Uno strumento per … leggere, scrivere, codificare

Cosa è la TASTIERA SILLABICA?

Una tastiera che vuole assomigliare a quella di un computer, ma di fatto non lo è. E’ una scheda (formato A4) da stampare e plastificare per ogni bambino e bambina. Presenta lettere alfabetiche e sillabe da quelle semplici a quelle complesse. Può essere utilizzata per tutto il primo anno della scuola primaria, ma anche successivamente come strumento compensativo per BES, DSA, NAI.

La tastiera in pdf

A cosa serve?

A decodificare, a codificare, a leggere, a scrivere, … a giocare con lettere e sillabe. Esempi di attività tra i materiali allegati da scaricare.

Materiali in pdf

Perché usarla?

Per facilitare e agevolare la pratica della letto-scrittura. Il suo uso facilita il riconoscimento di lettere e sillabe, aiuta a scrivere e ad esercitarsi nei primi dettati e consente la scrittura corretta.

Come usarla?

Come fosse una vera e propria tastiera o macchina da scrivere (anche se non scrive). Con il dito indice dx o sx (a seconda della dominanza dei bambini/bambine) far indicare le lettere e le sillabe pronunciate dall’insegnante. Nella scheda allegata vengono fornite indicazioni ed esempi di lavoro.

Quando usarla?

Da subito.

 

Buon lavoro a tutti i bambini e a tutte le bambine con la tastiera sillabica di Magica Matilde.

 

 

 

 

 

 

 

Che Storia! | Italiani “brava gente”?

Lo stereotipo dell’italiano buono (e magari un po’ pasticcione)

Resiste ancora oggi un’idea molto stereotipata riguardo al comportamento dell’esercito italiano durante alcuni momenti cruciali del XX secolo. Secondo questa convinzione, condivisa anche da persone con orientamenti culturali, ideologici e politici molto diversi tra loro, l’Italia sarebbe stato un paese incapace di commettere in guerra crimini paragonabili a quelli perpetrati, ad esempio, dai nazisti tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale.

Questo luogo comune è spesso accompagnato da una visione critica – talvolta falsamente dissacrante e un po’ liquidatoria – sulle reali capacità militari italiane nei conflitti del Novecento, con un’eccezione parziale per la prima guerra mondiale (1915-1918), considerata l’unica vittoria effettiva della nazione. In sostanza, si tende ad associare le carenze nell’equipaggiamento, il limitato addestramento e la gestione tattico-strategica contraddittoria delle forze armate alla convinzione che questi elementi abbiano quasi automaticamente impedito agli italiani di compiere azioni disumane e criminali.

La narrazione ha spesso insistito sull’immagine di soldati un po’ maldestri, ma fondamentalmente “buoni” e incapaci di gesti realmente efferati. Questa visione è stata alimentata già dalla propaganda di guerra: basti pensare, ad esempio, al periodo della guerra di Libia, quando venivano diffuse canzoni leggere come Tripoli, bel suol d’amore, che contribuivano a diffondere il mito dell’italiano seduttore e grande amatore. Uno stereotipo ripreso anche durante la campagna d’Etiopia, con la celebre Faccetta nera, canzone divenuta simbolo del regime fascista, in cui si raccontava di una giovane abissina che attendeva con speranza l’arrivo dei soldati italiani, venuti ad amarla e a liberarla dalla barbarie.

Dopo la guerra, anche il cinema, la letteratura e persino i manuali scolastici hanno spesso evitato di affrontare i temi più controversi legati al comportamento dei soldati italiani sui vari fronti del Novecento. Quando questi argomenti sono stati trattati, lo si è fatto con un tono ironico o caricaturale, contribuendo a rafforzare lo stereotipo degli “italiani brava gente”.

Il colonialismo italiano in Africa e la guerra “parallela” di Mussolini hanno avuto caratteri criminali

Durante il periodo del colonialismo l’esercito italiano si è macchiato di vari crimini la cui natura e il cui dettaglio sono stati scarsamente sottolineati e, soprattutto, sono quasi del tutto assenti dalla memoria collettiva.

L’impresa di Eritrea nel 1885 e il tentativo fallito in Etiopia tra il 1895-96, sono spesso ricordati più che altro per l’esito tragico di Adua o per alcune battaglie come quella di Alba Alagi, mentre sono poco note le violenze commesse dai militari italiani inviati da Crispi nel corno d’Africa.

La conquista della Libia (1912) si distinse fin dall’inizio per un uso sproporzionato della forza da parte dell’esercito italiano. Tuttavia, fu soprattutto nei primi anni Trenta, durante il periodo fascista, che Mussolini ordinò l’eliminazione fisica delle tribù Senussi ostili al dominio coloniale italiano e, più in generale, di tutti i ribelli della Cirenaica.

I massacri furono pianificati dal generale Rodolfo Graziani (1882-1955) e dal governatore della Libia Pietro Badoglio (1871-1956). Tra il 1929 e il 1933 vennero istituiti campi di concentramento in Cirenaica, dove furono internate oltre 100.000 persone. Le popolazioni deportate furono costrette a subire condizioni disumane, trovando la morte a causa della fame o dei lavori forzati.

