Le catacombe paleocristiane: un viaggio nel sottosuolo della fede

Le catacombe paleocristiane rappresentano un’affascinante testimonianza della fede e delle pratiche funerarie dei primi cristiani. Queste necropoli sotterranee, scavate in terreni teneri come il tufo, offrono un prezioso spaccato sulla vita religiosa e sociale delle comunità cristiane nei primi secoli dell’era volgare. L’adozione delle catacombe come luoghi di sepoltura da parte dei cristiani risponde a una complessa serie di fattori, tra cui:

  • le persecuzioni: i cristiani, considerati una setta eversiva dall’Impero Romano, spesso subivano persecuzioni e discriminazioni. Le catacombe offrivano un luogo sicuro e appartato per seppellire i propri defunti.
  • Il culto dei martiri: i martiri, cioè coloro che morivano per la fede, erano venerati dai cristiani. Le catacombe divennero così luoghi di culto e di pellegrinaggio, dove si conservavano le reliquie dei martiri. 
  • Il simbolismo: le catacombe erano cariche di significati simbolici. L’oscurità delle gallerie rappresentava la morte, mentre i dipinti murali e le iscrizioni alludevano alla speranza nella resurrezione e alla vita eterna.

Struttura e decorazioni

Generalmente caratterizzate da una struttura labirintica, con lunghe gallerie (ambulacri) e numerose nicchie (loculi) scavate nelle pareti le catacombe sono ricoperte con decorazioni, prevalentemente di carattere religioso, che includono affreschi raffiguranti scene bibliche (come il Buon Pastore, l’Oratio, l’Eucaristia), simboli cristiani (licthus, l’anfora, la colomba) e motivi ornamentali; iscrizioni, ovvero brevi testi in greco o latino, che spesso contengono il nome del defunto, la sua professione e formule di preghiera.

Le catacombe come fonte storica

Oltre all’eccezionale valore religioso, le catacombe costituiscono una fonte primaria di inestimabile valore per lo studio della storia del cristianesimo primitivo. Attraverso l’analisi delle decorazioni, delle iscrizioni e della disposizione dei sepolcri, gli archeologi hanno potuto ricostruire non solo aspetti importanti della vita religiosa ma anche particolarità dell’organizzazione sociale e culturale dei primi cristiani.

Le catacombe più famose

Tra le catacombe più note si annoverano quelle di Roma (San Callisto, Priscilla), Napoli (San Gennaro) e Palermo. Ognuna di esse presenta caratteristiche peculiari e offre un’affascinante testimonianza della diffusione del cristianesimo nel Mediterraneo.

In conclusione, le catacombe paleocristiane rappresentano un patrimonio archeologico e storico di inestimabile valore. Questi luoghi sotterranei, carichi di storia e di spiritualità, offrono ai visitatori moderni un’esperienza unica e toccante, consentendo di entrare in contatto diretto con le radici più profonde e antiche del cristianesimo.

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Dentro il vortice dell’iperalimentazione

L’iperalimentazione è un fenomeno sempre più diffuso nelle società occidentali, con gravi ripercussioni sulla salute pubblica. Le cause di questa perdita di controllo sull’appetito sono multifattoriali e coinvolgono, tra gli altri, fattori biologici, genetici, ambientali e culturali. Durante il percorso formativo svolto dagli studenti degli Istituti Alberghieri, dato che la prospettiva professionale è quella di diventare Operatori del Settore Alimentare (OSA), può essere molto utile, per il docente di Scienza e Cultura dell’Alimentazione, moderare una discussione attorno alla questione “perché abbiamo sempre fame?”.

Le diverse chiavi di intervento, di seguito proposte, si prestano a diventare oggetto di approfondimento multidisciplinare e di confronto tra i discenti. Questi ultimi, per ciascuno dei fattori oggetto di discussione, potrebbero essere invitati a discutere sulle potenziali soluzioni che potrebbero essere adottate tanto nella sfera privata quanto, se dovessero presentarsi margini di intervento, nella sfera professionale. Esploriamo, pertanto, alcuni percorsi didattici che possono essere intrapresi per stimolare una discussione in classe.

