Un fiore con i pentamini

È possibile risolvere un problema difficile procedendo per prove ed errori?

Sì! Ci sono delle attività, come quella proposta in questo articolo, che richiedono proprio l’utilizzo di questa strategia risolutiva. Di fronte alla richiesta di comporre una figura, in questo caso un fiore, utilizzando i dodici pentamini (figure composte da cinque quadrati) i bambini posizionano i pezzi e li spostano fino a trovare la giusta collocazione. I bambini sono sollecitati a provare, sperimentare e verificare fino a individuare la soluzione al quesito. È  più semplice giungere alla soluzione se i diversi tentativi non sono casuali ma dettati da uno specifico ragionamento o da una riflessione sull’azione appena compiuta.

Uno degli aspetti interessanti di questo tipo di proposte è la visione dell’errore che non ha una valenza negativa e non viene posto in risalto, ma è contemplato dall’attività stessa. I bambini, utilizzando i pentamini manipolabili (fig. 1), possono iniziare a collocarli all’interno della sagoma (fig. 2) e quando si rendono conto che il percorso intrapreso non condurrà alla soluzione posso spostare uno o più pezzi e provare altre combinazioni. 

Ci sono poi delle scelte che agevolano l’individuazione della soluzione come quella di partire dagli spazi che possono essere ricoperti solo da uno specifico pentamino. Per esempio, per quanto riguarda il fiore, è consigliabile posizionare prima i quattro pentamini (a forma di Z, V, I,  L) nella parte inferiore, sullo stelo e sulle foglie (fig. 3).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questo modo si escludono subito quattro pentamini che sicuramente non servono per ricoprire la superficie della corolla del fiore. La complessità del problema viene così ridotta: una parte del problema è infatti risolta, non resta che trovare la giusta collocazione agli otto pentamini rimasti provando e riprovando, procedendo per tentativi ed errori!

Energies renouvelables. Le premier restaurant solaire à Marseille

On sait déjà que l’énergie renouvelable connait un fort essor en France depuis quelques années. En 2020, elle représentait 19,1% de la consommation finale brute d’énergie, contre 9% en 2005. Cette donnée place aujourd’hui la France en 17ème position au sein de l’Union européenne. L’objectif du gouvernement est cependant celui d’atteindre 33% en 2030. 

Pour le Ministère de la Transition écologique, cette croissance est, en grande partie, due au développement rapide des biocarburants, des pompes à chaleur et de la filière éolienne.

La période à venir peut, si nous le voulons, être l’occasion d’un développement maitrisé. Et les expériences significatives se multiplient.

Il y a quelques années, face à la flambée des couts du pétrole, du gaz et de l’électricité, provoquée par les événements de ces derniers temps, et à une sorte de « réveil » écologique, Pierre-André Aubert, ingénieur en aérospatiale converti au métier de cuisinier, met au point un projet fou : un restaurant solaire utilisant directement la chaleur du soleil comme mode de cuisson.

Après plusieurs expériences dans des restaurants traditionnelles du PACA, en mai 2017 il ouvre une guinguette solaire dans le quartier écologique de Marseille, le Technopôle de Château-Gombert. 

Grâce au climat méditerranéen, l’idée de cuisiner avec un four solaire ne lui parait pas impossible. Un système de miroirs concentrateurs de lumière lui permet ainsi de réaliser une véritable plaque de cuisson. À partir de ce moment-là, le projet devient réalité : les premiers clients peuvent manger des plats cuisinés grâce à une énergie locale, propre, sans déchets et surtout sans émissions de carbone.

Et ce n’est pas tout : les produits utilisés sont locaux et de saison, et les bio-déchets organiques sont recyclés en compost pour enrichir et fertiliser les sols ou transformés en gaz.

Combien coute un repas « solaire » ?  Un menu complet entrée/plat/dessert ne dépasse pas les 20 euros.

Alors, êtes-vous prêts à vivre une expérience révolutionnaire ? 

