Libri di testo e didattica innovativa

Esistono tante realtà scolastiche valide e innovative che non prevedono l’utilizzo del classico libro di testo: le scuole montessoriane e quelle del movimento Senza Zaino, per citarne solo alcune. Inoltre sappiamo bene che la matematica per essere compresa, appresa e amata ha bisogno di essere esperita, manipolata, praticata. Eppure il libro di testo resta un caposaldo nella scuola italiana e tanti insegnanti innovativi e appassionati dedicano ore e ore alla ricerca del libro di testo “perfetto”.

Ma quindi…libro di testo: sì o no?

La mia risposta è no se l’intenzione è quella di utilizzarlo in modo tradizionale o “passivo”: se il libro di testo diventa l’unico strumento didattico nelle mani del docente e se viene chiesto a bambini e bambine di aprirlo, leggerlo, risolvere gli esercizi, correggere gli errori individuati dall’insegnante e infine chiuderlo al termine della lezione. Questa è un’ottima prassi per non ricordare nulla di quanto fatto in classe e soprattutto, ahimè, per veicolare un approccio strumentale della matematica, intesa come disciplina che raccoglie regole, formule, algoritmi e definizioni da studiare a memoria, difficile (quasi impossibile!) da comprendere e assolutamente inopinabile.

Ma la mia risposta è sì (assolutamente sì!) se se ne fa un uso critico e consapevole, se si intende utilizzarlo come uno tra i tanti strumenti a disposizione per conoscere la matematica, utile per riordinare i concetti dopo averli compresi, per dargli una struttura chiara e facilitarne la memorizzazione e il ripasso, per esercitarsi e mettersi alla prova, ma soltanto DOPO aver acquisito le competenze necessarie per poterlo fare, attraverso un approccio relazionale alla matematica, fatto di attività laboratoriali e di scoperte, che vede il discente – protagonista attivo – appropriarsi via via delle conoscenze, dalle più elementari alle più complesse.

Approccio strumentale vs relazionale

Certo, l’approccio relazionale alla matematica è più efficace, consente a ragazze e ragazzi di addentrarsi davvero in quella che è la disciplina, utilizzando una didattica dominio cognitivo specifica, basata sulla manipolazione, sull’approccio visuo-spaziale e sulla comprensione dei concetti.

Eppure moltissimi insegnanti continuano a prediligere l’approccio strumentale; questo perché dà una sicurezza maggiore, permette di percorrere una strada già battuta, non lascia spazio all’incertezza, al pensiero divergente, a strategie differenti, in parole povere “fa meno paura”.

Ed è assolutamente comprensibile: insegnare matematica non è per niente facile.

Un libro di testo pensato per essere messo da parte

Ma se vi dicessi che esiste un libro di testo che permette di avventurarsi all’interno di un approccio relazionale alla disciplina, che guida insegnanti e alunni alla scoperta della matematica attraverso attività esperienziali, laboratoriali e ludiche, affiancando a queste ultime anche una salda base teorica a cui poter attingere ogniqualvolta se ne senta la necessità?

In questo caso sarebbe un po’ più facile salpare l’ancora e lasciarsi trasportare da una didattica davvero efficace e innovativa pur avendo sempre un porto sicuro al quale ormeggiare in caso di mare mosso, vero?

Bene, il nuovo libro di testo di Rizzoli Education vuole offrire esattamente questo:

– un doppio canale attraverso cui vengono presentati gli argomenti, quello pratico per mettere le mani in pasta con i “Mateludici” e la base teorica a cui fare sempre riferimento;

– un nuovo approccio alla risoluzione dei problemi guidata passo passo;

– tanti esercizi per allenarsi, ma anche molte prove non note per permettere a bambine e bambini di mettere in campo in modo creativo le loro competenze;

– uno spazio dedicato all’autovalutazione per aiutare i nostri alunni a riflettere su quanto appreso.

E ora volete sapere il titolo…

…di questo libro di testo pensato per essere aperto, letto e subito richiuso e messo da parte per lasciar spazio all’apprendimento autentico?

Cercate tra le novità editoriali I mondi di GEA (quello con la copertina viola)!

 

 

 

 

 

It’s better than real… It’s pretend!

In Inglese, il verbo TO PRETEND è un classico false friend, una di quelle parole che assomigliano a un vocabolo italiano che conosciamo, ma che vogliono dire qualcosa di molto diverso. To pretend non significa, come si potrebbe pensare, PRETENDERE – che, se volessimo essere precisi, si dice TO DEMAND, che non significa DOMANDARE, ed è quindi un altro false friend! -, bensì FARE FINTA. 

 

“I was pretending I remembered him, but I had no idea who he was!”

“Let’s pretend it never happened.”

“Don’t pretend you did not know what was going to happen!”

 

Particolarmente nel mondo dell’infanzia, e all’interno delle scuole, il verbo to pretend è uno di quei verbi non solo onnipresenti, ma particolarmente amati dagli studenti, che adorano immaginare, sognare, far finta, ma anche dagli insegnanti, che da decenni conoscono l’importanza del gioco immaginativo, di ruolo, di finzione nella trasmissione e nella costruzione degli apprendimenti.

Perché per i bambini è importante “fare finta”?

