Papa Francesco e l’enciclica Laudato si’: la cura della casa comune

Papa Francesco e l’enciclica Laudato si’: la cura della casa comune

Nel 2015 Papa Francesco ha pubblicato Laudato si’, la sua seconda enciclica, dedicata interamente al tema dell’ambiente, della giustizia sociale e della responsabilità umana verso il creato. Questo testo rappresenta una pietra miliare non solo per la Chiesa cattolica, ma per l’intera comunità internazionale, poiché affronta in modo profondo e innovativo le questioni ambientali collegandole alla dignità umana e al destino comune dell’umanità.

Origine e significato del titolo

Il titolo Laudato si’ significa “Sii lodato” ed è tratto dal “Cantico delle Creature” di San Francesco d’Assisi, il santo patrono dell’ecologia. Il riferimento non è casuale: il Papa richiama la spiritualità francescana, che vede la natura come una sorella e una madre, da rispettare e amare. L’enciclica si inserisce quindi in una tradizione spirituale antica, ma rivolta con forza alle sfide del mondo contemporaneo.

La struttura dell’enciclica

Laudato si’ è articolata in sei capitoli, preceduti da un’introduzione e seguiti da due preghiere finali. Ogni capitolo approfondisce un aspetto specifico della crisi ecologica e propone percorsi di riflessione e azione.

  1. Quello che sta accadendo alla nostra casa comune

Papa Francesco offre una panoramica dettagliata della situazione ambientale globale: inquinamento, cambiamento climatico, diminuzione della biodiversità, sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, degrado sociale e urbano. Non si limita a descrivere i problemi, ma ne indica le cause profonde, individuandole in un modello economico consumista e tecnocratico.

  1. Il Vangelo della Creazione

Il Papa propone una lettura teologica della realtà, sottolineando che il mondo è stato creato da Dio come dono da custodire. L’uomo non è un padrone assoluto della Terra, ma un amministratore responsabile.

  1. La radice umana della crisi ecologica

In questo capitolo si analizza come la cultura moderna, segnata da una fiducia cieca nella tecnica e nel progresso illimitato, abbia portato all’attuale crisi. L’individualismo, l’indifferenza e l’avidità sono identificati come mali spirituali che si riflettono sulla condizione del pianeta.

  1. Un’ecologia integrale

Al centro dell’enciclica c’è il concetto di “ecologia integrale”, che lega ambiente, economia, società, cultura e vita quotidiana. L’essere umano non può separare la cura dell’ambiente dalla lotta contro la povertà e dall’impegno per la giustizia.

  1. Alcune linee di orientamento e di azione

Papa Francesco invita i governi, le imprese, le comunità e i singoli cittadini ad assumersi la responsabilità di un cambiamento concreto. Propone il dialogo internazionale, la politica al servizio del bene comune, il rispetto delle culture locali e uno stile di vita più sobrio e sostenibile.

  1. Educazione e spiritualità ecologica

Infine, l’enciclica richiama la necessità di un cambiamento culturale profondo, che passi attraverso l’educazione e la riscoperta della dimensione spirituale della vita. Viene promosso un atteggiamento di “gratitudine e gratuità”, in contrasto con la logica dell’uso e dello sfruttamento.

Temi chiave dell’enciclica

Interconnessione: tutto è collegato; la crisi ambientale e quella sociale non possono essere affrontate separatamente.

Giustizia climatica: i poveri sono i più colpiti dai danni ambientali, pur contribuendo in minima parte a causarli.

Conversione ecologica: non basta cambiare leggi o tecnologie; serve una trasformazione interiore che porti a uno stile di vita più semplice, rispettoso e solidale.

Dialogo globale: le sfide ambientali non conoscono confini. È necessario un dialogo onesto tra le nazioni e tra tutte le persone di buona volontà.

L’impatto di Laudato si’

L’enciclica ha avuto una risonanza globale, influenzando conferenze internazionali sul clima, come l’Accordo di Parigi del 2015, e stimolando movimenti ecologisti, iniziative educative e progetti di sostenibilità promossi anche da istituzioni religiose.

Molti hanno riconosciuto a Papa Francesco il merito di aver dato una nuova autorità morale alla questione ecologica, parlando con un linguaggio accessibile e toccando il cuore di credenti e non credenti.

Laudato si’ non è soltanto un documento ecclesiale, ma un vero appello universale alla responsabilità, alla solidarietà e alla speranza. Papa Francesco ci invita a cambiare mentalità, a riconoscere la bellezza del creato, a prenderci cura gli uni degli altri e a costruire insieme un futuro migliore, nella consapevolezza che “il grido della Terra e il grido dei poveri” sono un unico grande appello che non può più essere ignorato.

Materiali

Scarica l’attività “L’albero generoso”.

La basilica di S. Maria Maggiore: scrigno di fede e arte, ultima dimora del pontefice defunto

La basilica di S. Maria Maggiore: scrigno di fede e arte, ultima dimora del pontefice defunto

Tra le sette chiese principali della Città Eterna, la Basilica di Santa Maria Maggiore si erge maestosa sul colle Esquilino, testimone di secoli di storia, devozione e arte. Fondata secondo la tradizione nel 432 d.C., poco dopo il Concilio di Efeso che confermò il titolo di Theotokos (Madre di Dio) a Maria, la basilica rappresenta il più antico santuario mariano dell’Occidente.

Un capolavoro stratificato nei secoli

Santa Maria Maggiore è una delle quattro basiliche papali di Roma, accanto a San Pietro, San Giovanni in Laterano e San Paolo fuori le Mura. È l’unica a conservare ancora la struttura paleocristiana originaria, pur arricchita nei secoli da interventi di epoche successive: dal mosaico absidale del XIII secolo ai soffitti lignei dorati commissionati da Papa Alessandro VI, fino alla scenografica facciata barocca di Ferdinando Fuga.