Bibliographie 

Y volvieron las Fallas… con lágrimas, mascarillas y muchas ganas de fiesta

La pandemia ha impedido que se celebraran fiestas populares durante casi dos años. Sin embargo, con la bajada de la sexta ola, Valencia fue la primera capital española en recuperar una fiesta popular (había sido también la primera en suspenderla) después del parón de la pandemia, y lo hizo por todo lo alto.  

Las últimas Fallas habían sido en septiembre y con todo tipo de restricciones (toque de queda, limitación de aforos, pasaporte covid). En cambio, este año, miles de personas abarrotaron la plaza del Ayuntamiento para asistir a las mascletás y otras se reunieron en verbenas o en las disco- móviles presentes en las calles para festejar hasta la madrugada, incluso bajo la lluvia, estas Fallas casi normales: la principal recomendación era la de llevar la mascarilla al aire libre en caso de aglomeraciones y en interiores cuando se bebía y comía.

Estas Fallas estuvieron llenas de sorpresas. Algunas de ellas emotivas: muchos asistentes no pudieron reprimir las lágrimas durante la primera mascletá; y otras tiernas, como la vivida durante la ofrenda a la Mare de Déu, cuando una de las falleras desfiló ante la patrona dándole el pecho a su bebé. Una imagen natural que indica continuidad con una tradición secular. ¡Ojalá podamos vivir otras muchas escenas parecidas en otras muchas fiestas!

Alla scoperta degli ingredienti cosmetici: le regole, la sicurezza, le funzioni

Dal dentifricio alla crema da notte, passando per profumi, rossetti, shampoo e balsami: ogni prodotto cosmetico contiene ingredienti fondamentali che gli permettono di funzionare ed essere sicuro per la nostra salute.

Da essi dipendono, infatti, in larga parte sicurezza, stabilità e funzionalità del prodotto finito.

Eppure, come accade spesso ai prodotti dell’industria chimica, gli ingredienti cosmetici sono vittima di falsi miti che generano timori infondati e illusorie aspettative nel consumatore, quando dovrebbero invece essere riconosciuti come preziosi alleati.

Si pensa addirittura che un prodotto cosmetico sia migliore o più sicuro di altri se presenta solo ingredienti naturali o addirittura se non contiene alcuni ingredienti, secondo una cultura del “senza”. 

Cosa fare per evitare tutto questo? Da un lato dobbiamo diventare consumatori più consapevoli e informarci, senza cadere vittima di pregiudizi da pseudoscienze. Dall’altro, tutta la filiera deve supportare la consapevolezza del consumatore favorendo una corretta comunicazione e tenendo presente che quello che un consumatore vede è solo il prodotto cosmetico finito. 

Per essere inserito in un prodotto e svolgere le sue funzioni, ogni ingrediente cosmetico è oggetto di articolati processi di ricerca, di produzione e di verifica regolatoria. Questi passaggi operativi coinvolgono una filiera molto articolata e complessa che, partendo dalla chimica di base, passa attraverso la produzione di eccipienti, sostanze funzionali e fragranze per giungere alla produzione e al confezionamento del cosmetico pronto all’uso.

Ogni fase è attentamente controllata da un imponente impianto normativo, che prevede specifici e inderogabili requisiti. Ogni sostanza ammessa è sicura nelle quantità e nelle modalità d’uso secondo quanto stabilito dal Regolamento europeo sui prodotti cosmetici 1223/2009 che stabilisce nei propri allegati, con estrema chiarezza, quali sostanze sia lecito o meno utilizzare e con quali eventuali restrizioni.

La sicurezza e la trasparenza dell’ingrediente nei confronti dell’ambiente, dell’operatore e del consumatore è anche garantita dal Regolamento CE 1907/2006 «REACh» e dal Regolamento CE 1272/2008 «CLP».  

Per quanto riguarda il trend del «naturale», sappiamo bene che «naturale» e «sostenibile» sono due concetti che non necessariamente coincidono: una sostanza definita naturale può avere un impatto anche molto più importante di una sostanza di origine sintetica.  Per non cadere nell’errore di considerare invece tutto ciò che è di sintesi come pericoloso e nocivo, abbiamo a disposizione il Life Cycle Assessment (LCA), strumento che ci insegna a considerare tutti gli impatti di un prodotto nel suo intero ciclo di vita. 