Per i bambini giocare a fare finta è uno strumento importantissimo per sviluppare un gran numero di abilità, competenze e life skills che vengono interiorizzate molto più rapidamente quando si esce dalla propria, limitata prospettiva, per vestire – e qui si intende letteralmente – i panni dell’altro. Cambiando il proprio punto di vista, facendo finta di non essere più se stessi, i bambini iniziano a superare quella condizione naturale chiamata EGOCENTRISMO INFANTILE, che non è, come si potrebbe credere, un negativo sentimento di desiderio di centralità, quanto piuttosto l’incapacità, del tutto naturale ad una certa età, di comprendere un punto di vista differente dal proprio. Questa incapacità si supera naturalmente con l’età, ma il processo può essere velocizzato con alcuni accorgimenti didattici, tra cui il gioco di finzione. Esso infatti:

  • Permette di esplorare situazioni che normalmente non si vivrebbero. Si può fingere di prendere l’aereo, senza averlo mai preso, fingere di essere proprietari di un animale domestico, quando non lo si ha, fingere di avere dei fratelli, essendo figli unici….
  • Aiuta a superare situazioni emotivamente difficili. Far finta che succedano cose brutte, permette di sperimentarle, seppur in maniera diluita, senza la paura che siano vere. Fingere di essere in ospedale, di andare dal dottore… permettono ai bambini di vivere delle emozioni forti in un ambiente sicuro.
  • Costringe a scendere a compromessi. Quando si creano mondi immaginari con altri bambini, è importante che quei mondo siano condivisi e che i loro contenuti siano accettati da tutti. Per questo i bambini devono imparare a negoziare (chi fa la mamma? Dove facciamo finta di andare in vacanza? …)
  • Aiuta a mettersi nei panni degli altri. Provando sulla propria pelle alcune situazioni anche spiacevoli, è più facile, in futuro, riconoscerle negli altri e avere una vaga idea di cosa stanno passando.

L’accoppiata vincente tra lingua straniera e role play

 Ciascun insegnante di L2 sa che c’è una grande differenza tra lingua “imparata” e lingua “parlata” e che finchè non si è in grado di conversare – comprendendo e producendo – nella Lingua Target, non si può parlare di reale apprendimento. In quest’ottica, il gioco del far finta, il role play, il “language in action” diventano strumenti importantissimi per aiutare gli studenti a passare dalla lingua del manuale alla lingua della reale comunicazione. 

Ci sono moltissime modalità che un insegnante di L2 può mettere in atto con la sua classe, a prescindere dall’età, per utilizzare il gioco del far finta nelle sue lezioni. In particolare, alcune ricorrenze come il CARNEVALE si prestano particolarmente a questo tipo di lezioni. Vediamo come un docente può agire in classe:

  • Creare un dress-up chest: utilizzando vecchi vestiti, oggetti, prompt anche semplicissimi come occhiali da sole, cappelli, sciarpe pitonate, borsette, sarà importante avere uno scatolone o un baule pronto per travestimenti anche molto veloci. I bambini saranno coinvolti nella catalogazione del contenuto del baule, creando un vero e proprio inventario in inglese di ciò che vi si trova all’interno. Gli studenti non solo elencheranno i capi di abbigliamento, ma per ciascuno ne scriveranno una breve descrizione, in  modo da renderlo riconoscibile (es: SUNGLASSES – red frame with dark blue lenses and a golden star on the top right corner). Questa attività non solo permette di lavorare sul vocabolario relativo all’abbigliamento, ma anche una valenza pratica, perché aiuta il gruppo a creare un inventario di ciò che la classe possiede.
  • Dress-up interview: a turno, l’insegnante inviterà un bambino a frugare nel cestone e a creare un travestimento. Il bambino si nasconderà poi dietro un paravento portatile (o dietro l’anta dell’armadio) e dovrà rispondere alle domande dei compagni, che cercheranno di indovinare da chi, o cosa, si è travestito. Si possono prevedere diverse versioni di questa attività:
  1. YES OR NO: le domande possono prevedere solo YES o NO come risposta. Alcuni esempi:
    • Are you a fairy tale character?
    • Do you work in the city?
    • Do you live in a house?
    • Do you wear a uniform?
  2. ONLY JOBS: in questo caso i bambini possono travestirsi solo da “mestieri”, non da personaggi come fate, principi, vecchietti. Le domande possono essere aperte o chiuse a seconda del livello di conoscenza della lingua della classe.
  3. LET’S WRITE AN INTERVIEW: tutta la classe sarà in precedenza coinvolta nella costruzione di un’intervista sufficientemente generica da poter essere applicata a diverse figure. Alcuni esempi di domande possono essere:
    • Are you real or imaginary?
    • Where do you live?
    • Where do you live?
    • How are you dressed?
    • Whom do you work with?

Questo tipo di domande permetterà di lavorare sulle WH questions e di fare pratica delle possibili risposte.

  • Just one prompt: ciascun bambino può selezionare un prompt dal chest, anche qualcosa di molto piccolo come un cappello o una borsa e indossarlo. Sul quaderno ciascun bambino disegnerà se stesso con un costume immaginario, che contenga anche l’elemento da lui selezionato. A questo punto, sarà possibile proporre diverse attività:
  1. DAILY ROUTINE: scrivere una serie di passaggi o frasi in sequenza per descrivere la giornata tipica del personaggio immaginato.
  2. DESCRIPTION: utilizzando non solo il vocabolario dell’abbigliamento, ma anche quello sul corpo, ciascun bambino descriverà il proprio personaggio. Il passaggio successivo sarà leggere la descrizione ai compagni e chiedere loro di disegnare quello che sentono, per poi confrontarlo con l’originale.
  • Funny dialogues: dividendo i bambini a coppie, e permettendo loro di selezionare i costumi/prompt che desiderano dal cestone, invitarli a creare e a mettere in scena una breve skit con dialoghi tra i due personaggi da loro creati. Ci si può sbizzarrire inventando vecchiette bisbetiche, poliziotti inflessibili, cuochi svalvolati…. L’idea sarà cercare di creare situazioni simpatiche, divertenti, dialoghi plausibili ma spassosi.