In Etiopia, nel 1936, l’Italia non si limitò ad attaccare senza ragione alcuna un paese riconosciuto dalla comunità internazionale membro della Società delle Nazioni. La campagna di conquista fu condotta con metodi criminali, ad esempio usando i gas velenosi e non esitando a sterminare interi villaggi. In seguito a un attentato subito dal vicerè Graziani (lo stesso che si era sporcato le mani di sangue in Libia) Addis Abeba fu messa a ferro e fuoco e si arrivò a distruggere alcuni antichi monasteri cristiani etiopi e ad assassinare i suoi monaci

Poco nota è la vicenda dell’occupazione italiana della Grecia, durante la seconda guerra mondiale, nell’ambito della cosiddetta “guerra parallela” che Mussolini volle portare avanti per non sfigurare agli occhi dell’alleato Hitler. In essa si consumarono vicende gravissime e quasi sconosciute alla maggior parte degli italiani, persino quelli più informati. È il caso dell’eccidio del villaggio di Domenikòn (1943), oppure della scelta deliberata di affamare la popolazione di Atene nel 1943/44, o degli stupri sistematici contro le donne nella provincia di Salonicco nello stesso periodo. 

Non meno criminale fu l’azione italiana in Jugoslavia, sotto la direzione di generali come Alessandro Pirzio Biroli (1877-1962) e Mario Roatta (1887-1968), che introdussero nella loro lotta contro la resistenza antifascista e antinazista, metodi come le decimazioni, le fucilazioni sommarie e gli internamenti in campi di concentramento.

Secondo lo storico Filippo Focardi (1965- ) l’esercito italiano, negli anni del fascismo, procurò la morte a 500 000 etiopi, 250 000 jugoslavi, 100 000 greci e 100 000 libici.

“Ma l’italiano non ama la guerra…”

Il generale italiano Giacomo Zanussi (1894-1966) impegnato sul fronte balcanico – il quale (dettaglio importante) dopo l’8 settembre si schierò contro i tedeschi e il regime fascista – combattendo per il governo di Badoglio e Vittorio Emanuele III, si espresse così sulla natura dei soldati italiani in quella campagna.

“Nessuno indurrà mai il nostro contadino, il nostro artigiano è il nostro operaio a cambiare costume mentalità, ad abbassarsi o, peggio, a dilettarsi al delitto, a spogliarsi di quel naturale senso di benevolenza che è indice di una civiltà millenaria e che è insito in lui com’è insito nell’animo del balcanico, non per colpa sua ma per colpa dei secoli dolorosi che gravano sulle sue spalle, l’impulso all’odio, alla vendetta, al cedimento totale e brutale di tutto se stesso alla Furia indomabile dell’istinto. […]

L’italiano fa e, talvolta fa bene, ma non ama la guerra, e meno che meno la strage. Come che sia, la guerra egli si acconcia a farla contro il nemico che gli sta in armi dinanzi: non, tranne rarissime eccezioni e per brevissimi episodi […], contro le vite o gli averi della popolazione civile”.

Si trattava di opinioni, purtroppo, ben lontane dalla verità.

Perché non si è stati capaci di fare i conti con la propria storia?

Per molti anni quanto finora detto è stato espulso dalla memoria collettiva ed è caduto in un lungo oblio. Un effetto collaterale di questa vicenda è stata la scelta, che non può essere considerata causale, di non perseguire con la dovuta coerenza gli autori degli eccidi tedeschi contro gli italiani, specialmente durante l’occupazione nazista tra il 1943 e il 1945. Celebre è il caso del cosiddetto “armadio della vergogna”, un insieme di documenti cruciali per l’istruzione di processi contro i responsabili di stragi gravissime compiute in Italia dall’esercito tedesco e dalle SS (con la complicità, quasi sempre, dei fascisti della repubblica di Salò). La documentazione fu “dimenticata” per decenni in un armadio con le ante rivolte contro il muro, in uno sgabuzzino della sede della procura generale del Tribunale supremo militare. Solo nel 1994, per puro caso, il giudice militare Antonino Intelisano (1943- ) scoprì questi documenti a lungo celati sia alla magistratura competente sia all’opinione pubblica nazionale. 

Alla luce di tutto questo possiamo quindi pensare che le ragioni di queste “amnesie” siano dovute a diverse ragioni che possono essere così riassunte.

  • La volontà di “mettere una pietra sopra” un passato doloroso, in un momento in cui si profilavano nuove tensioni geopolitiche a livello internazionale (la guerra fredda) e l’Italia e la Repubblica federale tedesca dovevano essere alleate.
  • Evitare che i processi contro i “cattivi tedeschi” facessero emergere la realtà scomoda dei crimini compiuti dai “bravi soldati italiani” contro la popolazione civile in Africa e nei Balcani.

Queste scelte ebbero quindi delle conseguenze sul modo con cui è stata letta la storia nazionale dell’intero Novecento.

Le ricostruzioni storiche sulla vicenda coloniale italiana è stata tardiva e spesso mal sopportata, come se si trattasse di una pagina poco importante, da dimenticare in fretta. O peggio da ridurre a un meritoria opera di civilizzazione. Di conseguenza non esiste una public history equilibrata su questo argomento.