Abbiamo quindi spiegato quanto sia sicuro l’uso degli ingredienti cosmetici, vediamo ora un esempio che riguarda una classe di ingredienti da tempo sulla bocca di tutti.

Parliamo dei conservanti che possono essere sostanze naturali, o di sintesi, aggiunte alla formulazione dei cosmetici per svolgere un’azione protettiva che rende il prodotto cosmetico sicuro dal punto di vista microbiologico durante tutto il suo periodo di utilizzo. Se i cosmetici non contenessero sostanze conservanti, sarebbero soggetti ad alterazioni che potrebbero provocare irritazioni, infiammazioni, infezioni della pelle, mettendo a rischio la nostra salute.

Fra i conservanti più criticati vi sono i «parabeni». In commercio si trovano cosmetici che affermano di esserne privi, lasciando intendere che tali prodotti  siano più sicuri di quelli che li contengono. È bene precisare che la definizione non è fondata su presupposti scientifici ma è solo una scelta di marketing; fra l’altro un claim del genere “senza parabeni” non è ammesso in quanto denigratorio di una classe di ingredienti autorizzati per legge e quindi lecitamente impiegati senza alcun rischio per il consumatore.

La qualità del colostro nella gestione della vitellaia

Il colostro è il primo secreto della ghiandola mammaria dei mammiferi dopo il parto. Si presenta come un liquido denso di colore giallastro con un contenuto di sostanza secca che mediamente è del 23,9%, pari al doppio rispetto al latte bovino (Hammon et al., 1987). Il colostro è completamente diverso rispetto al latte in quanto, la sua composizione è caratterizzata da principi nutritivi particolari.

Il colostro svolge tre principali funzioni:

  1. funzione immunizzante dovuta all’elevato contenuto di Immunoglobuline (Ig);
  2. funzione energizzante dovuta a un alto contenuto di Lipidi e di Vitamine liposolubili;
  3. funzione lassativa causata da un’elevata concentrazione del Magnesio.

La principale e fondamentale funzione del colostro è quella del trasferimento dell’immunità passiva dopo il parto in quanto il vitello nasce agammaglobulinico e quindi privo di un proprio sistema immunitario attivo. Questo avviene perché la placenta dei ruminanti è di tipo epitelio-coriale e quindi molto selettiva; infatti, non permette il passaggio degli anticorpi dalla madre al feto durante la gravidanza. Ulteriore fattore che rende difficoltoso il trasferimento dell’immunità passiva è la necessità di somministrare il colostro al vitello entro le prime 6 ore di vita (D. lgs. 126/2011). Il Vitello alla nascita presenta una mucosa enterica immatura, infatti, solo in questo momento, presenta la capacità di assorbire molecole di grandi dimensioni come le immunoglobuline colostrali. Con il passare delle ore questa capacità assorbente si esaurisce progressivamente fino a svanire completamente già dopo il primo giorno di vita. Anche questo aspetto diventa quindi un fattore limitante. É doveroso ricordare che solo il primo secreto della ghiandola mammaria può essere denominato colostro, in quanto già dalla seconda mungitura, il prodotto presenta una composizione diversa dal colostro e, questo liquido, viene chiamato latte di transizione.

La quantità somministrata deve essere di almeno 3 litri entro le prime 6 ore e almeno il 10-12% del peso vivo del vitello entro le 12 ore. Prima della somministrazione del colostro, è molto importante valutarne la qualità, che viene misurata in termini di concentrazione delle immunoglobuline. La densità del colostro deve risultare di almeno 50 g/L di immunoglobuline per avere effetti positivi sul vitello (Gottardo et al., 2020). Un colostro di buona qualità dovrebbe garantire almeno 150 g/L di Ig e, proprio per questo motivo, è molto importante misurarne la concentrazione con strumenti facili da usare ed economici quali il colostrometro o il rifrattometro in scala Brix (Ruminantia, 2022).