Liberare la fantasia

Per tutte le caratteristiche di cui abbiamo parlato, il pretend play è una attività che coinvolge i bambini e li diverte. A questo punto, l’insegnante non deve aver paura di lanciare la palla e lasciare che siano gli studenti stessi a raccoglierla, usando la loro immaginazione. Mostrare loro il cestone dei costumi e chiedere di inventare attività per usarne il contenuto, o stabilire una regola un po’ pazza che prevede che i costumi possano essere usati SOLO in L2, sono alcune strategie per coinvolgere i ragazzi e lasciare che dalla loro fantasia scaturiscano modi nuovi e spesso imprevisti per accostare la L2 al pretend play.

Il mondo ha bisogno di poesia

 

Il 21 marzo, primo giorno di primavera, è anche la Giornata Mondiale della poesia. Istituita dall’UNESCO nel 1999, questa ricorrenza può diventare un vero e proprio palcoscenico per le parole, un’occasione preziosa per riscoprire la magia dell’espressione in versi e un laboratorio di emozioni.

Per ricordare che la poesia non è solo testo scritto, ma un’esperienza viva, fatta di suoni, colori e sensazioni, faremo riferimento a “Le storie di Gea”, sussidiario dei linguaggi Fabbri-Erickson, fresco di stampa e pronto per le nuove adozioni ministeriali.  

Perché festeggiare la poesia?

La poesia è un linguaggio capace di trasformare anche una semplice parola in immagine, emozione o ricordo. In un’epoca in cui la comunicazione si riduce spesso a messaggi diretti e brevi, dedicare del tempo alla poesia significa offrire ai bambini e alle bambine uno spazio di libertà. È l’occasione per insegnare loro che le parole offrono opportunità che vanno spesso oltre il loro uso comune.

Attività pratiche per la classe

In vista della Giornata Mondiale della poesia, quindi, anticipiamo con grande piacere alcune delle soluzioni contenute in “Le storie di Gea” che sarà presto in visione per le adozioni dell’anno scolastico 2025-26. 

  1. La poesia e le immagini
    • Immaginate una poesia (per esempio “Due sorelle”, di Chiara Carminati).
    • Affiancate un’immagine, vicina per assonanza, alla poesia (per esempio due maniglie come quelle contenute in “Occhio ladro”, Lapis Edizioni: sembrano davvero due impettite sorelle).
    • Avrete ottenuto un rimando creativo, una suggestione ben distante dalla semplice descrizione didascalica.
    • Infine, come suggerito nel taccuino di scrittura di “Le storie di Gea”, chiedete ai vostri alunni di fare una passeggiata per cercare “personaggi” dove meno se lo aspettano. Perché un personaggio, in fondo, è una questione di sguardi…
  2. Poesia e calligramma
    Il calligramma è un tipo particolare di poesia: in pratica, i versi sono scritti in modo da rappresentare un disegno che completa l’opera e la rende ancora più incisiva.
    Così, per esempio, un calligramma che faccia riferimento alla Luna avrà la forma di una Luna, uno dedicato al cuore sarà facilmente riconoscibile e così via.

Ovviamente un calligramma somma le difficoltà per i nostri piccoli poeti e poetesse: oltre alla scelta dei versi essi dovranno fare attenzione anche alla distribuzione delle parole sul foglio. Per questo, il taccuino de “Le storie i Gea” guida passo-passo i bambini nelle diverse fasi della produzione.

  1. Poesia collettiva
    Per scrivere una poesia bisogna chiudersi in una stanza e lasciare il mondo fuori? Ovvero: la poesia è necessariamente il trionfo della solitudine?
    Quando si parla di poesia non bisognerebbe mai dar nulla per scontato.
    La xeropoesia, per esempio, è una tecnica di scrittura collettiva. Senza scendere troppo nel dettaglio, possiamo dire che si sceglie un tema, lo si mette al centro, e ogni persona di un gruppo scrive il proprio componimento intorno. Quello che si ottiene non è un collage di elementi diversi, ma un’unica opera d’arte che va apprezzata complessivamente.
    In “Le storie di Gea” e nel “Taccuino per esprimersi”, la produzione di una xeropoesia viene proposta in modo strutturato e offre l’occasione di approfondire le figure retoriche, i giochi linguistici o i tanti modi diversi per scrivere poesie.
  2. Diffondere la poesia
    Indubbiamente, il mondo ha bisogno di poesia.
    Per questo motivo, tra i nostri molti impegni da insegnanti ci dovrebbe essere l’attenzione a come favorire la diffusione di questa forma di espressione.
    Un buon modo, soprattutto con i ragazzi di quinta, è la realizzazione di una piccola rivista poetica. Analogica o digitale, con uscita periodica o a numero unico, il sussidiario “Le storie di Gea” mette a disposizione qualche strumento per orientare docenti e alunni.
    Un modo ancora più divertente è trasformare bambini e bambine in jukebox poetici. Sono sufficienti pochi strumenti di uso comune e l’occasione giusta (per esempio una festa di classe o di scuola). In questo caso, però, non diciamo di più perché la poesia è anche questo. Un piccolo mistero da scoprire un poco alla volta.

E per concludere…

Se vi siete iscritti alla seconda edizione di “La poesia è un segreto”, il contest di Rizzoli Education rivolto alle classi, non dimenticate di caricare gli elaborati. Se non avete ancora fatto, avete tempo fino al 31 marzo 2025. Noi ve lo consigliamo caldamente, perché la vera sfida didattica, per noi docenti, è trovare occasioni reali per agganciare la classe in progetti avvincenti e motivanti. E un contest è sicuramente una opportunità da cogliere! per tutte le informazioni, ecco il link: https://www.rizzolieducation.it/contest-poesia/

Buona poesia!

Il libro di testo e la comunicazione

La comunicazione orale

Per lungo tempo il parlarsi è stata la forma di comunicazione umana prevalente. Il senso più utilizzato era l’udito e il sapere era archiviato nella memoria; l’uomo che ricordava molto godeva di molta considerazione. La capacità limitata della memoria provocava un naturale processo di rimozione delle informazioni superflue.

