Gli insilati nella dieta per ruminanti

Gli insilati sono foraggi con elevato contenuto di acqua che, grazie a fermentazioni controllate, possono essere conservati per lungo tempo. Questa caratteristica garantisce all’allevatore un’indipendenza dal mercato mangimistico per l’approvvigionamento periodico delle materie prime per la preparazione della razione alimentare.

I foraggi insilati uniscono il valore nutritivo dei cereali, ricco di amidi e zuccheri fermentescibili, con l’elevata presenza di fibra degradabile. I ruminanti, grazie alla presenza di una ricca fauna microbica nei prestomaci, sono in grado di utilizzare le fibre indigeribili dei vegetali e trasformarle in principi nutritivi ad alto valore biologico.

Il crescente interesse verso la coltivazione dei cereali autunno-vernini, graminacee foraggere, cereali foraggeri e leguminose da foraggio per l’insilamento, può comportare vantaggi sia da un punto di vista agronomico che di miglioramento dell’efficienza digestiva.

La possibilità di coltivare questi foraggi a livello aziendale può implementare l’efficienza produttiva nella gestione agronomica dei terreni aziendali. Questo perché l’utilizzo dei suoli coltivati con le suddette coltivazioni, avviene durante il periodo invernale-primaverile ovvero, in un momento solitamente di riposo dei terreni rispetto alle colture estive (mais e soia).

Le colture foraggere da insilato primaverile sono prevalentemente rappresentate da orzo, frumento, graminacee da foraggio (Lolium spp.) e miscugli foraggeri (graminacee, graminacee più leguminose). Le graminacee e le leguminose da foraggio vengono raccolte previo pre-appassimento in campo, al fine di poter ottenere un ottimo compromesso tra quantità di sostanza secca prodotta e qualità del foraggio. I cereali autunno vernini, invece, possono essere raccolti in diverse epoche attraverso l’appassimento o con raccolta diretta nel momento di maturazione idonea delle cariossidi. La differenza tra queste due colture prevede di ottenere rese produttive diverse. Le graminacee da foraggio prevedono rese al raccolto comprese tra 4 e 6 tonnellate per ettaro (t/ha) mentre per i cereali vernini il range è molto più ampio ed è compreso tra le 5 e le 13 t/ha in funzione della scelta dell’epoca di raccolta (Borreani et al., 2021).

L’utilizzo di colture invernali-primaverili, inoltre, permette di diminuire i consumi di acqua e di prodotti fitosanitari e di ridurre notevolmente il carbon footprint con notevoli vantaggi per l’impatto ambientale. Per assicurare la buona conservazione di questi prodotti bisogna assicurare un buon decorso fermentativo ponendo particolare attenzione al contenuto di sostanza secca alla raccolta (> 30%) e alla scelta dei tempi di appassimento in campo (24-48 h). Nei casi in cui la sostanza secca totale non superasse il 30%, è consigliato utilizzare gli inoculi batterici al fine di controllare in modo più efficiente le fermentazioni al fine di ridurre al massimo le fermentazioni butirriche ed ottenere un prodotto finale di elevata qualità.

L’uso di insilati da coltivazioni foraggere autunno vernine permettono di ottenere vantaggi sotto molteplici aspetti, quali l’efficienza digestiva, il miglioramento del benessere animale, l’efficienza agronomica, la riduzione dell’impatto ambientale e il miglioramento della redditività aziendale.

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Piega, spiega e scopri: 3 attività di matematica da proporre con il foglio delle pieghe del completo estivo origami

Cosa proporre negli ultimi giorni di scuola quando la stanchezza e il caldo iniziano a farsi sentire? Ovviamente attività interessanti e coinvolgenti, ma anche utili per consolidare gli argomenti già affrontati o per esplorare in maniera ludica nuovi aspetti da approfondire successivamente.

La proposta didattica di questo articolo riguarda un colorato completo estivo origami, da realizzare con poche e semplici pieghe.

Uno degli aspetti interessanti degli origami è la varietà delle attività che posso essere proposte a partire da un foglio di carta. Ogni modello può essere analizzato da più punti di vista e in diversi momenti. Si possono fare osservazioni mentre si piega, sul modello finito o sul foglio delle pieghe, il crease pattern, che si ottiene riaprendo il modello origami dopo l’ultima piega. Si possono osservare le diverse figure geometriche che si formano tra le pieghe, la loro area, il loro perimetro, i loro lati o i loro angoli, ecc.

Come gli altri modelli, anche il completo estivo origami, offre diversi spunti didattici. In particolare, in questo articolo, ci soffermeremo sul crease pattern, esplorando le possibili domande da rivolgere ai bambini.

Il completo estivo origami

Per realizzare il completo estivo (scarica le istruzioni) si consiglia di utilizzare un foglio origami bicolore (già pronto o da realizzare colorando in modo diverso le due facce del foglio) in modo tale da differenziare il colore della maglietta da quello del pantaloncino.

Dopo aver effettuato l’ultima piega, riapriamo delicatamente il foglio fino a tornare al quadrato di partenza e ripassiamo con un colore le pieghe visibili: otterremo il crease pattern allegato.

Vediamo ora quali particolarità nasconde il crease pattern del completo estivo.

Possiamo iniziare osservando e classificando le diverse forme.

In quante figure è suddiviso il foglio? Quali figure geometriche riconosci? 

Il quadrato iniziale è ora suddiviso in 20 figure geometriche: 2 rettangoli, 2 quadrati e 16 triangoli (4 triangoli rettangoli scaleni e 12 triangoli rettangoli isosceli). Si può chiedere di colorare le diverse figure geometriche con colori differenti (es. giallo = triangolo, rosso = quadrato, blu = rettangolo). 

Spostiamo ora l’attenzione sulla superficie delle diverse forme.

Quali figure occupano la stessa superficie? 