Al suo interno si possono ammirare i celebri mosaici del V secolo lungo la navata, che raffigurano episodi dell’Antico Testamento, un capolavoro di narrazione biblica visiva. La basilica custodisce anche la Salus Populi Romani, icona mariana bizantina particolarmente cara alla devozione dei romani e ai pontefici.

L’ultimo desiderio di un papa

In una scelta carica di significato simbolico e spirituale, papa Francesco recentemente scomparso ha espresso il desiderio di essere sepolto proprio nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Secondo fonti vaticane, il pontefice – noto per la sua profonda venerazione mariana e per aver visitato frequentemente la basilica all’inizio e alla fine di ogni viaggio apostolico – avrebbe richiesto di riposare accanto alla “Madre della Chiesa”, come segno di umiltà e affidamento.

Si tratta di un evento di grande rilevanza storica: è infatti uno dei rari casi in epoca moderna in cui un papa non viene sepolto all’interno della Basilica di San Pietro. Una decisione che rispecchia la personalità del pontefice, attento al valore della tradizione, ma anche incline a scelte semplici e cariche di spiritualità.

Una basilica viva, tra liturgia e arte

Oggi, Santa Maria Maggiore continua a essere un punto di riferimento per pellegrini e turisti, ma soprattutto un centro liturgico attivo. Vi si celebrano quotidianamente messe e solenni liturgie, spesso presiedute da cardinali e, non di rado, dal papa stesso. È anche sede di importanti reliquie, tra cui quella che la tradizione identifica come la culla di Gesù, conservata nella cripta sotto l’altare maggiore.

Con la notizia della sepoltura del papa appena defunto, la basilica si prepara ad accogliere una nuova pagina della sua millenaria storia, diventando ancora una volta crocevia tra spiritualità, memoria, fede e cultura.

 

Per approfondimenti, vai alla rubrica Luoghi dello Spirito della rivista Raggi di Luce.

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Il Papato: un’istituzione millenaria

La chiesa delle origini e il vescovo di Roma

Il Papato è una delle istituzioni più antiche del mondo, e anche a questo si deve il prestigio di cui a tutt’oggi gode. Tuttavia la storia di questa istituzione non coincide con la totalità delle fedi che si richiamano alla figura del Cristo (dai cristiano-ortodossi alle chiese evangeliche emerse dalla Riforma protestante e dai suoi sviluppi successivi), bensì con una sola di queste: la fede cattolico-romana. Inoltre deve essere ben chiaro che il papato in quanto istituzione si è costituito, strutturato ed è mutato nel corso del tempo.

Già le comunità cristiane della cosiddetta “chiesa primitiva” – quella anteriore al 313 d.C., quando il cristianesimo venne legalizzato dall’imperatore Costantino – erano organizzate gerarchicamente in ogni città. Al vertice vi era un episcopo (dal greco episkopèin, “detenere la supervisione e la sorveglianza”, da cui deriva “vescovo”), coadiuvato dai presbiteri (anziani, da cui deriva “preti”) e altri addetti al culto, tra cui gli esorcisti (da exorkistes, “scongiuratore”), con il compito di scacciare i demoni prima del battesimo. Per chiarire le questioni sulla disciplina e la dottrina delle loro comunità, talvolta i vescovi di una regione si riunivano in sinodi (da sýnodos, “incontro”).

Fu soltanto intorno al 400 d.C. che il vescovo di Roma cominciò a sostenere di poter disporre, in quanto successore di san Pietro, della pienezza del potere di “legare e sciogliere”, cioè essere titolare di un carisma maggiore rispetto agli altri vescovi. Questo primato d’onore fu accettato nella parte occidentale dell’impero romano ma non in Oriente poiché lì i patriarchi, cioè i capi delle comunità cristiane più importanti, già godevano di un prestigio non meno autorevole.

Il papato nell’Alto Medioevo

Intorno al 600, nell’area dell’ormai caduto impero romano d’Occidente, il ruolo carismatico del papato fu riaffermato a più livelli (riforma liturgica, diffusione dei monasteri benedettini, invio di missionari nelle parti pagane dell’Europa) da papa Gregorio Magno (590-604). E intorno all’Ottocento questa centralità dell’istituzione papale venne ribadita grazie ai legami con i Franchi e con il loro imperatore, Carlo Magno (800-814).

Ma il papato assunse le caratteristiche che lo contraddistinguono ancor oggi soltanto dopo il Mille, quando andò sempre più differenziandosi dalla Chiesa dei cristiani bizantini. Questi avevano infatti accettato il cesaropapismo, ossia un rapporto di sostanziale subordinazione del patriarca di Costantinopoli al potere politico dell’imperatore d’Oriente: ne nacque lo scisma d’Oriente (1054), cioè la separazione ancor oggi vigente tra la chiesa “papale”, cioè di rito cattolico romano, e quella di rito greco ortodosso. Chiusa la questione dei rapporti con l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, il papato romano si apprestò a rispondere a ciò che la storiografia chiama lo scontro tra gli universalismi.

Il tentativo fatto da alcuni principi tedeschi, in particolar modo quelli di Sassonia, di costruire un Sacro romano impero germanico, portò il vescovo di Roma a contrapporsi a questo progetto universalistico, soprattutto sul piano del ruolo del potere spirituale. Ne conseguì la lotta per le investiture, ossia lo scontro su chi doveva nominare i vescovi, che fu una manifestazione dello scontro fra queste due pretese di poteri universalistici, quello “temporale” dell’impero e quello “spirituale” della Chiesa di Roma. 