L’efficacia della comunicazione era affidata al ritmo e alle frequenti ripetizioni. La poesia costituiva il modello formale con cui gli insegnamenti passavano da una generazione all’altra. I miti raccontavano vicende mai accadute, ma erano portatori di insegnamenti fondamentali per la sopravvivenza e il benessere della comunità. Il poeta, facendo leva sull’immaginario individuale e collettivo, ne narrava lo svolgersi alle giovani generazioni ed era considerato un maestro di vita.

L’epoca della scrittura

Poi venne la scrittura e, millenni dopo, il libro di testo; la stampa ne facilitò la diffusione; l’elettronica ci propone oggi il formato digitale. Con la scrittura fu possibile archiviare il sapere su un supporto fisico; venne meno la fatica della memorizzazione e con essa la rimozione delle informazioni superflue, le quali, continuando a circolare, generarono sovrabbondanza di informazioni; l’acquisizione di una conoscenza realmente efficace divenne, e lo è sempre più, impegnativa.

Con l’avvento della scrittura il poeta perse valore. Nella Grecia classica si dibattè a lungo se un testo scritto potesse riprodurre compiutamente il pensiero del suo autore. Lo stesso Platone fu contraddittorio; ne intravedeva l’utilità, ma temeva che i giovani, potendo disporre del testo scritto, considerassero superfluo l’insegnamento orale del maestro.

La comunicazione orale è ridondante 

Il termine ‘comunicazione’ significava, sia in greco sia in latino, ‘rendere partecipe’, cioè avviare una relazione per condividere e coinvolgere. La comunicazione orale era considerata la forma più appropriata perchè ridondante; il libro non poteva esserlo.

Anche oggi, durante lo svolgimento della lezione, il docente tende a ripetere più volte gli stessi concetti; un po’ per consentire a qualche studente distratto di tenersi agganciato al filo del ragionamento, un po’ per presentare gli stessi concetti con altre parole e aggiungere particolari. La ridondanza aiuta a stabilire quel rapporto empatico senza il quale l’apprendimento non può essere nè profondo nè duraturo.

Il libro di testo

Nel libro di testo i concetti sono esposti in forma sintetica, senza alcuna ridondanza. Se è vero che gli studenti possono accedervi in piena autonomia, è anche vero che l’esperienza mostra altro. Senza la figura del docente, che li prende per mano e li accompagna lungo il cammino, lo studente procede a singhiozzo, impara a memoria e si illude di conoscere qualcosa.

Il libro di testo appare come un lavoro di pavimentazione del sentiero sul quale docente e studenti sono in cammino; passo dopo passo i viandanti procedono tra i suoi contenuti; al docente il compito di aggiungere la ridondanza necessaria per rendere l’apprendimento profondo e duraturo.

Il libro provvede ad una pavimentazione solida, magari senza ornamenti ed effetti speciali; mira ad agevolare l’acquisizione delle conoscenze di base, fondamentali e di lunga durata, tutt’altro che scontate.

Passeggiate poetiche tra parole e germogli

La poesia è ovunque, nelle parole che scivolano leggere nei discorsi dei bambini, nei suoni che riempiono i corridoi della scuola, nelle voci che si mescolano in un gioco di echi e significati. Fare poesia a scuola significa affinare lo sguardo, allenarsi ad ascoltare, scoprire che le parole possono essere leggere come foglie o pesanti come sassi.

Spesso si pensa che la poesia sia difficile, riservata a pochi, relegata alle grandi occasioni o ai temi stagionali. Eppure, per i bambini e le bambine, la poesia è un gioco serio come dice Chiara Carminati: una scoperta continua di suoni, immagini ed emozioni. Quando la scuola accoglie la poesia nel quotidiano, offre agli alunni uno spazio di espressione autentica, un luogo in cui le parole diventano un ponte tra il pensiero e il sentire.

Acchiappare parole: un’esperienza poetica in movimento

Un’attività semplice ma potentissima per avvicinare i bambini alla poesia è quella di “acchiappare le parole” in una giornata qualunque. Uscire dalla classe, passeggiare per la scuola o nei dintorni (dove possibile), e ascoltare: quali parole ci raggiungono? Quali suoni attirano la nostra attenzione? Ogni bambino prende nota di una parola che lo colpisce e la scrive su un foglietto. Poi il gioco si ripete, continuando a raccogliere parole e a trascriverle su post-it o fogli. Tornati in aula, le parole vengono raccolte in una grande boccia trasparente: un serbatoio di suoni e immagini da cui attingere per creare.

Da questa boccia di parole ogni bambino pesca a caso alcuni foglietti e prova a intrecciarli in un breve testo poetico, un po’ come nell’esperimento d’autunno sulle poesie al ritaglio. Le poesie possono essere minime, anche solo due o tre versi, accompagnate da una piccola illustrazione fatta da loro che ne catturi il senso. Così facendo, i bambini imparano a giocare con le parole, a lasciarsi sorprendere dalle combinazioni inaspettate, a trasformare i suoni in immagini e le immagini in suoni.

Il potere della parola che si trasforma

Da questa esperienza iniziale si può partire per esplorare nuovi giochi di parole: mescolare i suoni, modificare le lettere, inventare parole nuove che suonano bene insieme. La poesia diventa un laboratorio di sperimentazione linguistica, uno spazio in cui ogni bambino e bambina può sentirsi autore, esploratore e creatore.

“Ti conosco, primavera”: la poesia come incontro

Un altro spunto interessante può venire dalla personificazione. Prendiamo ad esempio la poesia “Ti conosco, primavera” (Giusi Quarenghi): la stagione viene descritta come se fosse una persona viva, con caratteristiche, gesti e movimenti propri. I bambini possono provare a fare lo stesso: come sarebbero l’inverno, l’estate, il vento, la pioggia se fossero persone? Quali parole userebbero per parlare di sé?