È interessante osservare che ci sono due triangoli non equiestesi e che ci sono figure differenti (es. triangolo rettangolo scaleno e quadrato) che hanno la stessa area. Colorando con lo stesso colore le figure equiestese emergeranno tre diverse aree che potremmo esprimere anche sotto forma di frazione: rettangolo 1/8, quadrato e triangolo rettangolo scaleno 1/16, triangolo rettangolo isoscele 1/32. La particolarità di questo crease pattern riguarda anche il rapporto tra le aree delle diverse figure: l’area del quadrato è il doppio di quella del triangolino e la metà di quella del rettangolo. Assegnando ad ogni figura la relativa frazione, è possibile effettuare anche delle semplici addizioni tra frazioni con l’aiuto del supporto visivo: una figura creata unendo un quadrato e un rettangolo corrisponde, ad esempio, a 3/16 del quadrato iniziale, ovvero 1/16 + 1/8.

Possiamo infine ritagliare le diverse forme del crease pattern e utilizzarle come tessere di un puzzle per comporre altre figure.

Il quadrato iniziale, il castello, il cono e la barca sono figure equiestese?

Dopo aver ritagliato il crease pattern, i bambini utilizzano tutte le forme geometriche per comporre ogni figura (vedi allegato). Oltre ad essere una sfida divertente, giocando i bambini potranno constatare che le varie figure occupano la stessa superficie perché equiscomponibili. 

Gli spunti didattici non si esauriscono qui: si può continuare a giocare con il completo estivo origami esplorando la simmetria nel crease pattern o nel modello finito oppure divertirsi con il calcolo combinatorio scoprendo quanti completi differenti si possono creare con tre diversi colori (es. rosso, giallo e blu) e come posizionare il foglio di partenza per ottenere la maglietta e il pantaloncino di un determinato colore.

Buone pieghe e buon divertimento!

Per una didattica a colori

Per parlare del tema di questo mese abbiamo deciso di mettere mano allo strumento più studiato e meno conosciuto dell’Universo: il cervello.

Secondo un articolo non più recentissimo, pubblicato su Nature Neuroscience nel 2012, la scienza ci può dire con estrema precisione se e quanto siamo inclusivi.

Procediamo con ordine.

In un esperimento curato dal team di Elizabeth A Phelps della New York University, è stato analizzato il cervello di un buon numero di persone in seguito alla visione di alcune foto riguardanti volti di etnie differenti.

Conclusione: quando venivano mostrate foto con volti diversi dalla propria etnia, nel cervello si attivava l’area “della paura”. Si tratta di una semplificazione, ovviamente, ma la sostanza è questa: il nostro cervello sembra essere stato programmato per essere decisamente poco inclusivo.

Prima di dichiararci sconfitti e cambiare mestiere, però, è bene considerare la seconda fase dell’esperimento.

Phelps e il suo team hanno condotto la stessa prova ma, questa volta, mostrando volti di personaggi famosi. Il risultato in questo caso è stato molto diverso. Le nuove foto hanno prodotto nel cervello effetti molto più rassicuranti, dimostrando alcune evidenze che ci portano a parlare del lavoro che svolgiamo quotidianamente a scuola.

La ricerca del 2012 ci dice che il nostro cervello si è evoluto in un’epoca lontanissima e violenta, quando la diversità era associata a “clan” ostili. Allo stesso tempo, però, si è saputo adattare alle sollecitazioni della modernità dimostrando di saper definire come “conosciuto” anche chi non appartiene alla nostra stessa etnia.

Il lavoro di tutti i giorni, in questo senso, è fondamentale perché allarga il confine di questo ambito conosciuto: non solo il calciatore famoso o l’attore e l’attrice, ma anche il vicino di banco, la sua famiglia e potenzialmente qualsiasi persona.

Le neuroscienze confermano, semmai ce ne fosse bisogno, che l’inclusione non è un’opzione, ma una necessità sociale e una scelta culturale da praticare giorno per giorno.

E giorno per giorno abbiamo l’impegno di educare alle differenze. 

Non solo cromatiche, ovviamente. 

Differenze, appunto, non diversità. 

Si è diversi quando c’è uno standard di riferimento considerato “normale”. La diversità vuole la preposizione “DA”.

Si è differenti , invece, tutti e tutte; le differenze sono normali TRA le persone, NEL gruppo. 

Una questione di preposizioni che cela una grande questione educativa. 

La vera inclusione è quella che parte dalle differenze: a scuola è quella che si pratica con lo Universal Design for Learning. 

Una didattica pensata per tutti e per tutte, universale, appunto. 

Colorata, certo: una didattica a colori, per poter soddisfare tutte le sfumature presenti nel nostro dipinto-classe. 

La didattica a colori, da oggi la chiameremo così, è quella che:

  • organizza bene l’ambiente di apprendimento, immaginando ogni possibile bisogno durante l’attività;
  • mette in campo una buona ridondanza di risorse e materiali, che i bambini e le bambine gestiranno in modo libero e autonomo, in base alle esigenze e alle curiosità;
  • propone compiti e progetti aperti, di senso, stimolanti, che non prevedano una unica “soluzione giusta”, ma che possano essere svolti in tanti modi diversi, ciascuno sfruttando le proprie potenzialità e i propri interessi;
  • fa leva sulla creatività e sul pensiero divergente: parte da un percorso comune di conoscenze e abilità, ma invita ciascun bambino e ciascuna bambina a inventare combinazioni cromatiche differenti per mettere in campo soluzioni e idee, per diventare più competenti.

La didattica a colori richiede maestria, da parte nostra. Ma in fondo, siamo maestri e maestre: è la nostra sfida!

 

ProbabilMente: Scratch! e il caso

Ragionare sull’incerto

Quando si introducono gli studenti alla probabilità, è sempre bene tenere a mente un fatto: ragionare di probabilità è difficile. Non si tratta solamente dell’impressione di chi scrive o di quella dei molti che si cimentano nell’impresa, ma è la conclusione a cui sono giunti negli anni numerosi studi, svolti principalmente allo scopo di indagare il modo in cui prendiamo decisioni in situazioni incerte. Psicologi del calibro di Daniel Kahneman (Premio Nobel per l’economia nel 2002 proprio per l’impatto dei suoi lavori in ambito economico), Amos Tversky e Gerd Gigerenzer hanno fornito spiegazioni diverse: se da un lato i primi due sostengono l’ipotesi secondo cui, per natura, la mente umana sia poco adatta al ragionamento probabilistico e invece maggiormente incline al pensiero intuitivo, l’ultimo punta invece il dito contro la nostra ignoranza in materia.