I “superpapi” del Medioevo

I pontefici dopo l’anno Mille – soprattutto i tre “superpapi”, Gregorio VII (1073-1085), Innocenzo III (1198-1216) e Bonifacio VIII (1294-1303) – lottarono a tutto campo per rivendicare le prerogative del vescovo di Roma inteso non solo come successore di Pietro, ma anche in quanto vicario di Cristo in Terra, quindi autorità indiscutibile e superiore certamente a quella imperiale.

Dopo Bonifacio VIII – che uscì sconfitto dallo scontro con il potere emergente del re di Francia Filippo il Bello (1285-1314) -, l’istituzione papale si avviò verso un lento declino. Gli anni tra l’inizio del Trecento e la prima metà del Quattrocento furono tra i momenti peggiori per il pontificato, poiché la sede papale fu trasferita ad Avignone, sotto la tutela dei sovrani di Francia; inoltre dopo il rientro a Roma (1378), per quasi mezzo secolo al papa romano fu contrapposto un antipapa avignonese.

Dall’Umanesimo alla Riforma: la nuova grande rottura nella cristianità

Quasi alla metà del XV secolo la Chiesa ritrovò la sua unità e, tra il 1450 e il 1550 circa, il papato seppe accogliere molte idee del tempo, come quelle suggerite dalla cultura umanistica, pur lasciando che la parola “riforma”, evocata dalla nuova spiritualità sostenuta da dotti come Erasmo da Rotterdam (1466-1536), restasse sostanzialmente lettera morta. 

In quegli anni ci furono molti papi umanisti, intellettuali o amanti dell’arte, ma anche pontefici membri di famiglie che perseguivano interessi privati in una maniera così evidente da far pensare che Roma fosse diventata una sorta di nuova Babilonia e che perciò fosse necessario inaugurare un profondo processo di riforma della Chiesa.

Il risultato di queste tensioni fu una lacerante rottura all’interno della cristianità occidentale. La Riforma protestante avviata da Martin Lutero (1483-1546) diede l’avvio non solo alla nascita di nuove confessioni cristiane, ma anche – in nome della fede – a divisioni violente nell’Occidente europeo, che fino alla guerra dei Trent’anni (1618-1648) lastricarono di sangue le vicende politiche di un’Europa in preda agli scontri del cosiddetto “confessionalismo”.

La reazione della Chiesa romana alla Riforma protestante fu detta Controriforma ed ebbe nel concilio di Trento, svoltosi dal 1545 al 1563, il suo momento organizzativo. L’esito fu una riforma interna della chiesa cattolica, ora più di prima incentrata sul papato romano: le linee stabilite nel concilio si mantennero sostanzialmente inalterate fino al concilio Vaticano II (1962- 1965).

I primi papi post-tridentini erano molto austeri: spesso provenivano da ordini religiosi che avevano combattuto il protestantesimo, ma nello stesso tempo erano critici nei confronti dei comportamenti delle famiglie di ascendenza romana (come i Borghese o i Colonna), che fino a quel momento si erano fondamentalmente spartite il trono di Pietro. Nel Seicento, tuttavia, molte di quelle famiglie riuscirono a riprendere il potere: ne rimane come prova sul piano artistico il Barocco romano, che ancora oggi possiamo ammirare in luoghi come piazza di Spagna, piazza Navona e – simbolicamente primo, in quanto proteso ad abbracciare l’intera cristianità – il doppio colonnato che Bernini realizzò per piazza San Pietro.

 La secolarizzazione dell’Europa e il declino del papato

Nella prima metà del XIX secolo, la Chiesa soffrì per l’avvio di un processo di secolarizzazione, ossia della laicizzazione della società e della marginalizzazione della fede a fatto individuale, regolato dalla coscienza interiore.

La cultura illuministica – prima in forme limitate a piccoli e a ristretti gruppi intellettuali, poi in maniera decisamente più massiccia – portò a quella che la storiografia chiama la femminilizzazione delle pratiche devote. I veri fedeli per la Chiesa sono soprattutto le donne e in parte i bambini, mentre vacilla la capacità di mantenere il proprio legame con la comunità dei maschi adulti e dei lavoratori.

Ma ci fu, soprattutto, la Rivoluzione francese: questa, esportata in tutta l’Europa dai cannoni di Napoleone Bonaparte (1769-1821), sostenne questa politica di secolarizzazione, che ebbe come frutto la nascita, nel XIX secolo, delle idee liberali. Il liberalismo fu visto dalla Chiesa dell’Ottocento, come il grande nemico a cui, verso la fine del secolo, se ne aggiungeva un altro: il socialismo ateo e materialista.

Tuttavia fu proprio un papa di fine Ottocento, Leone XIII (1878-1903), a intuire che bisognava agire sulle cose nuove, che bisognava in qualche modo raccontare il mondo moderno e proporre una pastorale sociale che coinvolgesse la comunità cristiana, criticando tanto il socialismo in tutte le sue forme, quanto il liberalismo e quella sua espressione economica che, proprio in quel finir di secolo, si cominciava a chiamare capitalismo.

La Chiesa e il papa nel corso del Novecento

Nel primo Novecento la Chiesa patì i sussulti e le conseguenze dei grandi cambiamenti del secolo precedente. Al tentativo di alcuni cattolici di aprirsi al mondo moderno seguì una dura repressione disciplinare e addirittura, con Pio X (1903-1914), la scomunica dei cosiddetti “modernisti”.

Il successore, Benedetto XV (1914-1922), eletto proprio alla vigilia della Prima guerra mondiale, fu uno dei più lucidi critici della guerra, che definì una “inutile strage”. 