Fare poesia a scuola non significa solo scrivere versi, ma allenarsi a guardare il mondo con occhi nuovi. Significa scoprire che le parole non sono solo strumenti per comunicare, ma anche compagne di viaggio, capaci di aprire porte e finestre su mondi inaspettati. E allora, che si inizi questo viaggio, con una boccia di parole, una matita e tanta voglia di stupirsi!

Cybersecurity VI: Storia ed evoluzione della Password

L’evoluzione dei criteri di sicurezza del sistema di autenticazione più utilizzato e più “bucato” dagli attaccanti.

Le password sono ancora oggi un elemento cruciale per la sicurezza nel mondo digitale, ma nel corso degli anni, le pratiche relative alla sicurezza delle password si sono evolute per rispondere alle sempre crescenti minacce informatiche. Si è passati dalle prime raccomandazioni riguardanti la lunghezza e la complessità, fino ad arrivare oggi all’adozione di tecnologie che superano l’uso delle password. Nel corso tempo l’approccio alla protezione delle credenziali ha subito trasformazioni significative.

Le origini delle password

L’idea di utilizzare una parola d’ordine segreta si può far risalire fino all’antichità, quando potevano già essere impiegate per identificare amici e nemici. Tuttavia, l’utilizzo moderno delle password inizia negli anni ’60 con i primi sistemi informatici ad accesso condiviso, ovvero che potevano essere usati da diversi utenti. Uno dei primi esempi significativi fu il sistema CTSS (Compatible Time-Sharing System) del MIT, che nel 1961 consentiva agli utenti di accedere a sessioni personali protette da password.

Gli anni ’90: Le prime linee guida sulla sicurezza delle password

Negli anni ‘90, con la diffusione di Internet e dei servizi digitali l’autenticazione tramite username e password divenne rapidamente lo standard per accedere a servizi online e le password deboli e ripetute iniziarono fin da subito a rappresentare una vulnerabilità comune e diffusa; emerse quindi la necessità di definire criteri per la creazione di password sicure. 

Le prime best practice suggerivano:

  • Lunghezza minima della password (almeno 8 caratteri)
  • Utilizzo di caratteri speciali, numeri e lettere maiuscole
  • Cambi frequenti delle password, spesso ogni 30 o 90 giorni

L’obiettivo era mitigare il rischio di attacchi “brute force”, ovvero in cui l’attaccante cerca di indovinare la password attraverso numerosi tentativi (spesso usando tool automatici), e limitare i danni in caso di compromissione delle credenziali.

Gli anni 2000: L’introduzione del criterio di complessità

Con l’aumento degli attacchi automatizzati, le linee guida si fecero via via più rigide:

  • Password più complesse, con requisiti obbligatori di simboli e lettere miste
  • Divieto di utilizzare parole comuni o informazioni personali facilmente reperibili
  • Politiche per il blocco degli account dopo un certo numero di tentativi falliti
  • Divieto di riutilizzo di una password già utilizzata in passato

Sebbene in teoria l’aumento della lunghezza e complessità delle password costituisca un valido ostacolo contro gli attacchi alle credenziali, ci si rese ben presto conto di come queste regole portassero gli utenti ad adottare pratiche scorrette e rischiose quali:

  • il riutilizzo di password uguali per servizi diversi
  • il riutilizzo di password molto simili tra loro per lo stesso servizio (magari postponendo un numero progressivo alla stessa parola chiave)
  • il salvataggio delle password su documenti non protetti

Gli anni 2010: Password manager e autenticazione a due fattori (2FA)

La necessità di adottare password di crescente complessità e la difficoltà degli utenti nel ricordare diverse password complesse e da aggiornare nel tempo, portò all’adozione di strumenti come i password manager, in grado di generare, memorizzare e proteggere credenziali complesse.

In parallelo, emerse l’autenticazione a due fattori come best practice per aggiungere un ulteriore livello di sicurezza. L’autenticazione a due fattori implica che per accedere ad un servizio gli utenti debbano fornire non solo una password, ma anche un secondo fattore di verifica, come un codice inviato via SMS o una notifica su un’app dedicata.

Cambiamenti recenti: l’addio al cambio periodico delle password

Uno dei cambiamenti più significativi nelle best practice è avvenuto con l’abbandono del requisito di cambiare frequentemente le password. Le nuove linee guida, supportate da enti come il National Institute of Standards and Technology (NIST) e la Direttiva NIS2 dell’Unione Europea, suggeriscono che il cambio frequente delle password non aumenta necessariamente la sicurezza, in quanto ha come effetto anche la promozione di comportamenti utente a rischio.

Le raccomandazioni attuali si concentrano invece su:

  • La creazione di password uniche e robuste
  • L’utilizzo di passphrase (lunghe combinazioni di parole facilmente memorizzabili)
  • L’adozione, quando possibile, di autenticazione multifattore (MFA) 

Verso un futuro senza password

Con l’avanzare della tecnologia, molte organizzazioni stanno abbracciando soluzioni di autenticazione senza password (passwordless). Sistemi come quelli promossi dalla FIDO Alliance utilizzano chiavi crittografiche sicure basate su hardware o autenticazione biometrica.

Le nuove tecnologie promettono di eliminare le vulnerabilità associate alle password tradizionali, migliorando sia la sicurezza che l’esperienza utente.

Conclusione

Le best practice relative alle password si sono evolute per adattarsi a un panorama di minacce in continua crescita. Dall’uso di password complesse e cambi frequenti si è passati a un approccio più centrato sulla robustezza delle credenziali e sull’autenticazione multifattore (riferimento alla lezione 5 unità 14 – Il controllo degli accessi del volume 2 di Informatica bit a bit). Con l’adozione di tecnologie senza password, il futuro della sicurezza digitale appare sempre più promettente e meno dipendente dalla memoria umana.