Una competenza cruciale

Qualunque sia la spiegazione, è però evidente che saper riconoscere e limitare l’influenza delle fallacie dell’intuizione in situazioni incerte è una competenza essenziale per un cittadino: saper gestire razionalmente la probabilità serve a interpretare dati ed informazioni oltre che a orientare attivamente le proprie decisioni in scenari aleatori. Diventa quindi particolarmente opportuno togliere alla probabilità quel ruolo di Cenerentola della programmazione disciplinare ed evitare di riservarle quello di prima vittima sacrificale in caso di imprevisti o ritardi.

Prendere il toro per le corna

Un nodo cruciale rimane dunque come portare alla luce queste difficoltà senza spaventare gli studenti che incontrano la probabilità al termine del primo ciclo, per i quali la capacità di astrazione è spesso ancora non completamente costituita. Si tratta più che altro di preparare il terreno a quello che poi dovrà essere formalizzato più sistematicamente in studi superiori, cercando di costruire un’idea di probabilità priva di misconcezioni e provando tuttavia a non nascondere le difficoltà che emergono nel trattare tali argomenti.

Un modo per farlo potrebbe essere proprio prendere il toro per le corna ed esporre deliberatamente gli studenti a problemi dai risultati sorprendenti e controintuitivi, che, se opportunamente presentati, possano alimentare la convinzione che una trattazione ragionata dei fenomeni aleatori sia tanto utile quanto necessaria. Non si tratta ovviamente solo di motivare l’apprendimento, ma anche di esporre sin da subito le insidie di cui è costellato il tema.

Il ruolo del coding con Scratch!

In un percorso di questo genere, un linguaggio di programmazione come Scratch! può rappresentare uno strumento efficace per comprendere problemi poco intuitivi oppure per costruire esperimenti aleatori di una certa complessità, la cui trattazione formale può essere fuori dalla portata degli studenti.

Un esempio: passeggiate aleatorie

Si consideri un semplice programma che fa avanzare il gatto di Scratch! muovendosi dalla sinistra la verso destra dello schermo, sulla base dell’esito del lancio di una moneta non truccata: se esce testa il gatto compie un passo verso destra e uno verso l’alto, se esce croce il gatto compie un passo verso destra e uno verso il basso. Questo fa sì che il gatto disegni una traiettoria (che tecnicamente rappresenterebbe una cosiddetta passeggiata aleatoria monodimensionale) a partire dalla quale si possono formulare tantissime domande.

Una serie di passeggiate aleatorie generate con Scratch! a partire da uno stesso punto.

Per esempio: quando il gatto raggiungerà la destra dello schermo, di quanto si sarà scostato verticalmente rispetto alla posizione iniziale? Non è difficile accorgersi che questo risultato cambia ogni volta che si lancia il programma e dunque che è opportuno costruire una statistica degli esiti osservati, magari con un diagramma a barre per visualizzarli meglio.

E le domande possono andare oltre: in media, qual è l’esito finale che ci si può attendere con maggiore probabilità? Come cambia il diagramma se cambiamo l’ampiezza dei passi (in verticale, in orizzontale, …)? Come cambia l’esito medio che ci si può attendere se la moneta è truccata?

Il codice Scratch! utilizzato per generare passeggiate aleatorie.

Questo semplice esperimento nasconde un sacco di questioni probabilistiche anche molto sottili e può essere occasione per discussioni estremamente profonde. Si pensi alla fallacia  dello scommettitore e quindi al condizionamento e all’indipendenza degli eventi, ma anche a diverse nozioni di probabilità (come quella classica e quella frequentista), ai concetti più sofisticati che vengono sfiorati (senza però essere insegnati) come quello di densità di probabilità, di valore atteso, di processo aleatorio, ecc.

Altri esempi

Scratch! consente di esplorare tanti altri problemi in cui la probabilità ha un ruolo.

Le passeggiate aleatorie, per esempio, possono essere anche bidimensionali (cioè il movimento casuale può non essere solo lungo la direzione verticale) e quindi avere un maggior numero di parametri su cui intervenire, facendo anche variare molto la tipologia di domande che ci si può porre (comprese quelle legate alla geometria delle trame disegnate).

Si può anche ragionare su giochi le cui spiegazioni teoriche sono alla portata degli studenti, come una semplice “gara” in cui i concorrenti avanzano sulla base dell’esito del lancio di due dadi (in fin dei conti, come succede in molti giochi da tavolo). Questa può essere l’occasione per introdurre diversi aspetti di coding, come per esempio l’invio di messaggi tra sprite e background.

L’esito finale di una “gara” basata sulla somma degli esiti del lancio di due dadi per 2911 volte: il 7 è vincitore.

Un bell’esempio di problema controintuitivo che si può simulare in Scratch! è il problema di Monty Hall, di cui si può trovare ampia trattazione sul web e per il quale emerge chiaramente quanto a volte sia difficile per noi intuire come gli eventi probabilistici possano dipendere gli uni dagli altri.

Per chiudere, vi propongo anche di esporre gli studenti all’utilizzo di Scratch! e della probabilità per applicazioni sorprendenti, come quella della stima delle aree (per approfondimenti si vedano a questo proposito il Metodo Monte Carlo).

Tutti questi esempi possono essere visti con diverso livello di profondità, sia dal punto di vista matematico che da quello di scrittura del codice. La sfida per il docente è sempre la stessa: trovare il giusto equilibrio. Questa può essere vinta solo conoscendo bene i propri studenti e cercando di trovare, come al solito, il giusto bilanciamento. Buona ricerca a tutte e a tutti!