I due pontefici successivi, Pio XI (1922-1939) e Pio XII (1939-1958), affrontarono lo scontro della chiesa romana con la società di massa e con l’eredità politico-ideologica dei totalitarismi (nel 1929 furono firmati i Patti Lateranensi). Da parte di entrambi i pontefici vi fu il tentativo di trovare un modo di sopravvivere, a volte anche con comportamenti ambigui che sarebbero stati in seguito molto criticati.

Ma la grande novità della Chiesa fu l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII (1958-1963). Egli e il successore Paolo VI (1963-1978), più cauto ma coerente nel portare avanti il progetto giovanneo, rivoluzionarono la Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II (1962-1965): un’apertura al nuovo, al mondo, ai problemi delle popolazioni di tutta la Terra e nello specifico di quello che all’epoca veniva definito il Terzo Mondo. I cambiamenti radicali investirono la Chiesa anche sul piano liturgico: venne abolita la messa in latino, fu cambiata la liturgia e ci si allontanò da quella magnificenza barocca che, volutamente, il concilio di Trento aveva costruito proprio a contrastare la sobrietà protestante. Tutto ciò, stava a rappresentare un profondissimo cambiamento sia sul piano teologico, sia sul piano istituzionale-organizzativo. Mentre il perno della Chiesa tridentina era stato il suo vertice – il papato – , le decisioni del concilio Vaticano II avevano spostato il baricentro sul cosiddetto “popolo di Dio in cammino”, cioè sul gregge dei fedeli che continuavano ad essere guidati dal papa come supremo pastore, ma in piena condivisione con gli aderenti alla Chiesa e, in comunione, addirittura, con tutti gli esseri umani di buona volontà, a prescindere dalla fede religiosa.

La “piccola controriforma” e l’esperienza di papa Francesco

A parere di molti, la “rivoluzione interna” avviata dal concilio Vaticano II conobbe un ridimensionamento ad opera di Giovanni Paolo II (1978-2005) e del suo successore, Benedetto XVI (2005-2013). Papa Wojtyla mise a disposizione di questa nuova Chiesa il suo indiscutibile carisma, molto forte negli anni della caduta del blocco sovietico (1989). D’altro canto, favorì chi tendeva in qualche modo a ridimensionare, a controllare alcune svolte che erano state ipotizzate negli anni Sessanta e Settanta: Ratzinger, già da collaboratore di Giovanni Paolo II, fu invece il teorico lucido di questa sorta di “piccola controriforma”, diventando l’intellettuale organico (per usare un’espressione da Antonio Gramsci) di quel movimento più conservatore volto a limitare gli effetti del concilio Vaticano II.

Le sue dimissioni nel 2013 sorpresero molti, anche se, per certi versi, furono giustificate dall’incredibile confusione nella gestione quotidiana che la Curia romana aveva conosciuto nell’ultima fase del pontificato di Wojtyla. Ratzinger, fine intellettuale e teologo, non era però un tattico e non aveva quell’abilità politica adatta a gestire la Chiesa nella sua quotidianità. Se ne rese conto egli stesso e volle lasciare il suo ruolo, con un gesto che fu certamente eccezionale, ma non un unico, nella storia della Chiesa. Una Chiesa travolta da scandali, anche finanziari, ma soprattutto dalla vergogna degli atti di pedofilia da parte dei sacerdoti così a lungo coperti e negati.

L’elezione di Jorge Mario Bergoglio (2013-2025), il papa che veniva “dai confini del mondo”, sembrò all’inizio quasi un compromesso tra conservatori e progressisti, come spesso sono chiamati, con molta approssimazione, i due fronti che si contrappongono al vertice della Chiesa. Invece papa Francesco – già dalla scelta del nome, così prestigioso nella storia della spiritualità cristiana, quello di Francesco d’Assisi, eppure un nome che mai era stato utilizzato da un pontefice – portò a una novità straordinaria, prima di tutto nei modi, nei comportamenti di un pontefice che voleva essere il papa degli umili e delle persone semplici. Ma egli impresse anche un deciso cambiamento di rotta nel cammino della Chiesa: la ripresa del discorso, interrotto in qualche modo negli anni di Wojtyla e di Ratzinger, di una piena riforma della Chiesa secondo il concilio Vaticano II, e magari spingendosi anche più in là, sul piano etico, ma anche soprattutto sul piano della condanna inequivocabile della guerra e della violenza, in un’epoca in cui essa tornava a essere centrale nel discorso pubblico.

Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano detto parole chiare e inequivocabili contro il rischio evidentemente di una neomilitarizzazione del mondo e di un affievolirsi dello spirito del disarmo; ma è stato soprattutto con Francesco che il messaggio politico (nel senso più alto e nobile del termine) del papato, ha assunto un significato indiscutibile, quello della difesa della pace come valore assoluto. Particolarmente significativa è stata la sua difesa dei migranti, prendendo posizioni molto critiche nei confronti di chi professa valori cristiani ma agisce in tutt’altro modo.

Come ebbe modo di dire, “piuttosto che essere cristiani che vanno in chiesa ma hanno pensieri di odio, è forse meglio essere atei”. Ecco, questa è una delle più paradossali, ma non certo l’unica, delle espressioni provocatorie che questo papa, venuto a mancare alla fine del mese di aprile del 2025, ci ha lasciato in eredità, suscitando in credenti e in non credenti un’emozione profonda per la sua scomparsa.

La seconda prova dell’esame di Stato per gli Istituti professionali Servizi per la sanità e l’assistenza sociale

Nel primo articolo Olimpia Capobianco e Simona Diani offrono alcuni suggerimenti sulla preparazione e la valutazione delle quattro tipologie di prova, declinate per l’indirizzo “Servizi per la Sanità e l’Assistenza sociale”.