In particolare l’oblio sugli eccidi italiani durante l’invasione della Grecia è stato quasi totale. La strage di Domenikòn, sopra citata, è rimasta sconosciuta fino al 2008 quando la vicenda è stata ricostruita in un documentario americano andato in onda su History Channel. 

Le vicende stesse legate al dramma del confine italo/jugoslavo e della popolazione dalmata-giuliana, sono state coinvolte in questa “rimozione”: prima con il lungo oblio sulle vicende delle foibe, poi con l’affermazione di una narrazione unilaterale sulla tragedia. Infatti, accanto al meritorio ricordo dei morti infoibati si è associato il totale oblio sui crimini italo-tedeschi contro le popolazione slave.

PER APPROFONDIRE

Potete approfondire in classe con questo Laboratorio tratto da Visione torica di S.Manca, G.Manzella e S. Variara, La Nuova Italia (2025).
Scarica il laboratorio

L’utilizzo dell’AI nell’ambito dell’imaging medico e della diagnostica oncologica

Immagina di andare in ospedale per un mal di testa persistente e di sottoporti ad una risonanza magnetica. Dopo l’esame, ti consegnano un referto insieme ad un dischetto contenente la tua risonanza. Il medico esamina l’immagine ricostruita digitalmente per interpretare i dati. Ma quello che vediamo a occhio nudo è solo la punta dell’iceberg: in realtà dietro l’immagine si nasconde una matrice di numeri con molte più informazioni di quelle immediatamente visibili.

E qui entra in gioco l’intelligenza artificiale! Questi modelli avanzati riescono a interagire direttamente con i dati grezzi delle immagini, scoprendo dettagli che sfuggono all’occhio umano.

Ma cosa può fare esattamente l’AI nell’imaging medico?

L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando l’imaging medico con diversi contributi, vediamo quelli di maggiore sviluppo: 

  • Ricostruzione delle immagini: grazie ai modelli AI, è possibile ridurre i tempi di acquisizione delle immagini, accelerando gli esami e diminuendo l’esposizione alle radiazioni, quando presenti.
  • Identificazione automatica delle lesioni: i Computer Aided Detection Systems (CAD) evidenziano aree dell’immagine dove potrebbe essere presente una patologia. Immagina un assistente digitale che ti dice: “Ehi, guarda qui! Potrebbe esserci qualcosa da controllare.” I sistemi AI evidenziano aree sospette che il radiologo poi verifica, rendendo il suo lavoro più efficace e più veloce, permettendo così di poter analizzare molti più pazienti al giorno. 
  • Analisi quantitativa delle immagini: qui l’AI diventa davvero affascinante! L’occhio umano non può distinguere dettagli a livello di singolo pixel, ma un algoritmo AI sì. Questo permette di identificare marcatori invisibili (imaging biomarkers) utili per la diagnosi, di monitorare il/la paziente e di personalizzare le terapie. La complessità dello sviluppo di questi sistemi deriva dal fatto che un modello AI, per riuscire a notare differenze minuscole tra pixels vicini, deve essere allenato su un numero altissimo di immagini. Queste immagini devono essere sia di pazienti malati che sani, e devono essere acquisite in modo simile tra di loro. Avere a disposizione dataset così grandi non è un gioco da ragazzi, servono tanti centri che collaborano tra di loro, fondi sostanziosi, e step burocratici tutt’altro che divertenti. 

Radiomica: lasciamo parlare i numeri. 

Un campo emergente è la radiomica, che consente di estrarre informazioni quantitative dalle immagini mediche e integrarle con dati clinici, genomici e biologici. Grazie alla radiomica siamo in grado di estrarre informazioni precise dai voxels (un voxel è un pixel in tre dimensioni). Questi parametri (chiamati features) vengono prima identificati nelle immagini e poi elaborati tramite modelli statistici o reti neurali per fare previsioni utili nella diagnosi e nella cura del paziente. È come mettere insieme i pezzi di un puzzle complesso per prevedere come evolverà una malattia o quale terapia funzionerà meglio per un paziente.

Vediamo qualche esempio di progetti innovativi degli ultimi anni.

Esistono già prodotti commerciali basati su reti neurali per diagnosticare tumori o aiutare nella loro eradicazione, ma alcuni progetti di ricerca sono particolarmente promettenti. Ecco qualche esempio:

  • Prevenzione del tumore al seno: ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT, USA) hanno sviluppato un modello di deep learning capace di analizzare mammografie e predire il rischio di sviluppare un tumore nei successivi 5 anni. Questo strumento ha già analizzato circa 2 milioni di mammografie, suggerendo quando una paziente dovrebbe tornare per il prossimo controllo.
  • Analisi istologica avanzata: un altro gruppo ha creato un modello per analizzare campioni istologici di carcinomi mammari. Il sistema fornisce un punteggio numerico che colloca le pazienti su una scala di rischio ed è risultato molto accurato nel prevedere la sopravvivenza specifica per questo tipo di carcinoma. 