Python e il web con Flask: un micro-framework open source flessibile e leggero

Il linguaggio di rifermento della didattica del coding nelle scuole secondarie di secondo grado è ormai Python, mi sono chiesta dunque se potesse essere possibile integrare Python anche nella didattica dei linguaggi per il Web e mi sono imbattuta in Flask.

Flask è un micro-framework, cioè un insieme di moduli pre-costruiti che aiuta a creare applicazioni web in modo più rapido ed efficiente anche con il linguaggio Python, micro perché ha un nucleo semplice ma è possibile aggiungere le funzionalità di cui non dispone nativamente.

Utilizzando un framework si risparmia tempo perché non si deve scrivere da zero codice per le funzionalità più utilizzate, il programma risulta più leggibile e manutenibile inoltre le funzioni del framework sono testate da più programmatori e dunque il codice risulta più affidabile.

In genere gli studenti imparano a programmare con Python almeno fino al paradigma ad oggetti e poi passano ai linguaggi per il Web, il mio obiettivo è dunque cercare di sostituire javaScript e PHP, che dovrei cominciare a insegnare da zero, con Python, in modo da sfruttare le conoscenze già acquisite precedentemente. 

Ho quindi provato a farmi un’idea sulla fattibilità di questa idea.

Per quanto riguarda il confronto con javaScript, javaScript è più reattivo perché non ha bisogno di ricaricare la pagina, le animazioni e gli effetti sono più fluidi, però richiede un backend separato per gestire dati e autenticazione.

Per quanto riguarda PHP: Flask e PHP condividono un approccio comune, basato sulla generazione di risposte HTTP a partire da richieste ricevute, con la distinzione che Flask, in quanto framework Python, offre spesso una maggiore flessibilità e una sintassi più concisa rispetto a PHP.

E’ vero che Flask integra in modo sinergico diverse tecnologie per la creazione di applicazioni web, in un’applicazione Flask possiamo trovare Python (funge da linguaggio di programmazione principale, gestendo la logica lato server e le interazioni con il database), HTML (struttura il contenuto delle pagine web), CSS (definisce l’aspetto visivo), JavaScript (aggiunge interattività dinamica).

Un vantaggio che possiamo avere con l’utilizzo di Flask è che possiamo anche provare le pagine con backend in locale senza bisogno di installare un software che trasformi il nostro device in un server (come XAMPP o Uniform Server), si può simulare il comportamento di un server e successivamente portare l’applicazione nel web su una piattaforma come PythonAnywhere, Heroku, o Replit.

Per poter utilizzare Flask con Python occorre installare la libreria dei comandi Flask (pip install flask).

 

Per creare un’applicazione in locale occorre predisporre una cartella, nella quale mettere il programma Python e una sottocartella templates, nella sottocartella va impostata la pagina web, che in questo caso abbiamo chiamato index.html.

Ecco qui di seguito un esempio di codice minimale:

from flask import Flask, render_template
app = Flask(__name__)
@app.route('/')
def home():
    return render_template('index.html')
if __name__ == '__main__':
    app.run(debug=True)

 

L’istruzione (app = Flask(__name__)) crea un’istanza dell’applicazione Flask, assegnandola alla variabile app. L’argomento __name__ passa al costruttore il nome del modulo corrente, così Flask può trovare correttamente le risorse statiche e i template.

Il decoratore (@app.route(‘/’))  associa la funzione home() all’URL radice ‘/’ (la home page).

Ogni volta che l’utente visita l’URL radice, viene eseguita quindi la funzione home() definita nella riga successiva, questa funzione richiama la pagina index.html (che viene cercata nella cartella templates).

L’istruzione (app.run(debug=True)) avvia l’app Flask in modalità debug (che permette di visualizzare messaggi di errore più dettagliati e ricaricare automaticamente l’app ad ogni modifica).

Il template index.html contiene il testo per visualizzare la pagina web:

<!DOCTYPE html>
<html>
<head>
    <meta charset="UTF-8">
    <title>La mia prima app Flask</title>
</head>
<body>
    <h1>Benvenuto nella tua prima applicazione Flask!</h1>
</body>
</html>

 

Per eseguire l’app basta dare un doppio click sul file app.py, si aprirà una finestra del prompt dei comandi:

Per poter vedere il risultato dell’elaborazione bisogna visitare il sito http://127.0.0.1:5000 da un browser (in locale).

In questo primo esempio abbiamo utilizzato Python-Flask per mostrare nel browser una pagina Web statica, possiamo integrare il codice aggiungendo la parte interattiva tramite un form o con l’accesso a un database, in questo caso dovremo gestire la comunicazione HTTP tra server e client.

Il sistema predefinito per il rendering di template in Flask sfrutta un particolare  motore di template: Jinja2, che permette di inserire variabili, strutture di controllo (if, for), filtri e macro all’interno di file HTML e quindi generare HTML dinamico.

In conclusione, continuo a insegnare JavaScript per presentare una modalità efficace di gestione del frontend delle applicazioni Web, poiché lo reputo ancora la soluzione più appropriata per garantire animazioni fluide e un’interattività avanzata, nonostante l’aumento della curva di apprendimento generato dalla necessità di imparare un nuovo linguaggio.

Per quanto riguarda la parte backend devo ancora esaminare bene le difficoltà intrinseche nel passare a usare SQLAlchemy, che sarebbe una cosa completamente nuova.

L’adozione di Python-Flask per la gestione del backend delle applicazioni Web invece rappresenta una prospettiva interessante, soprattutto per sfruttare le competenze pregresse degli studenti in Python e semplificare l’integrazione con altri strumenti del linguaggio. Tuttavia, rimangono alcune incertezze legate alla curva di apprendimento di SQLAlchemy e alla necessità di approfondire le best practice per garantire efficienza, sicurezza e scalabilità nell’implementazione di soluzioni basate su Flask. 