Il mancato trasferimento dell’immunità passiva (FPT – Failure of Passive Transfer), può portare un’elevato rischio di mortalità nei vitelli entro le prime due settimane di vita variabile tra l’8 e il 25% (Raboisson et al., 2016). L’insieme di questi accorgimenti gestionali garantisce l’incremento della redditività aziendale, infatti, si stima che il mancato trasferimento dell’immunità passiva comporta un impatto economico rilevante, stimato in 80 € per vitello in allevamento di vacche da latte (Raboisson et al., 2016).

Video suggeriti

I referendum sulla giustizia

Aprile 2022

Nel prossimo mese di giugno gli elettori italiani saranno chiamati alle urne per una consultazione referendaria incentrata sul tema della giustizia. Consultazione che è stata preceduta da un dibattito politico incentrato più sulle tre proposte referendarie bocciate dalla Corte costituzionale – proposte di forte impatto mediatico come eutanasia, legalizzazione della cannabis e responsabilità civile diretta dei magistrati – che sui cinque quesiti ammessi alla consultazione. L’autrice di questo articolo, Maria Giovanna D’Amelio, ci guida quindi alla scoperta di questi cinque referendum abrogativi, spiegandone in termini chiari i contenuti e le implicazioni pratiche in caso di approvazione.

Per approfondire

L’impatto del Pnrr sugli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 dell’ONU

Aprile 2022

Il modello di sviluppo delineato nei piani della Commissione europea attraverso il programma “Next Generation EU” (NgEU) e il precedente “European Green Deal” è fortemente ispirato ai contenuti dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Di conseguenza, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) approntato dal Governo italiano nel quadro del NgEU è improntato al concetto di sostenibilità, declinato nelle sue componenti sociali, economiche e ambientali,  

In questo articolo di Olimpia Capobianco e Simona Diani andiamo quindi alla scoperta di questo importante aspetto del Pnnr, che lega la ripresa del nostro Paese e al più ampio destino della comunità mondiale.

L’articolo arricchisce il corso Società futura. Tutte le informazioni sul corso sono disponibili nel nostro catalogo online.

Una riflessione per un insegnamento dell’arte secondo una prospettiva di genere

Abbiamo ormai compreso come non sia da considerarsi neutro il racconto ininterrotto di profili maschili che, per anni, svolgiamo nelle classi quando insegniamo storia, letteratura, filosofia o storia dell’arte e di come, al contrario, possa essere molto condizionante a livello di percezione di sé e delle proprie capacità. Si tratta di una prospettiva che è importante, se non doveroso, correggere per il pericoloso insegnamento implicito che veicola.

Il punto è come correggere questa parzialità. La tentazione è spesso quella di cercare di integrare presenze femminili, anche a costo di andare a riscoprire personalità modeste, artiste dilettanti di scarso spessore, meritevoli solo d’averci provato – il che, soprattutto in determinati momenti storici, non è certo poca cosa – ma forse più rilevante a livello di biografia che non di professione. Così facendo, il rischio è di avallare l’idea, il bias cognitivo per usare un’espressione oggi molto usata, che la ragione per cui mancano donne è perché queste non siano di fatto in grado di creare grande arte.  

Allora ha forse più senso raccontare le ragioni di queste assenze, ovvero restituire il contesto, il sistema escludente che caratterizzava il mondo dell’arte: scuole, accademie e concorsi erano di fatto chiusi alla donne, e con loro il riconoscimento professionale, un titolo senza il quale non era possibile accedere alle committenze più prestigiose e remunerative. Ma non era solo questo, prima ancora c’erano da superare le resistenze che l’ambiente (la famiglia, la società) imponeva, un condizionamento che agiva in modo più subdolo, rispetto ai divieti manifesti delle Accademie, e quindi più difficile da affrontare.