I tumori alla mammella sono le neoplasie più diagnosticate tra le donne, rappresentano circa il 40% dei tumori registrati nelle donne di età inferiore a 50 anni.  Se consideriamo che in Italia vengono diagnosticati circa 50.000 nuovi casi annui di carcinomi mammari possiamo capire quanto lavori di questo tipo possono avere un impatto enorme sulla cura e sulla sopravvivenza delle pazienti! 

L’AI farà sempre più parte dei nostri ospedali, ma c’è ancora molta strada da fare. 

In un mondo in cui la popolazione anziana cresce e le diagnosi di cancro aumentano, intervenire tempestivamente è cruciale per migliorare la sopravvivenza. L’imaging medico è uno strumento potente, non solo per identificare la malattia, ma anche per seguirne l’evoluzione e guidare le terapie. L’intelligenza artificiale è destinata a giocare un ruolo sempre più centrale, aiutandoci a vedere oltre ciò che appare e prendere decisioni cliniche più consapevoli.

Per permettere a questi sistemi di essere sempre più parte integrante della clinica e di essere presenti non solo nei famosi centri di ricerca, ma negli ospedali di tutto il mondo, c’è ancora tanta strada da fare. Servono in particolare fondi da dedicare alla Ricerca e Sviluppo e team interdisciplinari di specialisti e specialiste del settore.

Rubrica a cura di Generazione Stem

Biografia autrice 

Virginia Piva, Fisica specializzanda in Fisica Medica. Si occupa di fisica delle particelle applicata al campo medico, con un focus particolare sull’oncologia. Appassionata di innovazioni tecnologiche nel settore sanitario, collabora con Generazione STEM per far conoscere questo mondo e condividere l’importanza di queste tematiche attraverso la divulgazione.

La miniera di Ytterby: il luogo più chimico del mondo

Immaginate di trovarvi su una piccola isola rocciosa della Svezia, circondata da fitte foreste di conifere e affacciata sulle acque placide dell’arcipelago di Stoccolma. Qui, tra sentieri silenziosi e case di legno, sorge il villaggio di Ytterby, un luogo che a prima vista sembrerebbe del tutto insignificante, se non fosse per una delle miniere più straordinarie della storia della chimica.

Oggi, le sue gallerie abbandonate sono poco più di un ricordo, un’anonimo ingresso per il sottosuolo come ce ne sono tanti, ma nel passato questa miniera ha rivelato più elementi chimici di qualsiasi altro luogo al mondo. Eppure, in questo piccolo angolo di Svezia, tra il rumore dei picconi che scavavano la pietra e il freddo vento del Nord, è andata in scena una delle più straordinarie cacce agli elementi mai avvenute.

Per lungo tempo, Ytterby è stato un vero e proprio “luogo di culto” per i chimici, un nome che attirava studiosi da tutto il mondo. 

La vicenda iniziò nel 1787, quando Carl Axel Arrhenius, tenente dell’artiglieria svedese e appassionato di chimica, trovò un minerale nero sconosciuto in una cava locale. Arrhenius (che non va confuso con Svante Arrhenius, premio Nobel per la chimica) , convinto che la roccia contenesse tungsteno – un elemento appena scoperto – decise di inviarla al suo amico Johan Gadolin, un chimico di talento. L’analisi di Gadolin rivelò che il 38% del minerale era composto da un elemento mai identificato prima. Fu scoperto così l’ittrio, il primo di una lunga serie di elementi legati al nome della miniera di Ytterby.

Un nome, quattro elementi

Il minerale nero trovato da Arrhenius si rivelò un vero enigma per gli scienziati dell’epoca. Una volta inviato a Johan Gadolin, fu identificata una nuova sostanza mai vista prima. Per onorare il lavoro del chimico finlandese, il mineralogista Martin Heinrich Klaproth battezzò il minerale con il nome di gadolinite. Questo minerale, apparentemente senza valore per i minatori che lo scartavano come inutile, si rivelò una vera miniera di elementi chimici straordinari, dando il via a una serie di scoperte scientifiche senza precedenti.

Tra il 1794 e il 1878, in campioni di gadolinite e altri minerali estratti dalla cava di Ytterby, furono identificati diversi elementi chimici, oggi conosciuti come terre rare. In quel periodo, i chimici europei erano impegnati in una vera e propria corsa alla scoperta degli elementi, e la miniera di Ytterby divenne un punto di riferimento cruciale. Da queste rocce furono isolati erbio, terbio e itterbio, tutti derivati da analisi meticolose di minerali apparentemente indistinguibili tra loro.

Ma la storia non finì qui. Negli anni successivi, altri ricercatori continuarono a studiare i campioni di Ytterby, identificando lo scandio, l’olmio, il tullio e il gadolinio. Ogni elemento portava con sé proprietà uniche e contribuiva a espandere la nostra comprensione del mondo microscopico. Per esempio, lo scandio, isolato nel 1879 dal chimico svedese Lars Fredrik Nilson, dimostrò un comportamento chimico che colmava una lacuna importante nella tavola periodica proposta da Mendeleev.

Ciò che rende queste scoperte ancora più straordinarie è il fatto che i minerali di Ytterby fossero considerati di poco interesse commerciale dai minatori dell’epoca. Per loro, la priorità era estrarre quarzo e feldspato, materiali richiesti per la produzione di ceramica e vetro. Tuttavia, per i chimici, queste rocce contenevano tesori nascosti che richiedevano metodi di analisi sempre più sofisticati per essere portati alla luce.