(collegato a lezione 6 del Volume 2 (V2U09) Il framework Flask)

Giubileo 2025: un anno di speranza e rinnovamento

Il Giubileo 2025, indetto da Papa Francesco, è un evento straordinario per la Chiesa cattolica e per i milioni di pellegrini attesi a Roma. Il tema scelto, “Pellegrini di speranza”, richiama il desiderio di rinnovamento spirituale e la ricerca di pace in un mondo segnato da incertezze e difficoltà.

Il significato del Giubileo

Il Giubileo è un Anno Santo che la Chiesa celebra ogni 25 anni, offrendo ai fedeli un’opportunità di conversione, riconciliazione e indulgenza plenaria. Questa tradizione risale al 1300, quando Papa Bonifacio VIII istituì il primo Anno Santo. Nel corso della storia, sono stati proclamati anche Giubilei straordinari, come quello della Misericordia nel 2015-2016.

Uno degli elementi più significativi del Giubileo è l’apertura della Porta Santa nelle quattro basiliche maggiori di Roma: San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore. Il passaggio attraverso queste porte simboleggia un cammino di rinnovamento spirituale e coincide con uno dei momenti più attesi dai pellegrini.

Eventi e pellegrinaggi

Il programma del Giubileo 2025 è ricco di celebrazioni liturgiche, incontri di preghiera e momenti di riflessione. Sono previsti eventi dedicati ai giovani, alle famiglie, ai sacerdoti e ai malati, oltre a iniziative di dialogo ecumenico e interreligioso. Uno degli appuntamenti più emozionanti è la tradizionale Via Crucis al Colosseo, così come la Settimana della Carità, dedicata all’assistenza ai bisognosi.

Il pellegrinaggio avrà un ruolo centrale, con migliaia di fedeli che percorreranno gli antichi cammini per raggiungere Roma, come la Via Francigena o il Cammino di San Francesco. Questo viaggio rappresenta non solo un’esperienza fisica, ma soprattutto interiore, un’occasione per riflettere, pregare e rafforzare la propria fede.

Roma e i preparativi per il Giubileo

La città eterna si sta preparando ad accogliere un afflusso straordinario di visitatori, con investimenti significativi per migliorare infrastrutture, trasporti e luoghi di culto. Sono stati messi in atto progetti per riqualificare strade, restaurare chiese e monumenti e potenziare i servizi dedicati ai pellegrini. Si stima che oltre 30 milioni di persone parteciperanno agli eventi giubilari, con un impatto importante sul turismo e sull’economia locale.

Una delle grandi novità di questo Giubileo sarà l’uso della tecnologia per rendere l’esperienza più accessibile. La Santa Sede ha sviluppato app ufficiali per fornire informazioni, permettere la prenotazione di eventi e guidare i pellegrini nei percorsi giubilari. Saranno disponibili anche dirette streaming delle celebrazioni e contenuti in realtà aumentata per raccontare la storia dei luoghi sacri. Una curiosità: durante il Giubileo del 2000, oltre 25 milioni di medaglie commemorative furono distribuite ai pellegrini. Anche per il 2025 è prevista la realizzazione di oggetti simbolici per ricordare l’evento!

Un’occasione di fede e speranza

Il Giubileo 2025 è molto più di un evento religioso: è un momento di unità, riflessione e speranza per milioni di persone nel mondo. Roma torna a essere il cuore della spiritualità cattolica, accogliendo pellegrini desiderosi di vivere un’esperienza di fede autentica.

Con il messaggio di “speranza” al centro dell’Anno Santo, il Giubileo sarà un’occasione per riscoprire il valore della fratellanza, della pace e della misericordia. In un periodo storico segnato da sfide globali, il pellegrinaggio a Roma rappresenterà un simbolo di rinnovamento non solo per la Chiesa ma per l’intera umanità.

Per approfondimenti, vai alla rubrica Navigare dentro la Bibbia della rivista Raggi di Luce.

Educare al pensiero critico: il ruolo (e il compito) storico del Rinascimento

La definizione dell’età della storia occidentale che va sotto il nome di Rinascimento è stata una delle questioni più dibattute dalla storiografia. Quali sono i caratteri distintivi dei due secoli, Quattrocento e Cinquecento, rispetto a ciò che li precedette e ciò che li seguì? Ha senso parlare ancora di Rinascimento come categoria storiografica se i suoi protagonisti usarono altre parole per definire sé stessi, e cioè, ad esempio, humanistae o moderni? Dallo storico francese Jules Michelet (1798-1874), che per primo lo definì in questo modo (Renaissance), fino a oggi il dibattito non si è mai interrotto.

Davanti a un oggetto storico sfuggente, la sua periodizzazione cambia a seconda della prospettiva dello spettatore. Lo storico della filosofia di formazione anglosassone o francese guarderà al Rinascimento come a un periodo di transizione pressoché ininfluente tra la grande filosofia scolastica e Cartesio. Lo storico dell’arte ne fisserà l’inizio in coincidenza dell’invenzione della prospettiva e della pittura di Masaccio. Quello dell’economia parlerà della crisi economica del Cinquecento, dell’espansione e della decadenza delle grandi compagnie mercantili, dell’economia-mondo. Lo storico della politica si concentrerà sulla debolezza del sistema politico italiano di fronte alle grandi monarchie europee, e porrà l’accento sul grande laboratorio di pensiero politico che proprio questa instabilità contribuì a generare, con al culmine il solito Niccolò Machiavelli. Lo storico della scienza avrà a mente le scoperte tecnologiche e scientifiche (Leonardo, Copernico, Galileo). E così via. 

La sfida è dunque tenere insieme elementi del periodo in cui convivono la Flagellazione di Piero della Francesca, la pace di Lodi, i Medici a Firenze, Girolamo Savonarola, la caduta di Bisanzio, la nascita dello Stato moderno, le scoperte geografiche, l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la frattura religiosa dell’Europa. 

