Machine Learning con mBlock

mBlock è una piattaforma per il coding estremamente ricca, che offre moltissime opportunità di sviluppo di progetti a tutti i livelli di complessità. Si presenta come una valida alternativa a Scratch e amplia le possibilità su alcuni fronti: oltre alla grande quantità di estensioni di cui dispone, mBlock supporta diverse piattaforme hardware (in particolare alcune delle più comuni schede elettroniche utilizzate in ambito educativo, come Arduino, CyberPi o mBot) che possono essere programmate con notevole immediatezza grazie al linguaggio a blocchi, esteso con funzionalità specifiche per ciascuna piattaforma.

Classificare immagini

Una delle estensioni di mBlock si chiama Teachable Machine. Si tratta dell’interfaccia per integrare il noto applicativo di casa Google (Teachable Machine, appunto), che implementa una rete neurale e dunque degli algoritmi per l’apprendimento automatico (il cosiddetto Machine Learning). Nella sua versione più recente, lo strumento consente di classificare immagini caricate da file o da webcam, brevi audio oppure le pose di persone in immagini da file o da webcam. L’estensione di mBlock al momento consente l’addestramento della Teachable Machine solamente allo scopo di classificare immagini provenienti da una webcam collegata al PC. Si tratta quindi di utilizzare uno strumento in grado di associare autonomamente una categoria di immagini preimpostata alla scena inquadrata dalla webcam. Ciascuna categoria viene individuata e caratterizzata durante la cosiddetta fase di training della rete neurale.

L’interfaccia per la fase di training della Teachable Machine si presenta come in figura: sulla sinistra l’immagine presa in diretta dalla webcam, al centro tre categorie inizialmente senza nome (che andrà specificato) in attesa della registrazione di alcuni dati e sulla destra la zona in cui viene visualizzato il risultato della classificazione dell’immagine che proviene dalla webcam in ogni istante.

Per l’addestramento della rete neurale implementata nella Teachable Machine è necessario anzitutto decidere il numero di categorie in cui classificare gli input (il programma propone inizialmente 3 categorie, ma se ne possono avere fino a un massimo di 30). A ciascuna di esse deve essere assegnato un nome e un certo numero di immagini “di esempio” (il cosiddetto training set) che ritraggono gli oggetti o le scene che fanno parte della categoria stessa. L’algoritmo infatti “impara” come sono fatti gli oggetti facenti parte di una certa categoria proprio sfruttando le informazioni fornite nel training set, che deve pertanto essere vario a sufficienza da poter distinguere con una buona accuratezza immagini appartenenti a categorie distinte e quindi contenere anche un numero sufficientemente elevato di immagini.

In figura, una rete neurale allenata a classificare le immagini in quelle con più di una penna, quelle con una penna sola o quelle con nessuna penna. Per ciascuna categoria sono state fornite 15 immagini di esempio (un numero certamente esiguo). Sulla destra la classificazione dell’immagine a sinistra, presa in diretta dalla webcam.

Overfitting e underfitting

La fase di training è certamente quella più importante e delicata, perché richiede di bilanciare esigenze opposte e trovare il giusto equilibrio.

Se si forniscono poche immagini o informazioni, la rete neurale non sarà in grado di distinguere bene gli oggetti o le scene inquadrate perché non avrà una rappresentazione sufficiente della complessità degli oggetti. Si parla in questo caso di underfitting. Inoltre la presenza di sfondi o potenziali oggetti intrusi assieme a quelli da riconoscere potrebbe inficiare il riconoscimento. Un corretto riconoscimento è infatti tanto migliore quanto più ogni nuova immagine aggiunta al training set fornisce informazioni “aggiuntive” sugli oggetti che fanno parte della categoria.

Si potrebbe allora pensare che sia bene fornire un elevatissimo numero di immagini di esempio. Le insidie del superare un certo numero di immagini sono almeno due. Da un lato il costo computazionale: tante immagini richiedono tanto tempo per essere processate e ci si rende presto conto che un numero troppo elevato rende ingestibile il training. Dall’altro lato c’è il rischio di overfitting: se infatti forniamo troppi dati relativi a un numero limitato di esempi e di contesti, la rete neurale imparerà a riconoscere come caratterizzanti della categoria anche eventuali dettagli indesiderati di quegli oggetti, che non sono caratteristiche della categoria ma solamente dell’esempio specifico.

In figura, la rete neurale non riconosce la categoria corretta: dovrebbe riconoscere la categoria “Nessuna” ma invece l’algoritmo classifica “Una” con il 70% di confidenza, pur avendo avuto come esempio per la categoria “Nessuna” anche l’inquadratura dello sfondo senza oggetti. Una delle spiegazioni plausibili è la presenza del medesimo sfondo in tutte le immagini, che rende più difficile l’emergere delle caratteristiche distintive degli oggetti.

La classificazione

Una volta ultimato il training, nel menù dei blocchi della Teachable Machine ne compaiono tre nuovi: il blocco recognition result che restituisce in ogni momento il nome della categoria individuata dalla rete neurale per l’immagine proveniente dalla webcam; il blocco confidence of che consente di selezionare una categoria e restituisce il livello di confidenza, ovvero una percentuale di quanto sia plausibile che l’immagine inquadrata possa essere ascritta alla categoria selezionata; il blocco recognition result is che consente di selezionare una categoria e restituisce il risultato del riconoscimento, vale a dire che controlla se l’immagine inquadrata possa essere ascritta alla categoria selezionata e restituisce VERO in caso affermativo, altrimenti restituisce FALSO.