Negli altri due articoli le autrici propongono alcuni simulazioni per lo svolgimento della prova, accompagnati da alcune indicazioni pratico-metodologiche e dalle griglie di valutazione.

 

La seconda prova dell’esame di Stato per gli Istituti professionali
Indirizzo Servizi per la sanità e l’assistenza sociale

 

Simulazioni

WRW | La magia delle immagini: i silent book in classe

Negli albi senza parole o silenziosi (silent book o wordless picture book) la storia viene raccontata attraverso le immagini. A differenza degli albi illustrati, infatti, qui mancano completamente le parole, a eccezione del  titolo, quando presente. Considerati spesso e a torto dei libri per bambini, essi  trovano uno scarsissimo utilizzo nella scuola secondaria di secondo grado che si priva però in questo modo di uno strumento didattico estremamente potente ed efficace. 

Quali sono le motivazioni principali che dovrebbero convincerci a introdurli in modo continuativo a scuola? Vediamone alcune.

In primo luogo, molti albi silenziosi sono dei piccoli capolavori grafici e stilistici: sfogliarli è come entrare in una galleria d’arte che si anima solo per noi, in quel preciso momento. Trasmettono a chi li guarda un forte godimento estetico che dovrebbe essere uno dei primi motivi della fruizione artistica. Ricordiamo che uno degli scopi del WRW è stimolare il piacere della lettura e creare lettori per la vita.

La presenza di sole immagini richiede poi al lettore uno sguardo attento ai dettagli, capace di  decifrare il linguaggio iconico, di andare in profondità e di creare relazioni tra le varie tavole; questo educa a un approccio critico e non passivo rispetto al fiume di immagini da cui siamo quotidianamente inondati. 

Inoltre, l’assenza delle parole amplifica ancor più il ruolo attivo del lettore e delle strategie che deve mettere in atto per una lettura profonda del testo. In particolare, educa alla capacità di fare previsioni, di visualizzare, di porsi domande, di fare connessioni, di individuare elementi narrativi, di fare inferenze e di esprimere opinioni

Infine, l’uso in classe degli albi  favorisce la creazione di una comunità ermeneutica di lettrici e lettori, in grado di generare significati, di negoziarli e di condividerli. 

BIBLIOGRAFIA 

Per il Writing and Reading Workshop

  • Apolloni, Bianchin, Carollo, Giaretta, Maruzzo, Il club delle storie. Leggere e scrivere con il Writing and Reading Workshop, La nuova Italia, 2024. Il volume è disponibile in vendita separata o in abbinamento alle antologie Di lettura in lettura e Libere stelle.
  • Jenny Riz Poletti, Silvia Pognante, Educare alla lettura con il WRW. Writing and Reading Workshop. Metodo e strumenti per la scuola secondaria di primo grado, Erickson, 2022.
  • Jennifer Serravallo, La grande guida delle strategie di lettura. Parte prima, Erickson, 2024.
  • Jennifer Serravallo, La grande guida delle strategie di lettura. Parte seconda, Erickson, 2024.

PER APPROFONDIRE

Bibliografia

  • Molly Bang, Immaginalo. Come funzionano le immagini negli albi illustrati, Babalibri, 2025.
  • Antonella Capetti, A scuola con gli albi. Insegnare con la bellezza delle parole e delle immagini, Topipittori, 2018.
  • Elena Garroni, Tra le emozioni con gli albi illustrati. Percorsi didattici per educare alle relazioni e alla conoscenza di sé, Sanoma, 2024.
  • Elisa Golinelli, Sabrina Minuto, QdR 16. Meraviglia da sfogliare. Quando l’albo illustrato incontra il laboratorio di lettura e scrittura, Loescher, 2023.

Laboratorio

“L’albero e il fiume: come impostare un laboratorio di lettura WRW con un silent book”

WRW | Per una competenza testuale multimodale: l’albo illustrato in classe

Si possono proporre albi illustrati alle classi della scuola secondaria di secondo grado? Sicuramente sì, basta avere l’accortezza di scegliere opere di qualità capaci fin dalla prima lettura di scardinare il pregiudizio più diffuso tra gli adolescenti: se ci sono le figure allora è un libro da bambini.

Gli albi illustrati meritano un posto d’onore nel laboratorio di lettura soprattutto perché possono essere letti integralmente in un’unica sessione, garantendo anche un congruo tempo per la discussione. Tuttavia, parlare di lettura di albi illustrati nella scuola secondaria potrebbe suscitare qualche perplessità non solo tra gli studenti ma anche tra i docenti. Spesso, infatti, sono percepiti come un prodotto editoriale per l’infanzia, inadatto a una proposta didattica destinata a chi è ormai “grande” e dovrebbe leggere, comprendere e analizzare testi letterari. Gli albi, però, andrebbero considerati letteratura di qualità oltre che un utile strumento pedagogico: in un mondo in cui la comunicazione è diventata multimodale, imparare a cogliere l’interazione tra diversi linguaggi serve anche a leggere in modo meno superficiale la realtà.

Vale dunque la pena di chiarire la differenza tra albo e libro illustrato. Le definizioni più chiare ci vengono dal mondo anglosassone che distingue illustrated books, picturebooks e wordless books in base alla diversa relazione tra testo e immagini presente in ciascuna categoria.

Gli illustrated books corrispondono ai nostri libri illustrati o libri con le figure: sono libri in cui le immagini vengono aggiunte a un testo che di per sé non ne avrebbe bisogno, in quanto già completo, lo arricchiscono e spesso ne chiariscono il significato.