Ovunque si ripeteva che era sbagliato per una donna avere ambizioni, in tal senso anche la religione rafforzava l’insegnamento proponendo come modelli da imitare ed esempi di virtù donne (prime tra tutte Maria) modeste, ubbidienti e silenziose votate al sacrificio. L’ambizione, la determinazione, l’entusiasmo nel promuovere il proprio lavoro erano considerati pregi da ammirare in un uomo, ma pericolosi segnali di arroganza, presunzione in una donna. L’applicazione alle arti non era sconsigliata, anzi, purché rimanesse nell’ambito del dilettantismo, purché non disturbasse le persone che la donna aveva attorno in famiglia, purché non la distogliesse dalla sua unica e vera vocazione: l’accudimento e la cura. 

Basterà forse ricordare che per Berthe Morisot, appartenente al gruppo Impressionista fin dalla prima esposizione, era davvero difficile fare quello che, con assoluta disinvoltura e facilità, facevano i colleghi maschi, ovvero la pittura en plein air che, non dimentichiamolo, costituiva uno dei tratti più caratteristici della ricerca formale del gruppo. Uscire da sole, gironzolare per la città durante il giorno per cercare e dipingere scorci interessanti della Parigi dell’epoca – e darsi quindi l’occasione per confrontarsi con la descrizione della luce e dell’eccitante frenesia della folla lungo i boulevard o nei tanti caffè e locali – era considerato, nella migliore delle ipotesi, altamente sconveniente.

Anche la partecipazione ai vivaci e stimolanti dibattiti sull’arte era per lei molto difficile: i ritrovi al caffè Guerbois – scelto dai colleghi come luogo informale di ritrovo, in dichiarata opposizione all’ufficialità degli spazi  dell’Accademia – non erano adatti a una signora, soprattutto se priva dell’accompagnamento del marito o di un familiare, quale garanzia di rispettabilità. Eppure l’artista non si è scoraggiata, la sua determinazione, insieme alla fortuna di aver sposato un uomo illuminato le permisero di superare qualche ostacolo: settimanalmente la sua casa si apriva a ricevimenti (come facevano le signore da bene della società del tempo), che però nel suo caso erano più riunioni di lavoro, in cui discutere d’arte, valutare strategie e sedi espositive ecc… 

https://www.hubscuola.it/hub_art/#/dettaglio/21685 

Il caso di Morisot non è certo caso isolato. Sofonisba Anguissola, Angelika Kaufmann, Rosalba Carriera, Rosa Bonheur, per citarne solo alcune, sono esempi che singolarmente ci raccontano la ragione di una così evidente assenza femminile nel mondo dell’arte: alle donne era richiesto, e ad alcuni livelli lo è ancora oggi, un carattere di eccezionalità, sconosciuto agli uomini; le donne dovevano essere eccezionalmente dotate, eccezionalmente determinate e anche fortunate nel trovare, almeno nella prima cerchia di familiari e amici, degli alleati su cui contare…il diritto alla mediocrità era solo degli uomini a cui bastava essere sufficientemente motivati per avere accesso, senza intoppi o fatiche, a un sistema di formazione e, conseguentemente, di un riconoscimento professionale. 

Negli anni, lo studio di specialisti e la ricerca d’archivio hanno permesso riscoperte importanti, basti pensare al lavoro fondamentale di Lea Vergine nel restituirci l’opera di artiste di assoluto interesse nell’ambito delle Avanguardie storiche, e al lavoro che ancora oggi musei e istituzioni conducono nell’approfondire lo studio e la promozione di artiste che per decenni sono state ignorate dal sistema dell’arte. Un caso recente è quello di Regina Cassolo Bracchi (1894-1974) scultrice attiva nelle fila del secondo Futurismo e poi, negli anni del Dopoguerra, nel MAC (Movimento Arte Concreta), che lo scorso anno ha avuto una personale alla Gamec di Bergamo in collaborazione con il Centro Pompidou che, contestualmente ospitava l’esposizione “Elle font l’abstraction”.