 

Un problema di nomi

Oltre alla ricchezza scientifica, la miniera di Ytterby ha lasciato in eredità alla chimica un problema curioso: la confusione dei nomi. Tutto ebbe inizio quando Friedrich Wöhler riuscì a isolare l’ossido di ittrio, confermando il nome dato da Gadolin. Ma la vera confusione iniziò nel 1843, quando il chimico svedese Carl Mosander, analizzando campioni della cava, identificò due nuovi elementi. Invece di scegliere nomi legati a miti, pianeti o figure storiche, decise di rendere omaggio a Ytterby. Nacquero così il terbio e l’erbio.

Qualche decennio più tardi, il chimico francese Jean Charles Galissard de Marignac isolò un ulteriore elemento dai minerali della miniera e scelse di chiamarlo itterbio. In totale, ben quattro elementi della tavola periodica devono il loro nome a questo piccolo villaggio svedese, il cui nome, tradotto, significa semplicemente “villaggio esterno”.

Questa scelta stilistica creò già all’epoca un’enorme confusione tra gli scienziati. La somiglianza tra i nomi – ittrio, itterbio, erbio e terbio – portò a una serie infinita di errori e scambi. Per anni, campioni di un elemento vennero scambiati per un altro, e perfino chimici esperti faticavano a distinguere le loro proprietà con certezza. Una sorta di rompicapo linguistico che ancora oggi può confondere chi si avvicina alla chimica delle terre rare.

Il lascito di Ytterby

La miniera di Ytterby non è solo un luogo di scoperte passate: le terre rare che vi furono individuate sono oggi più importanti che mai. Questi elementi sono alla base della tecnologia moderna, utilizzati in tutto, dai magneti superconduttori agli smartphone, dalle turbine eoliche alle batterie per veicoli elettrici. 

Oggi, gli elementi scoperti a Ytterby e in altre miniere di terre rare sono diventati fondamentali per la tecnologia moderna. L’ittrio è impiegato nei laser e nei fosfòri delle luci a LED e degli schermi LCD. L’erbio trova applicazione nelle fibre ottiche, mentre il terbio e l’itterbio vengono utilizzati nei magneti ad alte prestazioni, fondamentali per le auto elettriche, le turbine eoliche e i dischi rigidi. Senza le terre rare, molte delle tecnologie che usiamo quotidianamente, dagli smartphone ai satelliti, non esisterebbero. La loro crescente domanda ha portato a una vera e propria “corsa alle terre rare”, con implicazioni geopolitiche e ambientali significative. Il piccolo villaggio di Ytterby, un tempo sconosciuto, ha lasciato un’eredità che oggi è al centro dell’innovazione globale.

Oggi, la miniera di Ytterby non è più in attività, ma è diventata un simbolo della chimica. Un luogo apparentemente insignificante, in un piccolo villaggio svedese, si è rivelato una chiave di volta per la scienza, cambiando la nostra comprensione degli elementi e il nostro modo di vivere. Un minerale scuro e insignificante, scartato dai minatori perché privo di valore commerciale, si è trasformato in un tesoro di conoscenza, rivelando i segreti nascosti della materia. La chimica, dopotutto, è proprio questo: l’arte di svelare l’invisibile, di trasformare il banale in straordinario. 

Materia, energia e trasformazioni

Gli elementi scoperti nella miniera di Ytterby e tutti quelli che sono seguiti, dopo aver scoperto che la caccia agli elementi era tutt’altro che finita, risultano fondamentali quindi in molte innovazioni tecnologiche. Scoprite di più sul libro “Materia, energia e trasformazioni”, un corso di Chimica per licei scientifici che coniuga rigore scientifico e innovazione didattica.

 

 

 

 

 

Hai mai sentito parlare di Ingegneria Agraria?

Il settore agrario viene comunemente associato agli agricoltori che hanno un ruolo fondamentale nel soddisfare il fabbisogno calorico della popolazione, ovvero l’energia che introduciamo attraverso il cibo. Tuttavia non sono gli unici. Infatti, dietro le quinte di un buon prodotto alimentare ci sono molteplici figure professionali, tra cui l’ingegnere agrario o l’ingegnera agraria

Di cosa si occupa un/un’ ingegnere/a agrario/a? 

L’agricoltura deve affrontare la sfida del cambiamento climatico e, contemporaneamente, continuare a soddisfare il fabbisogno alimentare di una popolazione sempre più numerosa. Per queste ragioni, possiamo considerare l’agricoltura un settore di enorme complessità.

Chi ha una formazione in ingegneria agraria può ricoprire diversi ruoli. L’Associazione Italiana di Ingegneria Agraria (AIIA) identifica ben 7 sezioni di specializzazione. 