Per approfondire

Live streaming:

Esempi di codici con esperimenti aleatori:

Approfondimenti:

Importanza e uso delle mappe concettuali

Quando parliamo di mappe, pensiamo a una rappresentazione grafica più o meno accurata di un territorio, che consenta di leggerlo e di orientarsi. Le mappe, tuttavia, possono anche rappresentare il nostro pensiero. Esse, infatti, si possono costruire per raffigurare il modo in cui ciascuno di noi organizza e rielabora le idee e per prenderne consapevolezza.

Le mappe che vengono maggiormente utilizzate in ambito scolastico sono quelle mentali e quelle concettuali. 

Le mappe concettuali, teorizzate da Joseph Novak negli anni Settanta del secolo scorso, rappresentano uno strumento utile alla realizzazione dell’apprendimento significativo, teorizzato da David Ausubel: un apprendimento capace di mettere in relazione le nuove conoscenze con quelle già possedute dal soggetto che apprende.

Ciò che caratterizza una mappa concettuale, infatti, è la possibilità di visualizzare i concetti chiave relativi a un certo argomento e i legami logici che li connettono.

Gli elementi che le costituiscono sono essenzialmente tre:

  • i nodi concettuali: sagome che descrivono i principali concetti presenti nel dominio di conoscenza della mappa, all’interno delle quali viene riportata una descrizione testuale più o meno sintetica;
  • le relazioni associative: archi di collegamento, in alcuni casi orientati, che rappresentano graficamente i legami fra i nodi della mappa;
  • le etichette: descrizioni che possono essere introdotte per precisare il significato delle relazioni.

(Alberto Scocco, Costruire mappe per rappresentare e organizzare il proprio pensiero)

La loro struttura è di tipo gerarchico-relazionale: le relazioni associative si diramano dai concetti più generali verso quelli più particolari, le etichette permettono di seguire o ricostruire un percorso o un ragionamento.

Una mappa concettuale riflette lo stile cognitivo del soggetto che la costruisce e permette di prendere coscienza dei processi messi in atto nella fase di organizzazione delle conoscenze. Il soggetto in questo modo impara ad imparare. “L’imparare è un processo personale e caratteristico dell’individuo” (J.Novak-D.B. Gowin, Imparando a imparare )

Le mappe concettuali possono essere utilizzate sia dal docente sia dallo studente e rappresentano veri e propri strumenti compensativi per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento.

 Se costruite dallo studente, permettono di:

  • organizzare  le informazioni secondo una propria strategia mentale;
  • mostrare i legami tra i diversi concetti individuati all’interno di un testo; 
  • favorire, attraverso la costruzione di nuovi legami, l’integrazione di nuove conoscenze con quelle già possedute;
  • recuperare le informazioni per l’esposizione orale o per la costruzione di un testo scritto;
  • stimolare la discussione all’interno di un gruppo per giungere alla “negoziazione di significati”(funzione sociale).

Se costruite dal docente, permettono di:

  • presentare in forma sintetica i concetti chiave di un argomento o di una lezione;
  • evidenziare i legami gerarchici e logici tra i diversi concetti;
  • riassumere e mettere a fuoco i concetti più importanti a conclusione di una o più lezioni.

Le mappe possono essere utilizzate anche nei libri di testo per visualizzare i concetti “chiave” di un argomento.

È con quest’ultimo intento che nel testo Tangram, alla fine di ogni unità, è stata inserita una mappa concettuale a cui è affiancata una pagina di ripasso con quesiti a cui è possibile dare una risposta interagendo con la mappa.

Per approfondire

  • Costruire mappe concettuali Strategie e metodi per utilizzarle nella didattica , Joseph D. Novak, Erickson, 2012
  • Costruire mappe per rappresentare e organizzare il proprio pensiero, Alberto Scocco, Franco Angeli, 2019

Scopri l’opera

  • Tangram, il nostro corso di matematica per la scuola secondaria di primo grado, di L. Ferri, A. Matteo, E. Pellegrini – Fabbri Editore – Rizzoli Education, 2020

L’arte di tutelare l’arte. Conoscere, tramandare e conservare il patrimonio artistico e culturale

L’espressione “beni culturali”, come sinonimo di patrimonio artistico e culturale, è stata adottata in Italia in tempi molto recenti. Solo dagli anni Sessanta del Novecento, infatti, parallelamente all’attenzione nei confronti dei capolavori – opere d’arte inestimabili quali la Vergine delle Rocce di Leonardo o il David di Michelangelo o la Rotonda di Palladio – ha cominciato ad imporsi l’interesse verso il tessuto connettivo delle testimonianze culturali. L’attenzione si è così spostata dal museo al territorio nella sua complessità urbanistica e culturale, ossia dal singolo pezzo, ben  documentato sui testi scolastici e sui libri d’arte, a quel ricchissimo reticolo di beni – la chiesetta medievale di provincia, l’edifico di una vecchia fabbrica abbandonata, il bel cancello in ferro battuto all’ingresso di una abitazione in rovina – che rende ineguagliabile l’intero territorio italiano, tanto da far sostenere  ad Antonio Paolucci, illustre storico d’arte, nonché ex ministro dei beni culturali e ambientali, che l’Italia è “un museo diffuso”.

Affinché la felice definizione del professor Paolucci possa però concretizzarsi nel virtuoso sentire ed operare dell’intera comunità è fondamentale compiere tre passi: conoscere il patrimonio, tramandarne il valore, industriarsi al fine di conservarlo.

È indubbio che, per avviarsi sulla strada della conoscenza, sia primariamente fondamentale la capacità di riconoscere, ossia essere in grado di individuare il valore di ciò che ci circonda, attribuendo la giusta importanza non solo ad oggetti d’arte contrassegnati da una didascalia o da apposita segnaletica, ma accogliendo con curiosità e consapevole rispetto ogni espressione che sia frutto di creatività e testimonianza della storia e della trasformazione dell’uomo e del suo ambiente.

Questo significa, ad esempio, guardare con occhi nuovi al tema del paesaggio, ma anche approcciare con un’analisi sociologica, oltre che artistica, la diffusa realtà dei borghi dipinti, nonché dare valore e spessore a un bene personale e collettivo quale la memoria che, pur non essendo un luogo fisico, è somma depositaria di storia, in grado di tramandare cultura ad ogni livello.