La ricerca di Regina Bracco veniva definita al tempo, non senza imbarazzo, un “certo cubismo domestico” nei circoli maschili dell’avanguardia italiana. Eppure sono molti i primati che oggi non esitiamo a riconoscerle, non solo in quanto prima scultrice d’Avanguardia, ma anche e soprattutto per le soluzioni formali, per l’individuazione di materiali non convenzionali, per le modalità espositive. Troviamo infatti un precoce utilizzo del plexiglas che l’artista fa giocare con la luce o la scelta di sospendere l’opera ed esplorare le sue variazione di movimento, come i ben più celebri mobile di Calder.

Tuttavia il pregiudizio nei confronti delle donne distorce la percezione del loro lavoro anche quando si tratta di contributi di notevole originalità e interesse come quello di Regina, e fa sì che vengano utilizzati aggettivi come “intimo, delicato, femminile, domestico” appunto per qualificarne le opere, ricacciandole così nell’ambito del dilettantismo. Si tratta di un pregiudizio così radicato e pervasivo da essere condizionante anche per donne che hanno una percezione lucida del proprio valore. Ne risultò condizionata Regina stessa, e la cosa non ci stupisce agendo lei in un’epoca ancora lontana da una diffusa coscienza di genere: non ebbe mai un suo studio, uno spazio da dedicare al proprio lavoro e alla propria ricerca, che interpretò e adattò, forse proprio per cercare di superare le limitazioni concrete che incontrava quotidianamente, inventando un tipo di scultura che riprendeva, nelle modalità esecutive, i procedimenti della sartoria (le sculture in fogli di alluminio venivano immaginate e pianificate con l’esecuzione di veri e propri cartamodelli tridimensionali tenuti insieme da spilli). 

Pensando quindi all’insegnamento dell’arte nelle scuole, quindi, potrà essere utile intervenire su due fronti: da un lato ricostruendo il contesto limitante con cui dovevano necessariamente confrontarsi le artiste, dall’altro mostrando il lavoro di artiste di indiscusso valore, magari soffermandosi a sottolineare gli elementi contestuali che hanno consentito loro una maggiore libertà di scelta e autodeterminazione e caratteriali grazie ai quali non sono state scoraggiate da un sistema culturale e sociale a questo indirizzato. 

Breve bibliografia di riferimento per approfondire

  • Nochlin L., Perché non ci sono state grandi artiste? (1977)
  • Vergine L., L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, 1980
  • Trasforini M.A. (a cura di), Donne d’arte. Storie e generazioni, 2006
  • Trasforini M.A., Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità, Bologna: Il Mulino, 2007
  • AA VV, Regina Cassolo Bracco, catalogo della mostra, Gamec 2021

Rifletto, analizzo e valuto! L’autovalutazione nella didattica di tutti i giorni

Nell’ultimo anno si è fatto un grande parlare di valutazione; con il passaggio dai voti in decimi ai giudizi descrittivi si è spostata l’attenzione dalla semplice valutazione di quantità di informazioni acquisite, in favore del processo mediante il quale si apprende.

Con questo cambiamento diventa sempre più importante coinvolgere gli alunni e le alunne nel processo di valutazione tramite specifici momenti dedicati all’autovalutazione.

Molto importante è cambiare la percezione che si ha dell’errore, che fino ad oggi ha rivestito un ruolo negativo e penalizzante. Dobbiamo invece proporre un nuovo modello di pensiero nel quale l’errore è la dimostrazione che abbiamo ancora strada da percorrere: del lavoro da fare.

Thomas Edison prima di inventare la lampadina fece molti esperimenti che fallirono. In merito a questi errori di percorso disse: “Non ho fallito. Ho solamente provato 10.000 metodi che non hanno funzionato”.

Ecco, nel superamento dell’idea dell’errore come qualcosa di negativo, il metodo scientifico sperimentale ha molto da insegnarci e può essere utilizzato come termine di paragone.

Nel video “Il metodo scientifico” sul canale di HUB SCUOLA al minuto 2:28 viene proposto uno schema riassuntivo di questo metodo dove, nel caso l’ipotesi non venga confermata si prevede di ricominciare l’esperimento con un altro approccio, mentre nel caso l’ipotesi venga confermata si prevede di continuare ad approfondire l’argomento ciclo dopo ciclo, andando in profondità delle cose.