  • Utilizzazione del suolo e delle acque: promuove il progresso nelle attività di monitoraggio e gestione dei sistemi agro-forestali. Include la gestione della risorsa idrica, la bonifica, la difesa del suolo ed anche le azioni per contrastare l’inquinamento agricolo. 
  • Costruzioni rurali, impianti e territorio: questo lavoro spazia dalla progettazione di strutture e infrastrutture per il territorio rurale alla valorizzazione del paesaggio rurale. Le tematiche principali sono l’efficienza energetica, la sicurezza ed il recupero degli edifici storici. 
  • Meccanizzazione e tecnologie per le produzioni agricole: questa sezione è incentrata sulla progettazione di nuove macchine e sull’ottimizzazione delle prestazioni. I meccanici sono concentrati sulla riduzione dell’impatto ambientale, economico e sociale, migliorando la performance delle macchine. 
  • Elettrificazione agricola ed utilizzazione dell’energia: è un ambito molto interessante che modifica il ruolo dell’agricoltura da semplice utente a produttore di energia da fonti agro-forestali-industriali. 
  • Ergonomia ed organizzazione del lavoro: anche in ambito agrario è fondamentale migliorare le condizioni di lavoro e la sicurezza degli operatori. Per farlo, è opportuno ottimizzare la gestione aziendale e la logistica dei settori coinvolti. 
  • Macchine e impianti per la trasformazione delle produzioni agricole: la filiera agricola non si ferma in campo ma prosegue anche nell’industria agroalimentare. Questa sezione ha come obiettivo quello di ottimizzare macchine e impianti, nonché tutto il processo di trasformazione e conservazione dei prodotti. 
  • Tecnologie informatiche e delle comunicazioni: è l’ambito che utilizza l’informatica per migliorare la qualità e la sostenibilità del settore. Si focalizza su tecnologie come sensoristica avanzata, automazione, robotica, intelligenza artificiale, sistemi di supporto alle decisioni, e agricoltura di precisione.

Come si diventa ingegnere/a agrario/a? 

Si tratta di una figura professionale ibrida che raggruppa sia le competenze dell’agronomo sia quelle dell’ingegnere. Per questo motivo sono considerati ingegneri agrari sia gli agronomi specializzati in materia sia i laureati in ingegneria civile ed ambientale.  

È fondamentale scegliere un percorso di studi che sia formativo nel settore agro-forestale ed ambientale con un approccio ingegneristico. Ad esempio, io ho studiato Scienze e Tecnologie Agrarie in triennale, iniziando a specializzarmi in meccanica agraria attraverso la tesi. Poi, per ottenere una vera e propria specializzazione in ingegneria agraria esistono dei corsi di laurea magistrale “ibridi” che combinano ingegneria e agraria. 

Ma l’intelligenza artificiale è utile per l’agricoltura? 

L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il settore agricolo, migliorando l’efficienza, la sostenibilità e la produttività. Gli algoritmi di machine learning sono impiegati per analizzare enormi quantità di dati provenienti da sensori, droni e satelliti. L’analisi dei dati è fondamentale per ottenere previsioni accurate sulle condizioni climatiche e sullo stato di salute delle colture. Inoltre, l’automazione basata sull’intelligenza artificiale permette di realizzare macchine agricole autonome e capaci di eseguire le operazioni in modo preciso. Ad esempio, è possibile ridurre la quantità di agrofarmaci, utilizzando dei sensori che rilevano in tempo reale la presenza di malattie. Questo contribuisce anche a ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura e migliorare la sostenibilità della filiera.

Rubrica a cura di Generazione Stem

Biografia autrice 

Luana Centorame è laureata magistrale in scienze agrarie presso l’Università Politecnica delle Marche e ha conseguito il master in agricoltura di precisione all’Università di Teramo in collaborazione con numerose università, istituti di ricerca e aziende.

Attualmente è dottoranda in scienze agrarie presso il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’UNIVPM. Il topic del dottorato è la meccanica agraria con un particolare indirizzamento all’agricoltura di precisione. Nel 2024 è stata ospite della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) per lo sviluppo di algoritmi di intelligenza artificiale applicati all’agricoltura.

Malcolm X: A revolutionary voice in the Civil Rights Movement

February 21st, marks the 60th anniversary of the assassination of one of the most influential figures in the fight for civil rights: Malcolm X. Malcolm Little was born in 1925 and his story became one of the defining narratives of the civil rights movement. His transformation into a controversial figure began during his time in prison, where he adopted the name “Malcolm X” to signify his lost African heritage.  Malcolm X’s message was revolutionary, challenging the non-violent civil rights approach led by Martin Luther King. He was outspoken in advocating for Black self-defense and empowerment, famously asserting, “by any means necessary.”

Malcolm X’s assassination in 1965 marked a turning point in the civil rights movement. His strong belief in Black self-determination inspired generations to challenge racism. For example the rise of the Black Power movement in the early 1970s was inspired by this idea. Leaders like Stokely Carmichael, who made the phrase “Black Power” popular,  was also inspired by Malcolm’s call for radical change. 

February is therefore the perfect month to speak about the Civil Rights Movement in class.

CLASSROOM ACTIVITIES AROUND THE CIVIL RIGHTS MOVEMENT

THE CIVIL RIGHTS MOVEMENT THROUGH MOVIES

Film is a part of popular culture and is relevant to students’ everyday lives. Most students spend over 7 hours a day using media (over 50 hours a week). With the popularity and availability of film, it is natural to engage students with such a relevant medium. The purpose of this section is to provide teachers with a rationale and model for teaching civil rights movement with film.