A guidare le nuove generazioni verso questa consapevolezza sarà la nostra capacità di tramandare il valore del patrimonio culturale dell’umanità, composto da beni materiali, immateriali e orali.

Silvestro Lega ha dipinto un quadro che ho sempre collegato all’ancestrale forza dell’insegnare, ossia del “lasciare un segno” per mezzo della narrazione e della parola. Nell’opera del pittore macchiaiolo, intitolata Educazione al lavoro, una bambina seduta sul piccolo sgabello guarda con incredibile concentrazione il volto della madre: non è solo il filo di lana a passare dalle mani dell’una alle mani dell’altra, ma probabilmente anche la trama di una storia che la donna regala alle orecchie attente e alla fantasia di sua figlia.

È un dipinto che piace al primo sguardo, che con immediatezza appaga l’occhio per la semplicità con la quale le persone e le cose si trovano riunite nella stanza pervasa dalla luce. Sarebbe però fortemente riduttivo fermarsi al primo sguardo, all’atto stesso del vedere, poiché credo che l’artista abbia davvero raccontato molto di più, dando forma con il pennello alla forza del tramandare con l’esempio e con la parola.

Parola da “parabola” che nasce dall’unione di “parà”, vicino, di fianco e “ballein”, gettare, lanciare: la parola, in quanto racconto e narrazione, deve essere parte di un progetto che crei ponti in grado di attivare fattivamente la comunicazione e la conoscenza.

In tutte le discipline, ma soprattutto in quelle d’ambito storico-artistico, è fondamentale creare questi ponti, ossia dei percorsi che, avvalendosi di competenze trasversali, permettano agli studenti di acquisire uno sguardo consapevole, attivo, informato su tutto quanto li circonda. Ritornando al dipinto di Lega, mi piace pensare che, in virtù di quanto saremo in grado di tramandare, le nuove generazioni avranno voglia di mettersi in gioco anche fuori da quella stanza, proiettando le loro capacità oltre il limite della finestra, in quel paesaggio caratterizzato dai toni verdi della campagna.

Per favorire questa presa di conoscenza del mondo che, circondandoci, ci forma e ci definisce, è fondamentale che i giovani assumano un ruolo attivo e che si accostino al patrimonio storico, artistico e culturale non come ad un ente astratto e lontano, ma come ad una realtà nella quale si è calati o, meglio ancora, come ad una realtà che richiede la nostra attenzione e il nostro intervento.

Tutta la penisola italiana è densa di storia, nascendo dalla stratificazione di storie che s’intrecciano ed è veramente auspicabile che, partendo dal periodo della formazione scolastica, si propongano attività rivolte alla mappatura del territorio, anche quello locale e periferico, spesso sconosciuto, proponendo ricerche, laboratori e visite culturali rivolte alla conoscenza del proprio contesto abitativo.

Conoscere, tramandare e infine conservare: questo ultimo tassello, che da sempre appare non solo come il più complesso, ma anche come “distante” in quanto ambito d’azione di legislatori e ministri, apparirà sotto una luce diversa se saremo stati in grado di promuovere uno sguardo nuovo sull’intero patrimonio storico, artistico, culturale e ambientale.

In un avvincente ed articolato piano di educazione civica, che preveda l’azione combinata di molteplici saperi ed interessi, il passo per trasformare uno studente attivo in un cittadino consapevole può diventare davvero breve.

Per approfondire

Il  manuale di storia dell’arte “Con gli occhi dell’Arte” di Valerio Terraroli è stato arricchito dal progetto “Patrimonio nel territorio”, una serie di inserti che nascono da un’attenta riflessione legata alla pluralità di sfaccettature della disciplina storico artistica in un più ampliato contesto di educazione civica. Proponendo temi non usuali – per esempio i cimiteri, le biblioteche, la musica, le case d’artista, i parchi di scultura – e disegnando un arco temporale che dall’antichità conduca all’era contemporanea, ciascun inserto si offre come traccia per mettere a fuoco trasversalmente tecniche e contenuti dell’arte, in modo da favorire una didattica rinnovata. 

Mi piace pensare che la metodologia d’insegnamento possa germinare dal contesto nel quale ci si trova ad insegnare e, nel caso specifico, che queste schede riescano a stimolare ulteriori percorsi d’approfondimento in cui siano gli studenti a ricercare, scoprire e studiare il quid che caratterizza il proprio territorio.

Questi alcuni esempi di schede dedicate al patrimonio tratte dal corso:

Copertina: Silvestro Lega, L’educazione al lavoro, 1863 (?), olio su tela, 91,5 x 67 cm, Collezione privata.

Le guerre di ieri (si fa per dire). Il biennio 1915-16

Il prezzo del logoramento

Già nel corso del 1915 i combattimenti tra le forze tedesche e quelle franco-inglesi assunsero sempre di più i contorni di una guerra di logoramento. Attacchi e contrattacchi si succedevano quasi senza soluzione di continuità con minimi risultati, salvo il consumo abnorme di uomini e di materiali. Era come se il conflitto risucchiasse la ricchezza delle nazioni per dissiparle in stragi inutili e continue: le spese, previste nel 1914 con una certa larghezza, superarono in breve ogni immaginazione. 

Come si misura una vittoria?

Il problema principale consisteva nella mancanza di esiti decisivi. Se erano chiarissimi gli effetti degli assalti – intere divisioni di fanteria annientate in pochi giorni, talvolta in poche ore -, non altrettanto lo erano gli obiettivi: scartata la guerra di movimento, come si doveva misurare la vittoria? La conquista di una collina, di qualche centinaio di metri di terreno, potevano essere considerati una vittoria? 