Con questi blocchi è possibile utilizzare la rete neurale per interagire con gli altri comandi, integrando le possibilità di questi modelli di machine learning nei propri progetti.

Per approfondire

Speciale certificazioni

Si avvicina il tempo delle certificazioni. Questo mese troverete molte idee per la preparazione ed il ripasso in vista degli esami di lingua.

L’erosione costiera: cause e possibili soluzioni

Il dissesto idrogeologico è un potente modificatore del paesaggio. Nella loro virulenta forma presente, fenomeni come le frane, le inondazioni e l’erosione costiera sono stati definiti come malattia della civilizzazione, perché è la stessa evoluzione umana o meglio ancora il progresso tecnologico che hanno accelerato il lento decorso dei fenomeni naturali in maniera travolgente e preoccupante.

Nell’ultimo cinquantennio, purtroppo, la dissipazione di risorse primarie e il non corretto uso del suolo hanno dato luogo ad una situazione di diffuso degrado che contribuisce ad amplificare gli effetti dei fenomeni distruttivi di origine naturale quali alluvioni, frane ed erosione della costa. L’erosione della costa è, pertanto, il risultato diretto ed indiretto delle alterazioni del ciclo dei sedimenti determinate da cause naturali e antropiche. 

I fenomeni erosivi possono essere suddivisi in due categorie: l’erosione a breve termine, di tipo reversibile, prodotta in genere dal trasporto di sedimenti verso il largo, associata alle mareggiate (con periodicità stagionale), e l’erosione a lungo termine dovuta normalmente a squilibri nel bilancio sedimentario originati dal trasporto solido litoraneo.

Per l’erosione a lungo termine i fattori naturali hanno un ruolo di gran lunga predominante, soprattutto nel lungo periodo, e quelli più importanti sono: i venti e le tempeste, le correnti vicine alle spiagge, l’innalzamento del livello del mare, la subsidenza del suolo e l’apporto liquido e solido dei fiumi al mare. Tuttavia, attualmente, l’erosione è determinata principalmente dall’intervento dell’uomo sull’ambiente.

Tra i fattori antropici si evidenziano quelli inerenti l’utilizzazione della fascia costiera con la realizzazione di infrastrutture ed opere per insediamenti abitativi, industriali e ricreativi; l’uso del suolo e l’alterazione della vegetazione; l’estrazione di acqua dal sottosuolo; la pulizia della spiaggia con mezzi meccanici o pesanti; lo scalzamento e la distruzione della duna; la regimazione dei corsi d’acqua, sia per la difesa del suolo che per il prelievo della stessa risorsa idrica per uso potabile, irriguo ed industriale e l’estrazione di inerti dai fiumi da utilizzare nelle costruzioni. Le azioni antropiche destabilizzano i complicati e delicati equilibri che presiedono alla costituzione delle spiagge ed alla loro evoluzione.

Nel dettaglio, tali fattori includono:

  • l’intensa antropizzazione delle coste a causa della costruzione di porti, abitazioni, strutture ed infrastrutture. In particolare, la costruzione di porti e moli determina la duplice azione di congelamento del tratto di spiaggia interessato e di ostacolo alla normale direzione delle correnti marine e del nastro trasportatore lungo riva che sposta i sedimenti dalla foce. Infatti, tutto ciò che viene deposto sopraflutto viene sottratto al bilancio dell’intera unità e di conseguenza le zone sottoflutto sono soggette a forte erosione e all’approfondimento del fondale marino.  Anche la demolizione delle dune costiere per la progettazione e la realizzazione di infrastrutture determina fenomeni erosivi. Le dune sono un capiente serbatoio in grado di rifornire di sabbia i tratti di costa durante le fasi erosive ed hanno la funzione di assorbimento dell’energia delle mareggiate. Esse, pertanto, rappresentano una vera e propria opera di difesa naturale. La loro formazione è il risultato diretto e normale dei processi costieri quando il litorale è in equilibrio o in avanzamento, mentre è assai difficile, se non improbabile, che le dune si sviluppino quando la costa è in erosione. Occorre, quindi, conservare la struttura della duna anche e soprattutto nelle sue parti meno appariscenti ma più esposte, come ad esempio la zona erbacea (caratterizzata da vegetazione colonizzatrice, in genere l’Ammophila arenaria), che fissa le sabbie, e quella cespugliosa retrostante (caratterizzata da vegetazione schermante, come il ginepro);
  • l’impoverimento dell’apporto di materiale solido dei fiumi;
  • i lavori di manutenzione eseguiti sulle spiagge: gli interventi effettuati con mezzi meccanici che giungono in profondità incrementano l’erosione costiera delle spiagge sabbiose in quanto provocano la rottura degli aggregati di sabbia libera e delle singole particelle di sedimento. Tali particelle, trasportate dal vento, vengono disperse e non si accumulano più sulla spiaggia a meno che non siano trattenute dalla vegetazione, dai tronchi, dalle barriere frangivento e, ove possibile, dalla presenza della vegetazione sulle dune. Inoltre, l’uso di detti mezzi meccanici determina l’alterazione del naturale profilo morfologico della spiaggia, rendendola più vulnerabile alle mareggiate, la variazione dei caratteri morfo-topografici e l’usura della spiaggia stessa tale da modificarne la granulometria. Infine l’utilizzo degli stessi mezzi meccanici potrebbe determinare la torbidità delle acque prossime alla battigia in quanto, in un’area soggetta alle onde di risacca, il rimescolamento dei sedimenti, dei rifiuti e della sostanza organica liberata dai residui (quali resti di vegetali o di bivalvi) determina la formazione di schiuma;
  • la rimozione dei materiali spiaggiati: i materiali accumulati sulle spiagge come, ad esempio, la Posidonia oceanica, i tronchi, i pezzetti di legno, le canne, il materiale sminuzzato e le conchiglie rappresentano un importante elemento di ripascimento naturale dell’arenile ed esercitano un’azione di sostegno per la sabbia in quanto ostacolano l’erosione eolica e marina. Sarebbe auspicabile, quindi, la non rimozione di tali materiali durante i mesi autunnali – invernali in quanto essi garantiscono la resilienza della spiaggia durante le mareggiate. Gli arenili andrebbero puliti solamente dai veri rifiuti di origine antropica quali oggetti in plastica, copertoni, polistirolo, materiale di risulta proveniente dalle strutture presenti in loco, ecc.;
  • l’attività edilizia sul demanio marittimo in concessione: si rileva la necessità di mantenere una sufficiente resilienza della spiaggia, così come richiesto da tutte le indicazioni europee, tra cui il Protocollo di Gestione Integrata della Zona Costiera (GIZC). Si evidenzia che la superficie della spiaggia occupata dalle strutture balneari non amovibili espone i litorali ad una elevata sensibilità alle naturali fluttuazioni della linea di riva e contribuisce a diminuire il margine di sicurezza da danni da mareggiata e di conseguenza l’effetto dei ripascimenti morbidi effettuati durante l’anno;
  • gli stessi interventi di difesa: in fase di pianificazione e progettazione di un’opera di difesa costiera, sarebbe necessario tenere conto non solo dell’efficacia della stessa opera nel contrastare l’erosione, ma anche degli effetti che la sua presenza può generare sull’ambiente emerso e sommerso circostante. Qualunque manufatto realizzato a mare costituisce un ostacolo al libero propagarsi delle correnti e delle onde e pertanto interagisce con esse, dando luogo ad effetti di vario genere che possono produrre conseguenze anche a grandi distanze aggravando i fenomeni erosivi in atto o addirittura innescandone di nuovi sulle rive adiacenti non protette. Le opere di difesa, quindi, devono essere conformate in modo che i liberi movimenti delle acque possano superare l’opera e proseguire oltre, sia pure modificati e ridotti. Nella progettazione di un’opera di difesa occorre tenere nella debita considerazione e valutare opportunamente anche le caratteristiche dei movimenti migratori dei materiali litici, con particolare attenzione al senso nel quale in prevalenza tali movimenti si verificano; la posizione, rispetto all’opera da costruire, delle fonti di rifornimento dei materiali consistenti prevalentemente nelle conoidi situate alle foci dei fiumi; la ripartizione di tali materiali lungo gli arenili dovuta alle caratteristiche del litorale nonché ai movimenti delle acque marine in prossimità del litorale stesso; la composizione granulometrica dei materiali e la quantità di essi che mediamente persiste nella zona. Occorre pertanto evitare di contrastare eccessivamente i movimenti naturali delle acque marine, cercando di assecondarli il più possibile, e di favorire la normale tendenza del mare al ripascimento, nel senso di non impedire del tutto l’azione di trascinamento dei materiali sciolti lungo l’arenile ad opera delle correnti di riva, e di non ostacolare il raggiungimento dell’arenile stesso da parte dei materiali sciolti, nella zona dei frangenti, dal moto ondoso e da questo trascinati in sospensione verso la riva. Inoltre nello studio delle opere di difesa da realizzare non si dovrebbe analizzare solamente il breve tratto di linea di riva in erosione da tutelare ma bisognerebbe considerare l’unità fisiografica in cui tale segmento di costa è incluso poiché il bilancio sedimentario delle spiagge, ovvero il bilancio tra apporti e perdite di sedimento, si riferisce all’intera unità fisiografica (UF) di riferimento per la quale pertanto occorre effettuare lo studio della dinamica dei sedimenti. Infatti i sedimenti fluviali che costituiscono la costa presentano movimenti confinati all’interno dei limiti dell’unità stessa e gli scambi di sedimenti tra le UF adiacenti sono da considerarsi nulli. L’unità fisiografica, infatti, può essere definita come quel tratto di costa in sostanziale equilibrio interno che non ha scambi di sedimenti con i tratti limitrofi. Qualsiasi elemento realizzato lungo la costa, quindi, è in grado di interferire con tale flusso: ad esempio la presenza di un molo o di un pennello o di un’opera di difesa rigida costituisce una barriera in grado di intercettare i sedimenti con conseguente accumulo di sedimenti sopraflutto ed erosione sottoflutto. Gli interventi di difesa realizzati in un luogo causano effetti sull’intera unità fisiografica di cui esso fa parte e sulle varie sub unità fisiografiche di cui la prima è costituita.