Dal punto di vista della progettazione didattica affrontare periodi come il Rinascimento offre il destro alla più ampia interdisciplinarietà dei contenuti. Ma cosa privilegiare in particolare tra questi aspetti? Quale il focus capace di mettere in grado chiunque di connettere fenomeni in apparenza così distanti tra loro? Quali argomenti offrire alla convinzione diffusa che il Rinascimento italiano ed europeo si collochi all’origine della modernità?

 

Una data che nei manuali viene richiamata troppo poco è il 1397. È l’anno in cui il cancelliere della Repubblica di Firenze, Coluccio Salutati, chiama il bizantino Manuele Crisolora a insegnare il greco a Firenze. Ex Oriente lux. La luce dei libri. Dei nuovi libri che Crisolora portò con sé da Costantinopoli, scritti in una lingua che l’Occidente (latino) non aveva frequentato per quasi un millennio. Tra questi vi erano i Dialoghi di Platone e la Geografia di Tolomeo, Plutarco e Luciano. 

Fu questa la vera frattura che preluse a un profondo ripensamento di certezze secolari. La conseguenza fu l’affermarsi di una propensione all’ascolto delle ragioni di una cultura altra per riconsiderare radicalmente la propria. Il fenomeno non fu uniforme né coerente. Ma non si può negare che diede un impulso decisivo alla riscrittura di modelli interpretativi della realtà in tutte le sue manifestazioni culturali.

A preparare il terreno era stato Francesco Petrarca, non quello del Canzoniere, ma l’umanista che aveva cominciato a vagliare la tradizione che lo aveva preceduto con nuovi paradigmi intellettuali. Inaugurò una filologia in senso lato, che si configura quale unico criterio intellettuale adatto a conseguire la veritas, e che non accetta mai passivamente l’autorevolezza di una fonte, ma la valuta sempre criticamente.

Ecco, sottoporre a verifica. Una delle più grandi conquiste dell’umanesimo quattrocentesco in virtù della reintroduzione del greco fu, forse, proprio questa: l’allargamento delle prospettive critiche grazie alla riemersione di un termine di confronto funzionale sia allo studio dei testi antichi, sia a sciogliere, per il suo valore di testimonianza estrinseca alla tradizione occidentale, molte incoerenze tra le fonti letterarie, filosofiche, scientifiche e religiose latine.

Tutto ciò passò capillarmente nella scuola. Rinnovare i metodi pedagogici e lo studio della lingua significò rinnovare il pensiero. Le Elegantiae di Lorenzo Valla lo dimostrarono in tutta la sua sconvolgente evidenza. Significò anche rivoluzionare la scrittura, cioè il medium della parola: la rinascita della littera antiqua è all’origine della nostra scrittura moderna; l’invenzione della stampa garantì al libro una circolazione mai vista prima, inaugurando nuove possibilità di dialogo tra i dotti d’Europa e del mondo. Il sapere uscì dai conventi e dalle aule universitarie per entrare nelle botteghe, nelle piazze, negli uffici. Oltre che dalla stampa, la diffusione fu garantita dalla grandiosa operazione di volgarizzamento dei testi classici, tanto latini quanto greci, che garantì l’accesso ai contenuti dell’alta cultura anche a chi era ignaro di latino. 

Un esempio fra i tanti? Leonardo riuscì a diventare Leonardo pur essendo «omo sanza lettere», cioè senza conoscere il latino.

Da un lato l’elaborazione di un rigoroso metodo storico di accertamento dell’autenticità del documento aveva segnato un punto di non ritorno nella storia del pensiero critico; dall’altro la sensibilità storica con cui si osservavano la profondità dei secoli passati e le civiltà scomparse aveva insegnato a comparare le diverse culture, compresa la propria. Da qui al relativismo culturale di Montaigne il passo è breve. Nasce l’idea di un’unica religione naturale comune a tutti i popoli, antichi e moderni, con un’unica verità che prende solo forme diverse sotto i diversi culti e le diverse confessioni che la venerano (Marsilio Ficino e Pico della Mirandola). Furono questi gli strumenti concettuali che presiedettero al dibattito sulla tolleranza religiosa nel pieno Cinquecento.

In passato ci fu chi sostenne che la filologia fu la vera cifra dell’umanesimo, perché rimise al centro dell’educazione dell’uomo i testi, i libri (non il libro), la ricerca delle fonti e la loro critica. Non andò lontano dal vero. I più grandi fra gli umanisti riconobbero che è nel dubbio, non nella certezza, che sta il motore del progresso e della ricerca. Si guardò al passato come a un modello non per cercare solo di riprodurlo con timore reverenziale, ma per rinnovarsi alla luce sia della propria storia che di quella dell’altro da sé. 

Per questo copie dei lavori del matematico e cartografo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, che solo studiando la Geografia di Tolomeo aveva potuto andare oltre lo stesso Tolomeo e ipotizzare di raggiungere l’Asia attraverso l’Atlantico, finirono sulla scrivania di Cristoforo Colombo; per questo Copernico osò distruggere il sistema aristotelico-tolemaico e mutare faccia all’universo; per questo Erasmo da Rotterdam, il primo intellettuale veramente ‘europeo’, fece vedere che anche di alcune concezioni religiose che si credevano divinamente immutabili si poteva ricostruire una storia squisitamente umana; per questo Andrea Vesalio rivoluzionò l’anatomia scoprendo la circolazione del sangue e permettendosi così di infrangere il principio di autorità dei medici dell’antichità, considerati intoccabili. 

Il lascito più profondo dell’umanesimo, allora, furono davvero i dispositivi intellettuali per storicizzare la realtà umana, le sue espressioni spirituali e materiali. Con l’umanesimo l’uomo entra nella storia, scoprendone relatività e contraddizioni.