Il ruolo della propaganda

Se sfogliamo i giornali dell’epoca, ci accorgiamo della retorica costruita intorno ad episodi minori o minimi, pur di non confessare la sproporzione fra il sacrificio e il risultato. Dopo un anno di guerra, gli osservatori più acuti avevano già capito qual era la verità: il conflitto di nuovo tipo che si stava combattendo sarebbe stato deciso dal collasso di una delle parti coinvolte, ovvero dall’usura di ogni energia fisica, morale, materiale, economica. Qualsiasi azione volta a “far perdere” al nemico più risorse di quelle impiegate, era da considerarsi quindi intrinsecamente positiva

Una dimensione “armata”

Lo scenario era quindi spaventoso, perché spostava l’asse della vita delle nazioni interamente sulla sforzo bellico, come se esso fosse l’unico a importare davvero. Non era accaduto così nel XIX secolo e anche prima: era la prima volta che le nazioni si militarizzavano in una dimensione totale, organizzandosi in senso gerarchico, orientando perfino la moda femminile in forma bellica (colori, pantaloni, mantelline). 

L’emancipazione femminile ma anche l’irrigidimento delle opinioni

Le donne, peraltro, erano chiamate a sostituire gli uomini nei campi, negli uffici e nelle fabbriche: per un’intera generazione, quell’esperienza fu una pietra miliare sulla via dell’emancipazione, e non a caso il suffragio femminile divenne realtà, fra il 1918 e il 1920, in Gran Bretagna, Canada, Germania e Stati Uniti (ma non in Italia e in Francia). Se, da un lato, il conflitto funse da integratore sociale, da grande assimilatore di classi, generi, ceti, dall’altro indusse un forte irrigidimento delle opinioni, disciplinando i modi pensare tollerati: le democrazie cominciarono a perdere, sull’onda della propaganda, i consueti anticorpi della protesta e della critica: c’era un eroismo anche a casa, nel fronte interno, di cui essere all’altezza.

Per lavorare in classe

  • Avrete notato le forti assonanze fra questo quadro del biennio 1915-1916 e la guerra in Ucraina del 2022: riflettete su analogie e differenze con l’aiuto del docente. Attenzione: quella che stiamo vivendo non è “storia”. È ancora cronaca.

Scopri l’opera

La storia medievale in sette oggetti

Gli oggetti sono sempre più un campo di interesse per gli storici: sin da quando la storia, grazie alla scuola delle Annales di Marc Bloch (1886-1944), Lucien Febvre (1878-1956) e Fernand Braudel (1902-1985), ha iniziato a prestare attenzione alla cultura materiale e, con essa, non solo alle classi dirigenti, ma anche ai ceti contadini e agli oppressi. Le cose consentono di ricostruire i quadri quotidiani delle culture delle epoche passate, ma anche di ricostruire il cosmo affettivo e simbolico delle persone. Oggetti amati, magari passati di generazione in generazione, oggetti usati per esprimere gli ideali religiosi e devozionali oppure per segnare gerarchie sociali; oggetti frutto di innovazioni tecnologiche oppure di scambi tra civiltà differenti; oggetti come merci attraverso cui misurare le economie, i consumi e le mode: attorno alle cose si organizzano le società delle epoche passate.

E, non dimentichiamolo, gli oggetti hanno anche una notevole valenza didattica, poiché, se è vero, come sostiene Vittorio Marchis (Storia di cose semplici, 2008), che la memoria ha bisogno di un supporto materiale e gli oggetti costituiscono uno dei veicoli che, grazie alla loro capacità di esprimere simboli e metafore, meglio consentono di fissare i ricordi, una simile potenzialità può essere senz’altro sfruttata nell’insegnamento.

Può dunque la storia del millennio medievale essere riassunta in dieci oggetti? Precisando che ogni scelta non può che essere arbitraria, proviamo tuttavia ad accettare la sfida, individuando alcuni oggetti che hanno avuto un ruolo importante nel medioevo o che possono essere usati nella didattica per spiegarne alcuni aspetti.

Il globo crucigero 

Il globo crucigero è senz’altro un oggetto del potere. A partire da Arcadio (377-408) e poi per tutto il medioevo, esso costituisce uno degli attributi degli imperatori, che quando vengono raffigurati ostentano nella mano destra. L’autorità imperiale è infatti per sua natura “universale” – un concetto chiave per la comprensione delle monarchie medievali – che ambisce cioè a imporsi non su un determinato territorio circoscritto, ma urbi et orbi, sul cosmo che dal globo è rappresentato. Il potere degli imperatori, sin dall’epoca tardoantica, già, timidamente, con Costantino e poi in maniera molto più marcata da Teodosio in poi, è anche connotato in forma cristiana: per questa ragione il globo degli imperatori è anche sovrastato da una croce, segno della natura divina cristiana del loro potere.

La tiara

La tiara è il copricapo indossato dai papi. Sin dall’alto medioevo esso costituiva un attributo di regalità, che faceva parte dell’armamentario ideologico a cui i pontefici facevano ricorso per ostentare il loro potere. La tiara compare già nella Donazione di Costantino, il falso prodotto fra VIII e IX secolo dagli intellettuali al servizio del papa per giustificare le ambizioni temporali della chiesa di Roma. Soltanto nel Basso medioevo, in corrispondenza con il processo di “monarchizzazione del papato” – quando cioè per la prima volta il pontefice diviene non più la più alta dignità ecclesiastica dell’Occidente, così come era durante l’alto medioevo, ma un vero e proprio sovrano dotato di un ampio potere politico – la tiara papale inizia a essere caratterizzata dalla presenza di alcune corone. Il primo a farne uso è Niccolò II (1058-1061), incoronato da Ildebrando di Sovana, il futuro Gregorio VII: la sua tiara aveva due corone, la prima delle quali recava la scritta “Corona del regno dalla mano di Dio”, la seconda “Diadema dell’impero dalla mano di Pietro”. Il potere del papa era ormai pronto per entrare in competizione con quello degli imperatori. Con Bonifacio VIII le corone diventarono addirittura tre.