L’erosione costiera ha raggiunto in molti tratti livelli di grave dissesto e, considerata la rapida evoluzione dei fenomeni di arretramento delle spiagge degli ultimi anni, le prospettive future sono molto preoccupanti. Si ritiene pertanto utile e d’interesse, proporre qui di seguito taluni principi e considerazioni di carattere generale di cui dovrebbero tener conto le istituzioni, gli amministratori pubblici e privati, i tecnici e tutti i soggetti coinvolti nell’assumere le decisioni in materia. 

  • Il maltempo e le onde non rappresentano la causa effettiva dell’erosione costiera e dell’insabbiamento dei porti.
  • L’ambiente costiero è un sistema aperto e dinamico e, conseguentemente, la morfologia costiera va monitorata con continuità studiando il comportamento della corrente litoranea di fondo ed includendo tali correnti nella modellistica di progetto.
  • La difesa dei litorali va inserita all’interno di un contesto d’azione integrato a medio – lungo termine in cui devono essere considerati gli effetti indiretti, che riducono la resilienza delle spiagge, e quelli diretti causati dall’erosione costiera e dai cambiamenti climatici.
  • Nello studio delle opere di difesa da realizzare non si dovrebbe analizzare soltanto il breve tratto di linea di riva in erosione da tutelare ma bisognerebbe considerare l’unità fisiografica in cui tale segmento di costa è incluso poiché il bilancio sedimentario delle spiagge, ovvero il bilancio tra apporti e perdite di sedimento, si riferisce all’intera unità fisiografica (UF) di riferimento per la quale pertanto è necessario effettuare lo studio della dinamica dei sedimenti.
  • Gli interventi di difesa devono essere integrati in un piano che deve includere criteri di sviluppo sostenibile e tutela ambientale in quanto la conservazione dei litorali sabbiosi ben sviluppati e il contrasto all’erosione costiera rappresentano, in genere, una strategia di difesa e di riduzione del rischio di inondazione dei territori costieri.
  • Nella progettazione di un’opera di difesa occorre valutare l’opportunità o meno di prevedere l’esecuzione delle opere di difesa in un’unica fase oppure in più soluzioni in relazione sia alla tendenza dell’opera a modificare i processi naturali che si attuano nella zona di arenile interessata sia dall’entità degli interventi da realizzare. L’entità e la tipologia dell’opera non deve essere subordinata esclusivamente al fattore economico.
  • Sarebbe auspicabile la rimozione o la riprogettazione delle strutture rigide esistenti sull’arenile. Si riterrebbe altresì opportuno evitare di progettare o realizzare nuove opere di difesa rigide, come indicato nelle “linee guida per la Difesa della Costa dai fenomeni di Erosione e dagli effetti dei Cambiamenti climatici” scaturite dal Tavolo Nazionale sull’Erosione Costiera MATTM-Regioni con il coordinamento tecnico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). Inoltre, sarebbe opportuno privilegiare interventi basati sulle NBS (nature-based solutions) rispetto a quelli tradizionali e strutturali di difesa delle coste.
  • Occorre privilegiare interventi di salvaguardia delle coste omogenei sul territorio nazionale al fine di tutelare gli arenili ed evitare possibili azioni e misure in contrapposizione o in sovrapposizione. Sarebbe, quindi, opportuno prevedere un coordinamento nazionale per la pianificazione in materia di difesa della costa dall’erosione.
  • Occorrerebbe anche introdurre il divieto di operare ampliamenti, anche stagionali, della superficie dell’arenile verso il mare abbassando la quota esistente o la stabilità della spiaggia e quello di asportazione dei materiali spiaggiati, specialmente nel periodo autunnale-invernale, in modo che possano esercitare funzioni di contrasto all’azione del mare e del vento nonché di trappola per i sedimenti.
  • Occorrerebbe, infine, introdurre una fascia di rispetto in zona costiera che ne garantisca la tutela attiva per contrastare la sempre crescente domanda di trasformazione del suolo.
  • Occorre introdurre buone pratiche per la pulizia degli arenili poiché permettono di ridurre le perdite dal sistema spiaggia. 

A titolo di esempio, il veicolo pulisci spiaggia, cd. “Solarino”, a controllo remoto e a propulsione solare è in grado di ridurre al minimo sino quasi ad annullare qualsiasi impatto sul sistema spiaggia. Tale veicolo non determina l’usura e la compattazione della spiaggia. Tale veicolo è fondamentale in quanto tutela l’integrità funzionale dei sistemi mobili costieri adibiti ad uso turistico. È bene ricordare, infatti, che le spiagge sabbiose sono continuamente sottoposte all’azione del moto ondoso e del clima. Inoltre, la loro morfologia è dinamica e non statica.

Hijos de York – Consejos para el día del libro

En ocasión del día Internacional del libro (23 de abril) me gustaría aconsejaros la apasionante trilogía, Hijos de York, de la escritora Cristina Mourón Figueroa

Esta trilogía narra el turbulento periodo de la Guerra de las Rosas, a través de las vivencias de Alice, una chica originaria de York, a la que los acontecimientos la llevaran a conocer a personas que le cambiarán la vida. La obra atrapa en sus redes al lector ya desde sus primeras líneas gracias a sus descripciones veloces, detalladas y envolventes, su ágil prosa y su rigurosidad histórica.