Questo approccio lo possiamo proporre anche alle bambine e ai bambini. Ad un certo punto del percorso possiamo chiedere loro di fermarsi, osservare cosa stanno facendo, come stanno studiando, se questo metodo è efficace. Possiamo chiedere loro di fare un’ipotesi su quello che sarà il risultato della verifica o dell’interrogazione. Al termine della prova potremo chiedere loro di osservare il risultato e di decidere se il percorso fino a quel momento è stato efficace oppure se hanno bisogno di fare dei cambiamenti nel proprio metodo di studio.

Per aiutare le bambine e i bambini a comprendere meglio il valore positivo dell’errore abbiamo deciso di proporre la lettura del libro “La cosa più grandiosa” di Ashley Spires. In questa storia una bambina cerca di costruire una cosa che ha in mente (fino alla fine non ci viene svelato di cosa si tratta) e si scontra con problemi di valutazione, di montaggio, di proprietà dei materiali e di mancanza di conoscenze adeguate.

Affronta emozioni come la frustrazione e la rabbia. In questo suo percorso però dimostra coraggio, determinazione, creatività e il desiderio di trovare soluzioni; non si ferma perché ha sbagliato, anzi riparte dagli errori per trovare la soluzione.

Alla lettura di questo libro abbiamo affiancato la realizzazione di una ruota per autovalutare il proprio percorso di apprendimento. La ruota presenta quattro faccine, tutte con diversi gradi di positività, che di fatto sostituiscono i quattro giudizi descrittivi: in via di prima acquisizione, base, intermedio e avanzato.

L’obiettivo è quello di utilizzare questo strumento per valutare ogni percorso che si sta facendo, dall’apprendimento della letto-scrittura, allo studio delle tabelline e di qualsiasi altro argomento, in modo da aiutare le bambine e i bambini a visualizzare fin da subito l’apprendimento come un percorso piuttosto che come un punto di arrivo.

Il video qui proposto è suddiviso in tre parti:

  • prima parte: lettura e interpretazione della storia;
  • seconda parte: presentazione del template “Rifletto, analizzo e valuto!”;
  • terza parte: video tutorial con i passaggi per realizzare il template “Rifletto, analizzo e valuto!”.

Video

MATERIALI AGGIUNTIVI

 

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

La storia della scienza in laboratorio

Nessuno penserebbe di insegnare l’arte o la letteratura svincolandole dal periodo storico e dal contesto culturale nel quale si sono sviluppate, mentre nelle scienze le conoscenze acquisite nel passato vengono solitamente considerate obsolete e trascurabili. Si dirà che le scienze sono per loro natura dinamiche e questo è vero, ma mettere in risalto quali siano state le concezioni scientifiche nei secoli scorsi, le verità anche parziali o gli errori commessi, aiuta gli studenti a costruirsi un’immagine meno dogmatica della scienza. Inoltre, mostrare l’evoluzione delle idee scientifiche permette di far conoscere a studenti e studentesse la fondamentale importanza della scienza per il progresso dell’umanità e il duro lavoro di scienziati e scienziate nel raggiungere i loro obiettivi. Inserire nella trattazione degli argomenti la storia delle scienze permette, a vari livelli, di chiarire questioni di epistemologia e i rapporti tra scienze e filosofia, senza i quali le scienze stesse apparirebbero assai più estranee al pensiero umano.
Come docenti, non si tratta di appesantire la programmazione del curricolo, ma di implementare in ogni fase dell’insegnamento interrogativi sulla storia della conoscenza dell’argomento oggetto di studio.