La forchetta

La forchetta è oggi per noi un oggetto di uso quotidiano. Tuttavia, il suo successo non è per nulla scontato e per molto tempo è stato un utensile pressoché sconosciuto in Europa o limitato alle corti dei principi. Già nota in età tardoantica, la sua diffusione nell’Occidente medievale avviene soltanto a partire dall’XI secolo, quando inizia a essere documentata in varie località della Penisola. A Venezia, in particolare, la portò una principessa bizantina, Maria Argyropoulaina, che nel 1004, sposò il doge Giovanni Orseolo II. Nel fastoso banchetto delle nozze, mentre tutti i veneziani mangiavano con le mani, la giovane principessa sfoderò un’elegante forchetta d’oro con due rebbi, suscitando la perplessità degli astanti. Ancor più lenta fu l’affermazione dell’oggetto in Francia: la forchetta si impose soltanto nel corso dell’età moderna, secondo alcuni racconti introdotta alla corte dei re da Caterina de Medici, nel Cinquecento.

Il reliquario

Il reliquario è un oggetto pensato per contenere le reliquie, vale a dire i resti mortali dei santi. Il loro culto crebbe enormemente nel corso dell’alto medioevo, quando si creò un vero e proprio commercio di tali resti, spesso di dubbia provenienza: uno dei maggiori storici che se ne è occupato, André Vauchez, ha parlato addirittura di “invenzione delle reliquie”, per indicare come, più che la reale autenticità, si debba considerare i processi che le rendevano tali agli occhi dei devoti. I reliquari dell’Europa medievale contengono materiali originari di aree geografiche molto lontane tra loro e non è raro ritrovare, per esempio, materiali ossei provenienti da varie parti del Mediterraneo o tessuti prodotti persino in Cina. I reliquari informano dunque della storia della religiosa, ma anche di quella economica, poiché dimostrano come anche nell’alto medioevo le merci continuassero a circolare, anche a lunga distanza.

Le pentole in pietra ollare

Nell’alto medioevo le pentole di pietra ollare, prodotte in alcune località delle Alpi dove era localizzate le aree di estrazione di questo minerale particolarmente malleabile alla lavorazione, erano soggette a un’ampia commercializzazione. Per ottenere questi manufatti, nelle cave in altura venivano estratti blocchi di questo materiale, poi trasformati in cilindri e lavorati al tornio sul luogo. Il risultato era una pentola realizzata a partire da un unico blocco di pietra, la cui lavorazione permetteva di ripetere il processo formando recipienti via via sempre più piccoli, riducendo al minimo gli scarti di produzione e dunque lo spreco di materia prima. Resti di questi oggetti di uso comune sono stati trovati in numerose località del Mediterraneo e costituiscono una testimonianza dei commerci di quest’epoca.

La balestra

La storia del medioevo è anche una storia di oggetti pensati per la guerra, dagli scramasax, le spade dei longobardi, fino alle bombarde, le armi da fuoco che si affermano in Europa sin dal XIV secolo. Tra le armi più efficienti che si diffondono in quest’epoca c’è senz’altro la balestra: già nota nel mondo antico, il suo successo avviene nel corso del basso medioevo. Soprattutto nei comuni italiani, che facevano largo uso delle fanterie, essa prende piede: i balestrieri di Genova erano particolarmente rinomati.

L’orologio meccanico

L’orologio meccanico si diffuse in Europa tra la fine del XIII e i l’inizio del XIV secolo: non si trattava ancora di orologi portatili o di piccole dimensioni, ma di marchingegni di grandi dimensioni, di norma commissionati dai poteri pubblici e posizionati su campanili o torri. Anche il sistema utilizzato era ancora piuttosto semplice. Tra i più antichi ancora sopravvissuti c’è quello del campanile di Sant’Eustorgio di Milano, risalente all’inizio del Trecento. Al pari del mulino ad acqua, degli occhiali o dei bottoni, l’orologio meccanico è uno degli oggetti utili a dimostrare la notevole capacità di innovazione tecnologica del medioevo.

Per approfondire

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  • Consigliamo la lettura di questi testi:
    • A. Feniello, A. Vanoli, Storia del Mediterraneo in 20 oggetti, Laterza, 2018.
    • C. Frugoni, Medioevo sul naso, Laterza, 2014.
    • V. Marchis, Storia di cose semplici, Springer Verlag, 2008. 

Scopri l’opera

  • Le porte della storia” di Riccardo Rao e Anna Però – La Nuova Italia – Rizzoli Education, 2022 – Testo di geostoria per la scuola secondaria di secondo grado

Fotografie della Resistenza

Dall’armistizio al tragico inverno del 1944

Il settembre del 1943 è un mese decisivo per l’Italia che sta combattendo la Seconda guerra mondiale. L’8 settembre viene reso noto l’armistizio alla popolazione e nello stesso giorno Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggono verso Brindisi. Il 12 settembre i tedeschi liberano Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e lo conducono da Hitler in Germania, dove conferma la sua fedeltà al Führer e definisce la creazione della Repubblica Sociale Italiana.

Da questo momento il Paese vive spaccato in due da una feroce guerra civile, segnata da scontri armati, rastrellamenti, rappresaglie che coinvolgono anche i civili.

Nel corso del 1944 gli Alleati avanzano, ma non rapidamente quanto dovrebbero. E così per la popolazione italiana che vive al di sopra della Linea Gotica l’inverno del 1944-1945 si trasforma nel periodo più tragico. Il freddo e la fame, i bombardamenti prolungati, le violenze dei nazifascisti (sempre più consapevoli che la loro sconfitta si avvicina) colpiscono duramente i civili. È soprattutto in questo frangente che i partigiani – attivi con azioni di sabotaggio e guerriglia sin dal 1943 – giocano un ruolo determinante per gli esiti del conflitto civile.

In occasione della festa della Liberazione, in classe possiamo invitare studentesse e studenti a ripercorrere la storia dei partigiani italiani attraverso alcune fotografie d’epoca. A partire da queste immagini potremo così delineare i tratti salienti della Resistenza italiana.

Chi sono i partigiani

I partigiani italiani sono un mondo eterogeneo: ex soldati che hanno abbandonato l’esercito dopo l’armistizio, antifascisti che da tempo vivono in clandestinità, donne e uomini comuni, spesso giovani, disposti a rischiare la vita per riconquistare la libertà. I primi gruppi di resistenza armata nascono in modo spontaneo, quindi si organizzano in brigate (spesso in base all’orientamento politico), che successivamente iniziano a coordinarsi tra di loro. Vivono nascosti nei luoghi più difficili da raggiungere dai nazifascisti e colpiscono di sorpresa, attaccando i reparti nemici.

