascondevano un insidioso pericolo. Nonostante le evidenze scientifiche sulla pericolosità dell’arsenico, ci fu per molto tempo un forte scetticismo. Questo elemento era infatti utilizzato in ambito medico e cosmetico: nel periodo vittoriano, era assunto come integratore per migliorare la carnagione, con il risultato di ottenere una pelle bluastra e traslucida. L’arsenico veniva prescritto per l’asma, il tifo, la malaria, i dolori mestruali e persino la sifilide. Ancora oggi si conservano pubblicità dell’epoca che promuovono cialde e saponi a base di arsenico, considerati miracolosi per la bellezza della pelle. Tuttavia, sembra che la quantità di composti tossici emessi dalla carta da parati non fosse sufficiente a uccidere direttamente.
Ciò non ha impedito a qualcuno di ipotizzare che una morte illustre fosse legata a questa sostanza. Nel 1961, l’analisi di un campione di capelli di Napoleone Bonaparte rivelò una concentrazione di arsenico molto elevata, mettendo in discussione la sua presunta morte per cause naturali. I sintomi mostrati dall’imperatore nelle ultime settimane di vita erano compatibili con un avvelenamento da arsenico, e si sapeva che le pareti della sua residenza sull’Isola di Sant’Elena erano rivestite con carta da parati colorata con pigmenti tossici. Per decenni, la teoria dell’avvelenamento tenne banco, fino a quando uno studio del 2011 escluse definitivamente questa ipotesi. Verso la metà dell’Ottocento, il verde cadde progressivamente in disgrazia, soprattutto nell’arredamento. Qualche dama audace continuò a indossarlo, ma la sua reputazione era ormai compromessa. Si racconta che la Regina Vittoria avesse sviluppato una vera e propria fobia per questo colore, temendo per la sua salute e quella della sua famiglia.
Giallo: Il Traditore al Piombo
Il giallo di Napoli, noto anche come giallo antimonio-piombo, ha una storia affascinante e pericolosa. I Romani lo usavano per decorare le loro ville, gli Egizi lo mescolavano nelle pitture tombali e nel Rinascimento era tra i colori prediletti per le tele dei grandi maestri. Tuttavia, oltre a dare luminosità ai dipinti, aveva anche la fastidiosa caratteristica di avvelenare chi lo maneggiava con troppa leggerezza. Il giallo di Napoli era una miscela di piombo e antimonio, due elementi che oggi sappiamo non sia saggio spalmare sulle pareti di casa nostra o, peggio, sulle dita mentre dipingiamo. Ma nei secoli passati, la consapevolezza del rischio era piuttosto labile: se un pigmento era bello, perché preoccuparsi se faceva venire strane febbri e ulcere cutanee?
Anche l’’adorato giallo di Van Gogh, il cromato di piombo, era tanto luminoso quanto letale. Più lo si manipolava, più il rischio di avvelenamento aumentava. Ma il pittore olandese non fu l’unico a innamorarsi di questa tinta pericolosa.Non meno pericoloso era il giallo di cadmio, scoperto nel XIX secolo e ampiamente utilizzato dagli impressionisti. Questo giallo brillante e intenso aveva una resistenza superiore rispetto ai suoi predecessori e conquistò immediatamente gli artisti. Tuttavia, il cadmio non è esattamente un toccasana per la salute: inalare le sue polveri poteva causare seri problemi ai polmoni e, in alcuni casi, avvelenamenti letali. Eppure, pittori come Monet, Matisse e Picasso non se ne preoccupavano troppo: la ricerca della luce perfetta da fissare nei loro dipinti valeva qualche rischio per la salute.
Arancione: Tubetti radioattivi
Un tempo i modi per ottenere l’arancione non erano molti. L’arancione di realgar, un solfuro di arsenico, garantiva almeno qualche visita al cerusico locale. Poi, come abbiamo visto, c’era il minio, un ossido di piombo ross-arancio che ha decorato affreschi e manoscritti per secoli, avvelenando impietosamente chi lo usava senza precauzioni. Ma quando si dice che l’arancione è un colore caldo…a volte lo si intende in senso letterale, soprattutto quando parliamo di colori radioattivi. Questo pigmento, derivato dai sali di uranio, conobbe il suo momento di gloria nel XX secolo, quando venne impiegato per smalti ceramici, vetri decorativi e perfino quadranti di orologi. Il più famoso tra questi materiali fu il Fiestaware, una linea di ceramiche prodotta negli Stati Uniti a partire dagli anni ’30, caratterizzata da un acceso arancione ottenuto grazie all’ossido di uranio.
L’entusiasmo per i materiali di questo tipo raggiunse il suo apice negli anni 30’ e durò fino agli anni 50’. Ancora oggi possiamo trovare piatti arancione radioattivi nei mercatini vintage, basta essere equipaggiati con un contatore Geiger per scovarli.