Nei picturebooks, ovvero gli albi illustrati, tre codici espressivi interagiscono in un continuo e indissolubile gioco di richiami: parole, immagini e design dialogano tra loro. Forma, dimensioni e grafica dell’oggetto-libro si relazionano con la parte verbale, che può essere costituita da poche, brevi frasi o da un testo più lungo, e con la parte iconografica che, attraverso una serie di metafore visive, può amplificare i contenuti testuali o metterli in discussione. La lingua che ne deriva ha una complessità sempre diversa la cui decodifica mette alla prova il lettore.

L’attenzione per i dettagli e per le illustrazioni è ancora più necessaria nei wordless books  (o silent books) o libri senza parole, un tipo particolare di albi in cui la parte testuale è limitata al titolo.

La contaminazione di linguaggi e la polisemia fanno dell’albo illustrato lo strumento ideale per apprendere strategie di lettura profonda e diventare consapevoli del proprio modo di pensare durante il processo di lettura di testi multimodali nel laboratorio e nella realtà quotidiana. 

PER APPROFONDIRE

  • Bibliografia
    • Per il Writing and Reading Workshop
      Apolloni, Bianchin, Carollo, Giaretta, Maruzzo, Il club delle storie. Leggere e scrivere con il Writing and Reading Workshop, La nuova Italia, 2024 Il volume è disponibile in vendita separata o in abbinamento alle antologie Di lettura in lettura e Libere stelle.
    • Per approfondire gli albi illustrati
      – Hamelin (a cura di), Ad occhi aperti. Leggere l’albo illustrato, Donzelli, 2012.
      – The Book Fools Bunch, Carla Ghisalberti, Guida tascabile per maniaci dei libri per ragazzi, Edizioni Clichy, 2023.
      – Frank Serafini, Leggere giorno per giorno, Equilibri, 2024.
      – Frank Serafini, Reading the Visual: An Introduction to Teaching Multimodal Literacy, Teachers College Press, 2013.
      – Nancie Atwell, Anne Atwell Merkel, QdR 15. La zona di lettura. Come aiutare i ragazzi e le ragazze a diventare lettori abili, appassionati, abituali, critici, Loescher, 2022.
      – Marcella Terrusi, Albi illustrati. Leggere, guardare, nominare il mondo nei libri per l’infanzia, Carocci, 2012.
      Home – RaccontareAncora di Silvia Blezza Picherle

 

  • Laboratorio:
    “Cavalca la Tigre: come impostare un laboratorio di lettura WRW con un albo illustrato

“Questo libro non mi piace… quindi non lo finisco!” I diritti di lettrici e lettori

Il 23 aprile si celebra La Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, un evento sancito dall’UNESCO per promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la protezione della proprietà intellettuale attraverso il diritto d’autore. 

Quest’anno la giornata mondiale del libro verrà celebrata durante le vacanze di Pasqua, ciò non ci deve scoraggiare in quanto possiamo decidere di celebrare il nostro amore per la lettura ogni giorno.

Per questo motivo abbiamo pensato ad un’attività che, al di là della giornata in sé, possa essere proposta in classe per parlare di libri in qualsiasi momento. Infatti, la vera promozione alla lettura non può essere delegata a una singola giornata, ma deve essere curata con azioni costanti e ripetute nel tempo.

In che modo possiamo celebrare ogni giorno i libri?

Ecco alcune azioni che possono essere svolte costantemente:

  • avere uno scaffale in classe destinato alla biblioteca, in modo che i libri siano sempre accessibili;
  • leggere un libro a puntate ad alta voce;
  • proporre albi illustrati per introdurre un argomento didattico;
  • fare uscite alla biblioteca cittadina;
  • proporre il bookcrossing in aula per scambiarsi i libri;
  • organizzare un album delle recensioni in cui mettere il titolo di un libro in una pagina e lasciare che i bambini e le bambine aggiornino la pagina con le loro impressioni quando leggono quel libro;
  • organizzare una bacheca collaborativa con padlet per raccogliere le recensioni dei bambini e delle bambine online;
  • organizzare momenti di lettura condivisi tra classi;
  • regalare segnalibri come premi;
  • proporre un approccio critico alla lettura.

 

Ed è proprio quest’ultimo punto che ispira l’attività di oggi.

Cosa vuol dire promuovere un approccio critico alla lettura? Dire se il libro è bello o brutto? Oppure possiamo andare più in profondità?

Quando andavamo a scuola la maestra ci diceva: “Se inizi un libro devi finirlo!”. Ecco questo è un approccio non critico: ti do una regola e tu la devi seguire, senza dubbi e senza ma.

Qualche ma in questo caso dovrebbe esserci: perché un libro deve essere per forza finito? E se non mi piace? Perché devo sprecare del tempo a leggerlo quando potrei leggerne uno che mi piace?

Ovviamente questa non deve essere una scusa per non finire mai un libro, ma se questo non è il caso è diritto del lettore smettere un libro.

A proposito del far odiare i libri ai bambini ha avuto da dire Gianni Rodari che, nell’ottobre del 1964, scriveva sul “Giornale dei Genitori” [GdG. 64. n.10/00] un articolo dal titolo 9 modi per insegnare ai ragazzi a odiare la lettura.

Li elenchiamo qui sotto:

  1. Presentare il libro come un’alternativa alla TV
  2. Presentare il libro come un’alternativa al fumetto
  3. Dire ai bambini di oggi che i bambini di una volta leggevano di più
  4. Ritenere che i bambini abbiano troppe distrazioni
  5. Dare la colpa ai bambini se non amano la lettura
  6. Trasformare il libro in uno strumento di tortura
  7. Rifiutarsi di leggere al bambino
  8. Non offrire una scelta sufficiente
  9. Obbligarli a leggere

 

Sul sito ufficiale per il centenario di Gianni Rodari è possibile scaricare il poster ufficiale da stampare e appendere in classe.