Déjate llevar de la mano de la sapiente prosa de la autora y revive un inolvidable periodo histórico y descubre las mentiras existentes sobre la denostada figura de Ricardo III, en medio de mil aventuras en donde reinan la pasión, el amor y la traición. 

Sinopsis de la trilogía

Hijos de York I: York

Corre el año 1472, mientras en York, tras los episodios más cruentos de la Guerra de las Rosas, Alice, la protagonista, conocerá al actor Thomas Norton de quien se enamorará perdidamente. En Londres Richard, duque de Gloucester, contrae matrimonio con Lady Anne Neville, hija del traidor conde de Warwick. Todo parece tranquilo, sin embargo, la incursión inglesa en Francia de 1475 desencadenará una serie de terribles e inexorables acontecimientos que entrelazará de manera irrevocable las vidas y los destinos de todos ellos.

Hijos de York II: Middleham 

Middleham, Inglaterra, 1476. Bajo la protección de Richard, duque de Gloucester, Alice se enfrenta a una nueva y sorprendente etapa de su vida. Aunque añora York y a su familia, ella encontrará paz, recuperará aficiones que creía perdidas para siempre y luchará por no caer en las garras de un amor prohibido.

 

 

Hijos de York III: Londres

Londres, Inglaterra, 1483. Tras la sorprendente y repentina muerte del rey Edward, Richard Gloucester, duque de Gloucester, asciende al trono como Richard III. Dispuesto a reinar con justicia y legitimidad, Richard buscará la reconciliación con sus acérrimos enemigos, mientras desbarata conspiraciones y atentados contra su vida y se enfrenta a la invasión de Henry Tudor. Alice y sus hijos serán testigos de su lucha por defender la corona. Todos se verán envueltos en una sucesión de súbitas tragedias que sacudirán sin compasión los cimientos de sus sueños, esperanzas e ilusiones.

Confini di ieri, confini di oggi

Può esistere un mondo senza confini? Ripercorrendo la storia, la risposta non può che essere negativa. Eppure, a ben guardare, ci si rende conto che quello tra gli esseri umani e i confini è uno dei rapporti più controversi che siano mai esistiti.  Partiamo da un dato di chiara evidenza: tra tutti gli esseri viventi, la specie umana è quella che più crea confini e, allo stesso tempo, più si adopera per superarli. Numerosissime sono le linee di confine tracciate nel corso del tempo, così come numerosissimi sono stati i tentativi di oltrepassarle.

Quello del confine è un concetto che raccoglie attorno a sé una molteplicità di significati. Potremmo dire che esso può rappresentare un luogo di separazione, ma anche di incontro e di scambio; o un oggetto di contesa, fonte di tensioni politiche, etniche e religiose; o ancora un ostacolo che molti vogliono oltrepassare, alla ricerca di nuove prospettive di vita. Proviamo qui a passare in rassegna – senza pretesa di esaustività – alcuni confini del passato e del presente che hanno assunto o assumono questi significati.

Il confine come linea di scambio

Ai tempi dell’Impero romano per indicare il confine si usava la parola limes. Questo termine, che in origine indicava il sentiero che separava i campi agricoli, assunse in questa epoca un significato ben preciso: esso era il confine che sorgeva in prossimità del corso del Reno e del Danubio, e che separava il mondo romano da quello dei germani. Per secoli il limes non fu una barriera insormontabile, anzi rimase un luogo di contatto e di incontro tra due popoli e due culture, una linea permeabile lungo cui si scambiavano non solo le merci, ma anche le conoscenze, gli usi e i costumi, le idee.

La svolta si ebbe solo nel III secolo d.C., quando i germani cominciarono a fare razzie in territorio romano, attratti dalla possibilità di ricchi bottini. Fu a questo punto che il confine venne fortificato, trasformandosi per i romani in una linea difensiva, lungo cui sorgevano torri, fortini e castra, cioè accampamenti militari. Ma a dire il vero anche in questo frangente il limes non cessò del tutto di essere un luogo di passaggio di viaggiatori e prodotti. Anche oggi, quando non sono barriere, i confini permettono l’incontro tra popoli e culture diversi: diventano cioè fonte di nuove conoscenze, scoperte, opportunità, scambi di storie e di idee.

Ricostruzione della torre di di guardia di Pohl, in Sassonia, lungo l’antico limes romano in Germania.

Il confine come linea di contesa

La gran parte dei conflitti della storia si sono combattuti attorno ai confini. Da questo punto di vista il secolo lungo, il Novecento, è stato purtroppo testimone di numerosi e tragici episodi bellici. Il confine tra Francia e Germania, così come quello tra Italia e Austria, divenne teatro delle più spaventose carneficine della Prima guerra mondiale.

Dopo la Grande guerra, il confine tornò presto oggetto di contesa internazionale. I principi di nazionalità ed autodeterminazione dei popoli sostenuti dal presidente statunitense Wilson vennero presto rimessi in discussione, in particolare nelle più delicate aree di confine. Un esempio è quanto accadde per la regione della Dalmazia e per la città di Fiume, che erano abitate da molti italiani e che l’Italia perciò aveva chiesto di annettere. I nazionalisti parlarono di “vittoria mutilata”, perché secondo loro quei territori dovevano rientrare tra i confini italiani. Da qui l’occupazione di Fiume del 1919 guidata dal D’Annunzio, questione chiusa solo nel novembre del 1920 dal trattato di Rapallo, che rese Fiume “città libera”, cioè non dipendente dalla sovranità di uno Stato.