Nel libro di testo Tra le dita – scienze da esplorare diverse lezioni seguono un’impostazione di tipo storico; prendiamo per esempio l’unità sulla struttura e dinamica della Terra nella quale si parte dalle prime idee mobiliste di Wegener (1915), per arrivare all’espansione dei fondali oceanici (anni Sessanta del secolo scorso) fino al modello della tettonica delle placche (1965). Quest’ultimo è giustamente definito il “modello globaledelle scienze della Terra: una vasta serie di fenomeni geologici, dai vulcani ai terremoti, dall’orogenesi all’espansione dei fondali oceanici, può essere infatti spiegata facendo ricorso a esso. Perciò è importante che venga ben compreso dagli studenti.

Per introdurre l’argomento e catturare l’interesse degli studenti, si propone l’immagine di un mappamondo molto particolare nel quale i continenti appaiono riuniti insieme in un unico “supercontinente”. Esso rappresenta la superficie terrestre come si presentava durante il Mesozoico, circa 290 milioni di anni fa (Fig. 1). A partire da questo engage gli studenti si interrogano su come sia stato possibile passare dalla disposizione delle terre e dei mari rappresentata su questo globo a quella attuale e su quali forze potrebbero avere agito nello spostare i continenti.

Poi si propone agli studenti un’attività investigativa affinché possano rispondere alla prima domanda. Dovranno ritagliare le sagome dell’Africa e dell’America del Sud, per poi constatare come le coste del Brasile e del Golfo di Guinea sembrino combaciare, come le tessere di un puzzle (Fig. 2).

 
Figura 2

La stessa osservazione fece Wegener che, a proposito della sua teoria della deriva dei continenti, scrisse: “Nel 1910, nell’esaminare la carta geografica dei due emisferi, ebbi l’impressione immediata della concordanza delle coste atlantiche, ma ritenendola improbabile non la presi per allora in considerazione”.

Sappiamo che la teoria di Wegener, pur basandosi su una serie di prove indirette, fu molto criticata dai geologi del tempo: come era possibile, infatti, che le enormi masse continentali si spostassero sui fondali oceanici solidi? La teoria non dava una spiegazione convincente di tale meccanismo. A quell’epoca non c’erano ancora strumenti in grado di fornire prove inconfutabili a sostegno di questa ipotesi. Wegener morì nel 1930 durante una spedizione in Groenlandia, alla ricerca di ulteriori prove, e non fece in tempo a vedere che la sua ipotesi su una crosta terrestre attiva, in movimento, sarebbe stata riconosciuta dalla comunità scientifica e che avrebbe posto le basi della teoria della tettonica delle placche.   

Le scienze della Terra si avvalgono spesso di modelli, come quello della tettonica delle placche, che rappresentano il tentativo di “farsi un’idea plausibile” di un oggetto non direttamente indagabile; essi sono in continuo perfezionamento e a volte, come per la teoria della deriva dei continenti, un modello deve essere abbandonato e sostituito da un altro più coerente con i nuovi dati emersi dalle ricerche. 

Un’altra attività di modellizzazione, propedeutica all’attività investigativa sul “modello globale”, è la costruzione di un modello bidimensionale in scala dell’interno della Terra con i suoi diversi involucri, utilizzando cartoncini di colori diversi per indicare i diversi strati individuabili all’interno della Terra (Fig. 3).

Figura 3

Nel realizzarlo, gli studenti si rendono conto di come la crosta sia molto più sottile rispetto agli altri due involucri del pianeta e potranno comprendere meglio il modello della tettonica delle placche che si basa sul movimento delle zolle le une rispetto alle altre. 

A completamento del percorso, di cui in questo articolo sono stati dati solo alcuni flash, si può proporre una prova di competenza che permette di aggiungere qualche altro tassello all’argomento trattato, oltre che fornire un feedback sui livelli di competenze raggiunti da ragazze e ragazzi (Fig. 4).

 
Figura 4

PER APPROFONDIRE

Matescienze LiveLa storia della scienza in laboratorio, Ernesta De Masi e Giulia Forni

SCOPRI L’OPERA

  •  Tra le dita- Scienze da esplorare, di A. Alfano, V. Boccardi, E. De Masi, G. Forni – Fabbri Editore – Rizzoli Education, 2022 – Testo di scienze per la scuola secondaria di primo grado