Se Gianni Rodari con le sue parole non ci avesse convinto sulla necessità di avere un approccio critico alla lettura, sicuramente i diritti del lettore elencati da Daniel Pennac, presentati nel suo libro Come un romanzo, potrebbero convincerci definitivamente.

Li elenchiamo qui sotto:

  • Il diritto di non leggere
  • Il diritto di saltare le pagine
  • Il diritto di non finire il libro
  • Il diritto di rileggere
  • Il diritto di leggere qualsiasi cosa
  • Il diritto di bovarismo (diritto di lasciarsi trascinare dalla storia e diventare tutt’uno con essa)
  • Il diritto di leggere ovunque
  • Il diritto di spizzicare
  • Il diritto di leggere ad alta voce
  • Il diritto di tacere (diritto di non dover spiegare le nostre scelte letterarie)

 

Ecco allora che attraverso la lettura di questi decaloghi, possiamo introdurre i bambini e le bambine a un pensiero critico nel loro approcciarsi alla lettura.

Nell’attività che proponiamo chiederemo ai bambini di realizzare il loro personale decalogo alla lettura.

MATERIALI

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LE AUTRICI

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

La lentezza che educa

A scuola si corre. Si corre per finire il programma, per incastrare le discipline, per rispettare i tempi. Si corre per fare tutto, a volte senza riuscire a sentire davvero niente. Ma la scuola, quella che lascia tracce, non ha bisogno di velocità. Ha bisogno di scelte, di respiro, di tempo pieno, non nel senso orario, ma nel senso umano.

Dalle Indicazioni alla pratica

Chi insegna nella scuola primaria oggi sa bene che il famoso “programma” non esiste più, almeno non come lo si intendeva una volta. Le Indicazioni Nazionali per il curricolo ci parlano chiaramente di una scuola orientata allo sviluppo delle competenze, che supera l’elenco dei contenuti disciplinari e promuove percorsi significativi e integrati. La didattica per nuclei tematici, la progettazione interdisciplinare, l’attenzione al senso e alla motivazione sono scelte didattiche non solo legittime, ma incoraggiate dai documenti ministeriali. E allora perché nella scuola a volte sono di difficile attuazione? 

Lo stesso richiamo alle Competenze chiave per l’apprendimento permanente dell’Unione Europea ci invita a collegare il sapere alla vita, a promuovere il pensiero critico, la creatività, la capacità di imparare ad imparare. E tutto questo richiede tempo, cura, riflessione. 

Richiede lentezza.

Occorre avere il coraggio – perché di coraggio si tratta – di rallentare, di scegliere cosa fare, ma soprattutto cosa lasciare andare. Perché non tutto serve allo stesso modo, e non tutto lascia lo stesso segno. Alcune esperienze toccano in profondità, radicano il sapere nella vita, si depositano come semi. Altre passano veloci e svaniscono, come il vento. Anche e soprattutto quando si parla di metodo di studio, dare un senso più ampio e denso, fa la differenza nei saperi che restano, che tra

Il rischio dell’ingozzamento cognitivo

La professoressa Daniela Lucangeli lo chiama così: ingozzamento cognitivo. È quando i bambini e le bambine vengono riempiti di contenuti, consegne, richieste, senza che abbiano il tempo di digerire, assimilare, rielaborare. È un carico che pesa, che crea ansia, che allontana dal desiderio di imparare.

Anche e soprattutto alla luce di queste ricerche, è ancora più evidente quanto sia necessario non fare tanto, ma fare bene. E fare bene, a scuola, significa anche prendersi cura del benessere. Perché solo quando un bambino sta bene, quando si sente accolto, visto, ascoltato, può davvero imparare. Il benessere non è un’aggiunta, è la condizione. È il terreno fertile su cui può crescere qualsiasi apprendimento.

Attività a largo respiro: la bellezza del tempo disteso

Una strada possibile è quella delle attività a largo respiro, esperienze che non hanno l’urgenza della prestazione immediata, ma si costruiscono nel tempo, lentamente, come un filo che si intreccia giorno dopo giorno.

Progettare in modo interdisciplinare e lavorare attraverso temi può abbracciare più linguaggi, più modi di esprimersi, più intelligenze. Le attività diventano ponte tra saperi e vita, tra scuola e mondo. Un percorso di lettura può diventare occasione per scrivere, per disegnare, per confrontarsi, per esplorare. Una scoperta in natura può portare a misurare, a osservare, a descrivere. Un sentimento può essere il cuore di una poesia, di una storia, di una conversazione vera.

In questo modo si lavora in profondità. Non si cerca di “fare tutto”, ma di dare senso a ciò che si fa. E questo senso i bambini lo sentono, lo riconoscono. Si fermano, riflettono, partecipano.

In fondo, ciò che conta davvero a scuola è che ogni bambino e ogni bambina possa sentire che ciò che fa ha valore, che ciò che pensa è importante, che la sua voce conta, che ciò che vive è riconosciuto. Non serve correre. Serve esserci, con attenzione e con cura.