Allargare i propri confini divenne poco più tardi l’imperativo della Germania nazista, in nome del pangermanesimo e della teoria dello “spazio vitale”. Si aprì così un’escalation di pressioni e violenze, di annessioni più o meno “spontanee” (si pensi all’Anschluss dell’Austria o alla rivendicazione da parte di Hitler del territorio dei Sudeti, nel 1938) o propriamente forzate (con l’invasione e l’occupazione della Cecoslovacchia e del corridoio di Danzica, nel 1939)

Di annessioni forzate siamo stati spettatori anche in tempi molto più recenti. Basti pensare a quanto accaduto in Crimea tra il febbraio e il marzo 2014, quando le truppe russe, sostenute da una parte della popolazione locale filorussa, hanno occupato la penisola, sottraendola al controllo ucraino. Nel Novecento come ai giorni nostri, le annessioni forzate si sono dimostrate preludio a successivi conflitti, come la Seconda guerra mondiale o la guerra tra Russia e Ucraina.

Le truppe naziste tedesche rimuovono una sbarra che segna il confine con la Polonia: è l’inizio della Seconda guerra mondiale.

Il confine come barriera 

Il confine può essere inteso anche come un limite che le persone cercano di oltrepassare, spinte dalla ricerca di un lavoro o di migliori condizioni di vita. Parliamo a questo proposito dell’emigrazione degli italiani che ha caratterizzato la storia del nostro Paese dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento.

In questo lungo periodo si possono individuare due grandi momenti migratori. Il primo va dal 1850 circa al 1940: circa 10 milioni di italiani emigrarono prevalentemente verso gli Stati Uniti e l’America latina. Il secondo va dal 1946 al 1970: altri 8 milioni di italiani emigrarono soprattutto verso i Paesi più industrializzati del Nord Europa. In entrambi i casi le motivazioni furono la ricerca del lavoro e di una vita più dignitosa rispetto a quella che potevano condurre in alcune aree d’Italia particolarmente arretrate dal punto di vista dello sviluppo economico.

Con il 1970 e la crescita del benessere del nostro Paese, l’emigrazione diminuì, anche se aumentarono le migrazioni interne dal Sud al Nord della penisola. In anni più recenti l’Italia è diventata terra di immigrazione, destinazione di persone provenienti soprattutto da Paesi più poveri. Oggi i cittadini stranieri in Italia sono circa 5 milioni, che costituiscono il 9,5% della popolazione totale. Ma non bisogna scordare che tuttora sono circa 5 milioni gli italiani all’estero e ogni anno 100000 persone circa emigrano.

I Paesi più ricchi del mondo attuale percepiscono l’immigrazione dai Paesi poveri principalmente come un problema e non sono pochi i casi di Stati che si chiudono o si stanno chiudendo entro i propri confini (dal punto degli ingressi, non delle uscite…). Ed è così che in tempi recenti stanno tornando le barriere, i muri, le linee di separazione: si pensi, per citare un celebre caso, al confine tra Messico e Stati Uniti.

Ma il Vecchio Continente non è esente da questa tentazione: a fine 2022 si sono contati 2048 chilometri di muri ai confini dell’Unione europea. Si va dai 21 chilometri di recinzione costruiti dalla Spagna intorno alle sue exclave in Marocco di Ceuta e Melilla, ai 35 chilometri tra Grecia e Turchia, dai 158 chilometri di barriera realizzati dall’Ungheria al confine con la Croazia (oggi membro Ue), ai 235 chilometri tra Bulgaria e Turchia. 

A seguire questa strada, dunque, sono proprio i Paesi dell’Unione europea, quell’istituzione che nel 1990 attuò il primo grande tentativo di superare i propri confini, togliendo le frontiere interne e creando il cosiddetto Spazio Schengen per la libera circolazione delle persone. Un paradosso o una necessità? Può il confine ridotto a barriera rappresentare la soluzione del fenomeno migratorio?

Tijuana, un’immagine della barriera eretta al confine tra USA e Messico.

La fase dell’asciutta nella bovina da latte

L’asciutta è l’interruzione forzata della lattazione che permette alle bovine di effettuare un periodo di pausa e di riposo per prepararsi alla successiva lattazione. Le motivazioni che sono alla base di questa fase di allevamento sono: 

  • garantire un periodo di ripristino dell’ambiente ruminale;
  • garantire il ripristino del tessuto ghiandolare secernente della mammella;
  • soddisfare i fabbisogni fetali;
  • ripristinare e mantenere le riserve lipidiche corporee (BCS – Body Condition Score).

La fase dell’asciutta ha una durata convenzionale di 60 giorni (Sguerrini, 2015) e risulta un momento improduttivo dove le bovine rappresentano esclusivamente una voce di costo per il bilancio aziendale.