Bianco: Il Fantasma letale del piombo
Tra tutti i pigmenti bianchi della storia, la biacca, o bianco di piombo, è stata senza dubbio la più celebre e la più letale. Utilizzata sin dall’antichità, questa sostanza a base di carbonato basico di piombo garantiva una copertura perfetta e una luminosità senza pari. I pittori fiamminghi e rinascimentali la adoravano per la sua capacità di conferire profondità e volume alle carnagioni, donando una lucentezza quasi tridimensionale. Tuttavia, a fronte di tanta bellezza, c’era un problema non trascurabile: la biacca è altamente tossica.
La sua produzione, che prevedeva l’esposizione del piombo a vapori di aceto in camere sigillate, era un processo tanto ingegnoso quanto pericoloso per gli artigiani che la maneggiavano. Già gli antichi Romani ne conoscevano gli effetti nocivi, eppure il fascino di questo pigmento persistette per secoli. Famosi artisti come Rembrandt, Tiziano e Velázquez ne fecero largo uso, ignari o forse noncuranti dei danni che il piombo poteva causare al loro organismo. Il problema non riguardava solo i pittori: la biacca era anche un ingrediente nei cosmetici, con risultati devastanti per la salute di chi ne faceva uso.
Nel XIX secolo, con l’avvento di alternative meno pericolose come il bianco di zinco e il bianco di titanio, la biacca iniziò a perdere popolarità, sebbene continuasse a essere usata per la sua ineguagliabile resa pittorica. Oggi è vietata nella maggior parte dei paesi, ma i restauratori e alcuni artisti tradizionalisti ancora la impiegano con cautela. L’arte, si sa, pretende sacrifici—anche se, fortunatamente, sempre meno letali.
Blu: Bello e Maledetto
Il blu sembra un colore rassicurante, ma non sempre è così. ll blu, colore dell’infinito e associato alla calma, ha avuto una storia tutt’altro che serena quando si tratta di pigmenti. Alcuni dei blu più iconici della storia dell’arte sono stati, in realtà, tra i più tossici e insidiosi mai utilizzati. Tra questi, il Blu di Prussia e il Blu di Cobalto si distinguono per bellezza… e pericolosità.
Scoperto per caso nei primi anni del XVIII secolo, il Blu di Prussia (ferrocianuro ferrico) permise di ottenere un blu intenso e stabile: il solo vero blu affidabile, prima, era il lapislazzuli macinato, noto come blu oltremare, che costava quanto l’oro. Il Blu di Prussia divenne dunque una rivoluzione per gli artisti, rendendo il blu accessibile. Si diffuse rapidamente nelle tavolozze di tutta Europa.
Ma, come spesso accade, la sua formula nascondeva un lato oscuro. Il nome ferrocianuro potrebbe far suonare qualche campanello d’allarme, e a ragione: il pigmento può rilasciare acido cianidrico, una delle sostanze più tossiche conosciute, se riscaldato o mescolato con acidi forti. Insomma, una splendida tonalità di blu con il potenziale di trasformarsi in qualcosa di pericoloso.
Paradossalmente, il Blu di Prussia è anche un antidoto per l’avvelenamento da tallio. Grazie alla sua struttura chimica, questo pigmento è in grado di legarsi ai metalli pesanti nell’organismo e facilitarne l’espulsione. Un altro protagonista nella saga dei colori tossici è il Blu di Cobalto, una tonalità straordinariamente vibrante amata da artisti come Van Gogh e Monet. Scoperto alla fine del XVIII secolo, questo pigmento venne salutato come un’alternativa più stabile al Blu di Prussia e all’oltremare naturale. Luminoso, resistente e perfetto per cieli e ombre profonde, il Blu di Cobalto divenne una presenza fissa nelle tavolozze dell’arte moderna.
Tuttavia, il cobalto non è esattamente un ingrediente da maneggiare con leggerezza. L’inalazione prolungata delle sue polveri può causare avvelenamento cronico, problemi respiratori e disturbi neurologici. Inoltre, il cobalto veniva utilizzato anche per smalti e ceramiche, e chiunque abbia lavorato con questi materiali senza precauzioni si esponeva a rischi non trascurabili. Il fascino del Blu di Cobalto era così irresistibile che venne impiegato perfino nei cosmetici e nei coloranti per vetro, senza troppe preoccupazioni per le sue conseguenze sulla salute. Anche oggi è ancora in uso nella pittura artistica, ma con precauzioni maggiori rispetto al passato.
Oggi i colori tossici sono quasi tutti sostituiti da versioni più sicure, ma il fascino della loro storia a tratti sinistra rimane. Ogni pennellata del passato era un rischio e poteva avvicinare di un passo alla tomba. Forse oggi non rischiamo più di intossicarci dipingendo un tramonto, ma possiamo ancora ammirare la bellezza di quei gialli letali sulle tele dei grandi maestri, consapevoli del prezzo che alcuni artisti hanno pagato per regalarci la loro arte.
Puoi scoprire di più sui grandi maestri del passato e sulle loro opere nella Novità 2025 Chimica per l’arte di Edizione Calderini.