Anche e soprattutto nell’organizzare percorsi di lettura e scrittura, è necessario pensare a tempi distesi, dedicati, lenti. Come fare? Ne abbiamo parlato insieme nelle Primaria Lessons, per approfondire:

Potenziare l’apprendimento con le tecnologie intelligenti

Quando si diffusero le calcolatrici tascabili, si disse che ragazzi e ragazze avrebbero perso la capacità di fare calcoli mentali e si aprì un dibattito sull’opportunità di vietarne l’uso a scuola. Poi arrivò internet, e con esso la possibilità di accedere a un’infinità di informazioni con pochi clic; anche allora si temette che gli studenti avrebbero delegato ai motori di ricerca la maggior parte del loro lavoro scolastico

Oggi è l’Intelligenza Artificiale a preoccupare dal momento che è utilizzabile con applicazioni che si installano gratuitamente su dispositivi di uso quotidiano e dunque di facile accesso. Si teme che studenti e studentesse possano fare un affidamento eccessivo su questi strumenti per risolvere problemi complessi o prendere decisioni. Tuttavia, come è accaduto con le calcolatrici e internet, l’AI offre anche un’opportunità per migliorare l’apprendimento e potenziare le capacità degli studenti, a patto che venga utilizzata in modo equilibrato e consapevole. 

Di Intelligenza Artificiale si è iniziato a parlare da diversi decenni. A partire dagli anni Ottanta sono state sviluppate le sue prime applicazioni in ambito industriale. E oggi l’AI rappresenta uno dei principali ambiti di interesse della comunità scientifica informatica, con temi di ricerca come il Machine Learning, l’elaborazione del linguaggio naturale, l’AI Generativa (di cui ChatGPT è un esempio) e la robotica. Le aziende informatiche stanno investendo sempre di più in questo settore e i progressi tecnologici, che sono sotto gli occhi di tutti, stanno rivoluzionando interi settori produttivi, l’economia e, in generale, moltissimi ambiti che riguardano la vita quotidiana.

È per questo motivo che nel libro di testo di scienze per la scuola secondaria di primo grado Orientamento Scienze, vengono brevemente descritte le più rilevanti applicazioni nei vari ambiti delle scienze dell’Intelligenza Artificiale, sottolineando sia le potenzialità sia i rischi legati al suo utilizzo. Questo approccio bilanciato è fondamentale per preparare le nuove generazioni a un futuro in cui la tecnologia sarà sempre più integrata nella vita quotidiana.

Ad esempio, un ambito in cui l’IA sta dimostrando il suo potenziale, con applicazioni anche nella didattica, è la conservazione della biodiversità. Strumenti come iNaturalist e altre applicazioni basate sull’intelligenza artificiale, facilitano l’identificazione di flora e fauna a partire da una semplice fotografia. Alcune app sono invece in grado di riconoscere gli uccelli dal loro canto, offrendo un supporto prezioso a ricercatori e appassionati della natura. Nel libro di testo Orientamento scienze vengono presentate diverse applicazioni per dispositivi mobili (smartphone e tablet) che, attraverso l’analisi di immagini, consentono il riconoscimento in tempo reale di animali, piante e funghi. Questi strumenti stanno rivoluzionando il modo in cui studiamo e proteggiamo la biodiversità, rendendo la scienza più accessibile a tutti (fig. 1).

Tuttavia, è fondamentale considerare anche i limiti di queste tecnologie. Un caso emblematico è rappresentato dall’impiego dell’AI per classificare i funghi: sebbene utile, questo strumento è rischioso se applicato al riconoscimento di specie velenose o commestibili. Un errore di classificazione, infatti, potrebbe avere conseguenze gravi, perfino letali (fig. 2). L’IA, infatti, non è infallibile e la sua efficacia è strettamente legata alla qualità dei dati su cui viene addestrata: se questi sono incompleti, distorti o non rappresentativi della realtà, anche i risultati prodotti dall’AI saranno inaffidabili.  

Nell’unità del libro dedicata all’energia e alle sue trasformazioni, si fa notare che i Large Language Model (LLM) utilizzati in molti sistemi di intelligenza artificiale sono altamente energivori e che il loro consumo energetico ha un impatto significativo sull’ambiente. Perciò si sta lavorando per rendere queste tecnologie più efficienti, riducendo la loro impronta ecologica senza comprometterne le prestazioni.  

Anche alcuni esercizi proposti nel testo sono strutturati suggerendo l’uso di applicativi di Intelligenza Artificiale. Un esempio è l’intervista immaginaria a un animale o a una pianta, realizzata con l’ausilio di un chatbot, un tipo di software progettato per simulare una conversazione con un essere umano. Inserendo il prompt “Immagina di essere un seme di ciliegio” e ponendo domande mirate, si può ottenere una risposta dettagliata e suggestiva (fig. 3). Il seme descrive le condizioni ideali per germogliare e le difficoltà che potrebbe incontrare, come il clima sfavorevole, i parassiti o le malattie.

Questo tipo di esercizio non solo rende l’apprendimento più coinvolgente, ma aiuta a sviluppare capacità di analisi e verifica delle informazioni. È fondamentale, infatti, sottolineare che le risposte fornite dall’AI potrebbero contenere inesattezze: per questo motivo, studenti e studentesse sono invitati a valutarne l’attendibilità, confrontandole con fonti affidabili e approfondendo la ricerca. 

In conclusione, l’intelligenza artificiale può essere una risorsa straordinaria per rendere la didattica più appassionante e personalizzata, grazie alla sua capacità di generare contenuti e di rispondere a domande in modo dinamico e vario, superando i limiti dei tradizionali motori di ricerca, che forniscono una singola risposta statica. I chatbot basati su AI permettono, infatti, conversazioni interattive che si sviluppano tenendo conto del contesto e di ciò che è stato detto in precedenza. Qui sotto un esempio di domande e risposte fornite da ChatGPT.

L’intervista a un seme di ciliegio

L’intelligenza artificiale è uno strumento potente, ma la sua forza risiede nella capacità di chi la usa. Spetta all’insegnante guidare studenti e studentesse verso un approccio critico e creativo, che consenta di sfruttarla al meglio, senza farsi travolgere e mantenendo sempre alta la guardia sull’attendibilità e sulla qualità dei contenuti generati.

Per approfondire