Diversi studi scientifici hanno evidenziato che, un’asciutta con una durata pari a 35 giorni, può far diminuire la produzione di latte di una quantità che può variare tra il 20% e il 4,4% in meno nelle lattazioni successive (Santschi et al., 2014). Questa perdita può essere compensata dalla produzione di latte che può variare tra i 400 e i 500 kg in più durante i giorni di extra lattazione. L’asciutta con una durata ridotta a 35 giorni inoltre garantisce una miglior efficienza ruminale in termini di minore stress dovuto al cambio dieta e miglior ripresa dell’attività ruminale nel post parto/inizio lattazione. Questo a patto che le diete formulate per l’asciutta siano ben equilibrate (Drackley, 2011).

Durante il periodo di asciutta emergono però due importanti criticità che possono evidenziarsi nei primi 15-20 giorni dopo l’ultima mungitura (periodo chiamato dry-off) e, successivamente, nei 15-20 giorni che precedono il parto (periodo chiamato close-up).

Ci concentriamo qui sulla prima criticità che vede, a seguito della messa in asciutta, l’alta probabilità di insorgenza di mastiti cliniche o subcliniche (Schukken et al., 2011) che, successivamente, non verranno diagnosticate generando ingenti perdite economiche (la causa è la mancanza di controlli oggettivi da parte degli allevatori in concomitanza dell’ultima mungitura). La mastite è un’infiammazione della ghiandola mammaria dovuta a diverse cause che prevalentemente si riconducono a infezioni di tipo batterico (Zecconi et al., 2013). Per tale motivo la cura di queste patologie avviene con l’utilizzo di terapie a base di principi attivi antibiotici. Le nuove norme comunitarie (reg. 2019/6 EU) di tracciamento, controllo e uso dei farmaci veterinari promuovono un uso più consapevole degli antibiotici al fine di contrastare l’antibiotico resistenza (AMR – Anti Microbial Resistance). Durante la messa in asciutta, in concomitanza con l’ultima mungitura, è prassi consolidata trattare gli animali con una terapia antibiotica ad ampio spettro d’azione con un tempo di sospensione pari a 60 giorni. Questa strategia però vanifica gli obiettivi comunitari di riduzione dell’uso di antibiotici perché prevede l’utilizzo indiscriminato di farmaci anche su animali sani. Una recente indagine ha evidenziato che il 53% degli allevamenti italiani utilizza ancora questa strategia, il 9% non utilizza nessun antibiotico ed il 38%, invece, applica la terapia antibiotica selettiva (Bonellli et al., 2020).

La terapia antibiotica selettiva prevede di somministrare il farmaco solo a quegli animali che evidenziano un numero di cellule somatiche superiore alle 200.000 cellule/ml (Zecconi, 2019). L’utilizzo dell’asciutta selettiva permette di diminuire l’utilizzo di antibiotici generando un notevole risparmio economico senza causare perdite produttive e senza influire negativamente sulla salute delle bovine. 

Tema di discipline turistiche aziendali

Coltivare lettori

Leggere a voce alta fin dai primi mesi di vita

Una ricerca scientifica presso la Ohio State University ha calcolato il bagaglio lessicale dei bambini che entrano a scuola in relazione alla quantità di libri che sono stati letti loro dalla nascita fino ai 5 anni. Sembra infatti vi sia una correlazione tra la proprietà lessicale e la quantità di parole conosciute dai bambini ai quali sono stati letti molti libri.

Stiamo parlando di una differenza impressionante: i bambini piccoli a cui i genitori leggono cinque libri al giorno entrano alla scuola dell’infanzia dopo aver sentito circa 1,4 milioni di parole in più rispetto ai bambini ai quali non sono mai stati letti libri. Questa ricerca fa nascere una riflessione: quanto fondamentale può essere la lettura ad alta voce, fin dai primi mesi, ma soprattutto lungo tutto l’arco scolastico?

Leggere a voce alta a scuola

La letteratura per l’infanzia ha il potere di arricchire il mondo interiore dei nostri bambini e delle nostre bambine, ma allo stesso tempo pone domande, fa nascere curiosità, costruisce significati nuovi e diversi, apre orizzonti di senso e fa crescere il desiderio di leggere ancora. Fin dai primi giorni di scuola l’insegnante con la lettura ad alta voce può seminare il piacere della bellezza, attraverso la lettura di storie sempre diverse ma soprattutto di qualità. L’orizzonte da tenere a mente è sicuramente ampio e non raggiungibile in tempi brevi, perché ci vuole tempo, per formare “lettori per sempre, abituati a ricavare una reading zone lungo l’intero arco della vita, buongustai della lettura e delle storie” (S. Pognante).

Comprendere e interpretare

Quando parliamo di formare lettori intendiamo bambini e bambine abituati ad andare in profondità delle storie, dove il piacere della lettura passi anche attraverso i collegamenti e le connessioni con la propria vita e con i significati molteplici delle narrazioni. Infatti se abituiamo i nostri alunni e le nostre alunne a riconoscere e interpretare i segnali forniti dal testo, saranno in grado di comporre significati e potranno confrontarsi con la pluralità di orizzonti che le storie aprono.