In questa fotografia del 1945 vediamo un gruppo di partigiane e partigiani a Venezia con il pugno alzato. I loro abiti sono poveri e logori, alcuni di loro imbracciano un fucile. Al collo molti portano il fazzoletto rosso, simbolo della loro brigata.

Le montagne come rifugio

Durante la guerra molti partigiani si rifugiano sulle montagne, dove riescono a trovare ripari e luoghi in cui nascondersi dal nemico. I territori delle montagne sono infatti ben noti alla popolazione locale e ai partigiani, che vi si muovono con abilità, mentre i reparti tedeschi faticano a orientarsi. Inoltre i mezzi corazzati dei nazifascisti stentano a raggiungere i territori montani: in questo modo si riduce il divario militare tra le forze armate di Mussolini e Hitler e le forze partigiane, che con i loro attacchi rapidi ed efficaci mettono in crisi il nemico.

In questa fotografia vediamo un gruppo di partigiani che presidia una postazione sull’Appennino emiliano nel 1944.

Le donne: un ruolo di primo piano

Un ruolo di primo piano nella Resistenza è ricoperto dalle donne. Prestano soccorso agli uomini feriti, si occupano dei servizi logistici, forniscono i rifornimenti di viveri e di materiali, organizzano manifestazioni contro la guerra. Le più giovani svolgono la funzione di “staffetta”, cioè portano notizie e informazioni tra i vari gruppi partigiani. Molte donne, poi, sono combattenti armate e lottano in prima linea. 

Alla fine della guerra poche donne (35.000 contro 150.000 uomini) si vedranno riconosciute come partigiane combattenti, anche se nei fatti il loro impegno è stato molto più consistente.

In questa fotografia vediamo alcune donne partigiane armate per le vie di Milano nel 1945.

I rastrellamenti e gli eccidi fascisti

Nel corso della guerra, i nazifascisti compiono rastrellamenti ed eccidi ai danni di intere comunità di civili. Una delle prime e più feroci stragi avviene nel marzo del 1944, prima della liberazione di Roma da parte degli Alleati. Per punire un’azione compiuta dai partigiani in via Rasella in cui sono morti 33 militari tedeschi, i nazifascisti arrestano 335 persone scelte a caso tra la popolazione (con un rapporto di più di 10 civili per ogni soldato tedesco deceduto). Poco dopo le fucilano nei pressi di una vecchia cava, nota con il nome di Fosse Ardeatine

Nel corso della guerra i nazifascisti compiono altri massacri in diverse località, come a Sant’Anna di Stazzema, nei pressi di Lucca, in cui vengono uccise 560 persone, o a Marzabotto, vicino a Bologna, dove i morti sono più di 800.

In questa fotografia, che risale al 23 marzo del 1944, vediamo la lunga fila di civili rastrellati per le strade di Roma, all’indomani dell’azione partigiana in via Rasella. 

Una famiglia distrutta

I sette fratelli Cervi fanno parte di una famiglia di contadini che risiede nei pressi di Reggio Emilia. Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore (questi i loro nomi) sono convinti antifascisti e prendono parte attiva alla Resistenza. Nel novembre del 1943 vengono arrestati dai fascisti e durante la detenzione vengono torturati. Il 28 dicembre 1943 vengono fucilati come rappresaglia dopo l’uccisione, da parte di altri partigiani, di un segretario comunale fascista.

In questa fotografia vediamo la famiglia Cervi al completo: oltre ai sette fratelli vi sono due sorelle e, al centro, la madre e il padre. È proprio quest’ultimo, sopravvissuto, a raccontare insieme ad altri testimoni la tragica vicenda dei suoi figli.

La primavera porta la libertà

Con l’arrivo della primavera del 1945 gli Alleati riescono a superare la Linea Gotica. A questo punto i partigiani sono pronti per lanciare la rivolta generale. Il Comitato di Liberazione Nazionale invia ai vari gruppi un telegramma con un messaggio in codice divenuto celebre, che recita: “Aldo dice 26×1. Nemico in crisi finale”: è l’avvio dell’insurrezione. Il 25 aprile 1945 i ribelli si sollevano nelle grandi città come Milano, Torino e Genova, ancor prima dell’arrivo dell’esercito angloamericano. La Repubblica Sociale Italiana crolla. 

Nella fotografia si vede una formazione partigiana che avanza in Corso Ticinese a Milano, salutata dalla folla festante. La città è appena stata liberata.

Qualche spunto didattico

Prendendo spunto dalla ricorrenza della Liberazione, si possono proporre in classe diverse attività, lavorando sulle competenze di scrittura e di produzione orale e favorendo un coinvolgimento “emotivo” di ragazze e ragazzi.

  • Far scegliere a studentesse e studenti una fotografia del periodo della Resistenza (anche tra quelle qui proposte), chiedendo loro di “entrarvi dentro” con l’immaginazione, di guardarsi attorno osservando i dettagli e di esplorare lo spazio, ipotizzando di parlare con i personaggi ritratti e ascoltare ciò che si dicono tra di loro. Potranno così cimentarsi in un’attività di scrittura creativa.
  • Far realizzare un’intervista: ragazze e ragazzi potranno intervistare i loro nonni sul periodo della guerra e della Liberazione. Pur non avendola vissuta in prima persona per motivi anagrafici, i nonni possono riportare le vicende raccontate dai loro genitori. Una volta raccolte le risposte, potranno essere riferite al resto della classe, cercando di ricostruire insieme un quadro del vissuto di quell’epoca.
  • Organizzare un breve video-notiziario sulla Resistenza lavorando in piccoli gruppi: a partire dalle informazioni presenti nell’articolo, alcuni studenti si occupano di rielaborare i testi “trasformandoli” in notizie, altri le leggono mentre altri ancora si dedicano a filmarli; alcuni poi, alla fine, si occupano del montaggio del video, che può essere arricchito con immagini e musiche. 

Sitografia per approfondire