STAGE 1: PREPARATION

This stage involves creating lesson plans that incorporate film, while meeting instructional goals and objectives. Since this article is about the Civil rights movement, here there are some lessons teachers can use in stage 1 in class.

https://ed.icivics.org/curriculum/pushing-towards-civil-rights

https://www.learningforjustice.org/sites/default/files/kits/A_Time_for_Justice_Teachers_Guide.pdf

https://hti.osu.edu/opper/lesson-plans/the-civil-rights-movement

STAGE 2: PRE-VIEWING

Present the movie and pre-teach some important words students will find.

STAGE 3: WATCHING THE FILM

When students are watching the film (in its entirety or selected clips), ensure that they are aware of what they should be paying particular attention to. Pause the film to pose a question, provide background, or make a connection with an earlier lesson. Interrupting a showing (at least once) subtly reminds students that the purpose of this classroom activity is not entertainment, but critical thinking.

 

THE HELP

THE BUTLER

THE GREEN BOOK

THE FREEDOM RIDERS

HIDDEN FIGURES

STAGE 4: POST-VIEWING ACTIVITY

As a post viewing activity teachers could use a choiceboard (check the webinar to find out more about choice boards.

Some activities that could be included in the choice board are:

  • Write a film review
  • Record a FilmTok
  • Create a poster with a visual summary of the film
  • Choose a piece of music that best communicates your feelings while watching the movie. Write a paragraph to explain your choice.

THE CIVIL RIGHTS MOVEMENTS THROUGH BOOKS

Novels can be incredibly useful in explaining history, as they offer a unique way of engaging with historical events and periods. Here teachers will find a list of various titles and various genres that bring human experience to the forefront, allowing students to connect emotionally and personally with the period and its protagonists.

MARCH – GRAPHIC NOVEL, John Lewis

LEVEL: B1

TEACHER’S GUIDE AND CLASS ACTIVITIES: https://popcultureclassroom.org/wp-content/uploads/2018/01/MARCH_GUIDE.pdf?srsltid=AfmBOopdyBUR2zCvYwEbF22_3f9FXJHtZ7ulWqVHNO_skrkaWlNx6KcD

 

THE HELP, Kathryn Stockett
LEVEL: C1
TEACHER’S GUIDE AND CLASS ACTIVITIES: https://images.penguinrandomhouse.com/promo_image/9780425232200_5163.pdf

 

THE SECRET LIFE OF BEES, Sue Monk Kidd
LEVEL: B2/C1TEACHER’S GUIDE AND CLASS ACTIVITIES: https://suemonkkidd.com/wp-content/uploads/2018/08/SMK-SecretLifeofBees-TG.pdf

 

THE REBELLIOUS LIFE OF MRS. ROSA BARS, Jeanne Theoharis
LEVEL: B1
CLASS ACTIVITIES: https://www.zinnedproject.org/news/the-rebellious-life-of-mrs-rosa-parks-teaching-guide/

 

TURNING 15 ON THE ROAD TO FREEDOM, Lynda B. Lowery

LEVEL: B1/B2

CLASS ACTIVITIES: https://www.njpac.org/wp-content/uploads/2019/09/TRG_Turning-15-_spreads_FINAL.pdf

THE CIVIL RIGHTS MOVEMENT IN THE NEW LIT HUB

The new edition of LIT HUB includes various activities on the topic. Don’t miss the opportunity to get you free copy.

 

1 Kaiser Family Foundation, Generation M: Media in the Lives of 8-18 Years Old (National Public Study, 2005), https://www.kff.org/entmedia/entmedia030905pkg.cfm

2 William Benedict Russell III, The Reel History of the World: Teaching World History with Major Motion Pictures, https://www.socialstudies.org/system/files/publications/articles/se_760122.pdf 

Busta paga 2025: tutte le novità introdotte dalla legge di bilancio

Dall’indice di massa corporea all’impedenziometria segmentale

L’insegnamento di Scienza e cultura dell’alimentazione negli Istituti alberghieri richiede un approccio didattico in continua evoluzione, soprattutto per quanto riguarda la valutazione della composizione corporea, tematica trattata sia in riferimento alla dietologia generale, sia in riferimento alla dietoterapia da mettere in atto in caso di obesità, condizione complessa che va oltre il semplice aumento di peso e richiede una valutazione accurata dell’adiposità.

Tradizionalmente, da un punto di vista didattico, l’Indice di Massa Corporea (IMC) è stato un punto di riferimento. Oggi, tuttavia, è fondamentale trasferire agli studenti informazioni aggiornate e corrette in merito alla reale sequenza di valutazioni messe in atto quotidianamente da medici e biologi nutrizionisti circa la composizione corporea di un soggetto gravemente in sovrappeso o obeso. Il calcolo dell’IMC, infatti, viene integrato con altre metodologie più precise, come l’impedenziometria segmentale.