Buone pratiche di lettura a scuola 

  1. Lettura come abitudine e non solo come riempi-tempo: è fondamentale dedicare un tempo specifico per la lettura, sia individuale, che di gruppo. Non basta infatti leggere in classe gli ultimi dieci minuti prima della campanella, ma la lettura necessita di un tempo dilatato e dedicato. Una buona abitudine è quella di riservare almeno 15 minuti al giorno di lettura autonoma con i più piccoli, aumentando sempre di più il tempo. Inoltre, nel laboratorio di lettura, è previsto anche un tempo dedicato per la lettura collettiva ad alta voce.
  2. Anche l’insegnante legge: durante i momenti di lettura dedicati, anche l’insegnante con il proprio libro legge, dà l’esempio e dialoga di lettura con i propri alunni e le proprie alunne.
  3. Spazio dedicato: all’interno della classe possiamo dedicare uno spazio specifico per la lettura, un angolo con cuscini o tappeti, dove il momento della lettura sia anche comodo e personale. Nella mia classe, ad esempio, i bambini e le bambine si tolgono le scarpe e si mettono comodi quando è ora di leggere.
  4. Quantità di libri a disposizione: i libri devono essere a portata di mano, dovremmo avere in classe una piccola biblioteca e uno spazio dove bambini e bambine possano prendere facilmente i libri e gli albi letti insieme e sfogliarli, leggerli e approfondirli, da soli o insieme.

Parlare di libri

L’esplorazione di un libro fatta in modalità collettiva non ha sicuramente lo scopo di verificare la comprensione del testo o il suo gradimento, ma tende a mettere il lettore al centro, che come un detective individua gli indizi per costruire significati e categorie. Dobbiamo fare attenzione alla modalità con cui parliamo di libri con bambine e bambini, in quanto vi sono domande che inibiscono la conversazione, perché richiedono categorizzazioni e richieste specifiche, che non abituano i lettori ad andare a fondo.

Le domande non funzionali sono ad esempio: di cosa parla il libro? Chi sono i personaggi? Ti è piaciuto? Che cosa ci insegna la storia?  Dall’altra parte alcune domande funzionali invece sono: Cosa ne pensate? Avete notato qualcosa di interessante? Come lo sapete? Come si capisce che..? Puoi farci vedere dove hai visto..? Il nostro obiettivo è quello di fare in modo che i significati e le categorie, insieme all’interpretazione, siano costruiti sul campo, attraverso l’analisi collettiva e approfondita del testo.

Giocare con i libri

  • La copertina. Prima dell’inizio della lettura, in circle time, con bambini e bambine si può osservare la copertina e andare a caccia degli indizi che le immagini forniscono, chiedendo di esplicitare aspettative o ipotesi sulla storia. In questo modo si inizia a lavorare sulle inferenze, stimolando all’osservazione attenta ai dettagli e alla rielaborazione dei suggerimenti per accedere ai significati della storia.  Al termine della lettura si verificano insieme le ipotesi iniziali. All’inizio è anche possibile nascondere il titolo per stimolare le ipotesi anche su questo, e alla fine chiedere a bambini e bambine quale titolo potrebbe andar bene per la storia letta, svelando l’originale solo alla fine. 
  • Stop alla storia. L’insegnante nel mezzo della lettura, magari in un momento significativo della narrazione, può fermarsi improvvisamente chiedendo alla classe di fare ipotesi sulla continuazione, anche in base ai dettagli raccolti nella prima parte della storia. Qui si aprirà una conversazione di approfondimento, dove potremo stimolare a raccontare ipotesi esplicitando anche il pensiero che li ha portati a tali conclusioni. Lavoreremo ancora una volta sulle inferenze e aiuteremo gli alunni e le alunne a costruire significati in un processo attivo di costruzione e scoperta.
  • L’intervista. A lettura conclusa possiamo chiedere a bambini e bambine di preparare un’intervista per un personaggio della storia. Per poter costruire domande mirate e precise si dovrà fare un’analisi attenta dei dettagli relativi alle azioni, ai pensieri, ai luoghi. In questo modo aiuteremo alunni e alunne ad andare a fondo della storia, immedesimandosi nelle vicende narrate.
  • Rilettura. Molto spesso gli alunni chiedono la rilettura di alcuni testi, o possiamo noi docenti prevederla a priori. Potremo allora sfruttare l’occasione per omettere alcune parole, chiedendo ai bambini e alle bambine di ricostruire i pezzi mancanti. Un’altra attività potrebbe essere quella di lavorare sui sinonimi e parole nuove, chiedendo di raccogliere le parole nuove per arricchire il vocabolario di classe o trovarne delle nuove da utilizzare nella storia per sostituire le originali. 

Il tempo dedicato alla lettura è prezioso: se ai bambini si fa sperimentare la bellezza, se si fa loro toccare con mano la meraviglia e lo stupore, saranno poi attenti a riconoscerla nel mondo, sapranno cogliere la bellezza delle piccole e grandi cose, della natura dell’arte o dell’intelletto. (Capetti, 2018)

Per approfondire

  • Capetti, A. (2018). A scuola con gli albi. Insegnare con la bellezza delle parole e delle immagini. Franco Angeli.
  • Picherle, S. B. (2015). Formare lettori, promuovere la lettura. Riflessioni e itinerari narrativi tra territorio e scuola. Topipittori.
  • Riz, J. P., & Pognante, S. (2022). Educare alla lettura con il WRW – Writing and Reading Workshop. Edizioni Centro Studi Erickson.