L’Indice di Massa Corporea (IMC): un’analisi critica e il suo ruolo

L’IMC, calcolato come il rapporto tra peso (kg) e il quadrato dell’altezza (m²), è stato adottato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dal NIH (agenzia governativa statunitense “National Institutes of Health”) come strumento per classificare l’obesità. La sua semplicità di calcolo, il basso costo e la correlazione con l’adiposità a livello di popolazione lo rendono utile per lo screening iniziale e la ricerca epidemiologica. Esiste infatti una chiara relazione tra un IMC elevato e il rischio di sviluppare patologie come diabete di tipo 2, aterosclerosi e alcune forme di cancro.

Tuttavia, l’IMC presenta importanti limiti:

  • non distingue tra massa grassa e massa magra, un individuo muscoloso può avere un IMC elevato pur non avendo eccesso di grasso;
  • non considera la distribuzione del grasso corporeo, il grasso addominale, ad esempio, è associato a un rischio maggiore per la salute rispetto al grasso sottocutaneo;
  • può essere impreciso a livello individuale, in quanto sovrastima l’adiposità negli atleti e la sottostima negli anziani con perdita di massa muscolare.

Oltre l’IMC: una valutazione più completa

Per superare i limiti dell’IMC è necessario integrarlo con altre misure, tra cui:

  • rapporto vita-altezza (WHtR), che fornisce una stima della distribuzione del grasso corporeo e del rischio metabolico;
  • impedenziometria bioelettrica (BIA), che analizza la composizione corporea stimando la quantità di massa grassa, massa magra e acqua corporea. In particolare, l’impedenziometria segmentale fornisce informazioni dettagliate sulla distribuzione della massa corporea nei diversi segmenti del corpo (braccia, gambe, tronco).

Questo approccio integrato permette di:

  • personalizzare il trattamento, con interventi mirati in base alle specifiche esigenze del soggetto;
  • identificare casi nascosti, individuando soggetti con un IMC relativamente basso ma con eccesso di grasso corporeo, o viceversa, soggetti con IMC elevato ma senza complicanze metaboliche.

La diagnosi di obesità viene affinata poi con una valutazione clinica completa, per identificare eventuali complicanze legate al peso, come ipertensione o diabete.

L’impedenziometria segmentale (BIA): un valore aggiunto nella didattica

L’introduzione in Scienza e cultura dell’alimentazione dello studio dei fondamenti della BIA si presta a numerose attività didattiche:

  • incontri con esperti: coinvolgimento di biologi nutrizionisti o medici per approfondire la tematica e presentare casi clinici reali;
  • esercitazioni pratiche: misurazione dell’impedenza su volontari, interpretazione dei risultati, confronto con l’IMC e discussione in classe;
  • analisi di casi studio: valutazione di individui con diverse caratteristiche e discussione delle implicazioni per la salute, considerando sia l’IMC sia la composizione corporea.

Altrettanto numerosi sono i vantaggi didattici:

  • approccio pratico: gli studenti possono effettuare misurazioni dirette, comprendendo il funzionamento della tecnica e interpretando i risultati;
  • consapevolezza: la visualizzazione della propria composizione corporea sensibilizza sull’importanza di un’alimentazione equilibrata e di uno stile di vita attivo;
  • connessione con la realtà professionale: i futuri professionisti potranno utilizzare queste conoscenze per offrire un servizio personalizzato, ad esempio nella ristorazione e nel settore del benessere;
  • aggiornamento scientifico: l’utilizzo di tecniche moderne come la BIA allinea i contenuti del corso alle più recenti evidenze scientifiche.

Conclusioni

L’IMC rimane uno strumento utile per lo screening iniziale, ma deve essere interpretato con cautela. Per una diagnosi accurata e una didattica efficace, è essenziale integrare l’IMC con altre misure, come, appunto, l’impedenziometria segmentale, tecnica in grado di offre informazioni più complete e utili per una comprensione approfondita della composizione corporea e delle sue implicazioni per la salute. Questo è particolarmente rilevante nell’ambito dell’educazione alimentare, dove è importante promuovere uno stile di vita sano che tenga conto non solo del peso, ma anche della qualità della composizione corporea.

L’integrazione di concetti come l’IMC e, soprattutto, l’impedenziometria segmentale nella didattica di Scienza e cultura dell’alimentazione rappresenta un’opportunità per fornire agli studenti una formazione più completa e attuale, in linea con le esigenze del mondo del lavoro e con le più recenti acquisizioni scientifiche. I nuovi LARN 2024 a partire dai quali sono stati aggiornati i nuovi volumi del triennio conclusivo del corso Scienza e cultura dell’alimentazione ad esempio, fanno riferimento alla necessità di valutare con precisione il metabolismo basale di un soggetto. Operazione, questa, resa possibile dall’uso delle bilance impedenziometriche usate a livello ambulatoriale dai Nutrizionisti. Questo approccio permette di passare da una visione statica e limitata della valutazione del peso corporeo a una prospettiva dinamica e multidimensionale, centrata sulla composizione corporea e sul benessere della persona. In questo modo, si contribuisce a formare professionisti dell’ospitalità non solo competenti in ambito culinario, ma anche consapevoli dell’importanza di un’alimentazione sana e in grado di promuoverla attivamente.

L’autore

Luca La Fauci è autore, per Rizzoli Education, di testi scolastici dedicati alle discipline Scienza e Cultura dell’Alimentazione e Scienza degli Alimenti.