La fame come “fenomeno metabolico-genetico”

Per anni, si è creduto che l’iperalimentazione fosse semplicemente un problema psicologico, un modo per soddisfare bisogni emotivi inespressi. Tuttavia, la ricerca scientifica ha rivelato un quadro molto più complesso, svelando i meccanismi biochimici che regolano l’appetito e la sensazione di sazietà. Un’ipotesi sempre più accreditata sostiene che l’iperalimentazione sia una conseguenza di una carenza nutrizionale. Le diete ricche di alimenti processati, povere di nutrienti essenziali come vitamine, minerali e proteine, possono innescare una fame persistente. Il corpo, cercando di compensare queste carenze, ci spinge a mangiare in eccesso.

Sempre maggiore attenzione, inoltre, viene rivolto al ruolo di alcuni ormoni. La leptina, un ormone prodotto dalle cellule adipose, svolge un ruolo cruciale nel segnalare al cervello che abbiamo mangiato abbastanza. La leptina è un ormone che segnala al cervello lo stato di sazietà. Tuttavia, un’alimentazione eccessiva e prolungata può desensibilizzare i recettori cerebrali alla leptina, compromettendo così la percezione della sazietà. Il nostro corpo, più precisamente, produce sempre più leptina, ma le cellule smettono di rispondere. È come gridare a qualcuno che non ti sente. Anche l’insulina, un altro ormone importante per regolare i livelli di zucchero nel sangue, smette di funzionare correttamente. Quando questi due problemi si presentano insieme, si parla di sindrome metabolica.

Questa condizione aumenta il rischio di diabete, malattie cardiovascolari e altre patologie gravi. Anche la nostra predisposizione genetica gioca un ruolo importante nell’obesità. Alcuni geni possono influenzare il nostro metabolismo e la nostra capacità di immagazzinare grasso. Tuttavia, l’ambiente in cui viviamo, le nostre abitudini alimentari e il nostro stile di vita hanno un impatto ancora maggiore. Mangiare troppo spesso e male, pertanto, può portare a un circolo vizioso: più mangiamo, più il nostro corpo diventa resistente ai segnali di sazietà, e di conseguenza mangiamo ancora di più. Questo può portare a obesità e a una serie di problemi di salute. In sintesi: la fame eccessiva può essere causata da un malfunzionamento del sistema che regola l’appetito e la sazietà.

La fame “batterica”

Il corpo umano è un intricato ecosistema, un motore biologico alimentato da una complessa interazione tra cellule umane e miliardi di batteri. Questa simbiosi è alla base della nostra capacità di rigenerarci continuamente. La dieta, selezionando specifici tipi di batteri intestinali, influenza profondamente il nostro metabolismo e, di conseguenza, la nostra salute. La sindrome metabolica, ad esempio, è un disturbo complesso in cui dieta e batteri intestinali giocano un ruolo fondamentale. I batteri, in particolare i Firmicuti, possono alterare il nostro metabolismo, aumentando il desiderio di cibi zuccherati e favorendo l’obesità. Questa ‘fame batterica’ influenza sia la nostra fisiologia che la nostra psicologia, contribuendo a un circolo vizioso che può portare alla malattia. La scoperta del ruolo fondamentale del microbiota intestinale nella nostra salute, pertanto, apre nuove prospettive per la prevenzione e la cura di molte malattie. 

La fame “farmacologica”

Molti farmaci di uso comune possono aumentare l’appetito, portando ad un aumento di peso. Questo effetto è spesso sottovalutato, soprattutto quando si tratta di malattie croniche che prevedono lunghi periodi di assunzione farmacologica. Gli antibiotici utilizzati per combattere le infezioni, ad esempio, possono alterare il microbiota intestinale. Questo squilibrio può stimolare la produzione di ormoni, come la grelina, in grado di aumentare lo stimolo dell’appetito. 

Le altre categorie di farmaci in grado di spingere un soggetto all’iperalimentazione appartengono alle seguenti categorie:

  • antistaminici, farmaci utilizzati per le allergie, possono stimolare la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore legato al piacere e al desiderio di cibo;
  • antidepressivi, possono aumentare l’appetito come effetto collaterale;
  • antipertensivi, possono interferire con la produzione di insulina, favorendo l’accumulo di grasso;
  • corticosteroidi e contraccettivi orali, sono in grado di stimolare l’appetito e favorire la ritenzione idrica.

È fondamentale che gli studenti comincino ad acquisire informazioni corrette per fare scelte alimentari consapevoli e promuovere uno stile di vita sano. Gli spunti per l’insegnamento di “Scienza e Cultura dell’Alimentazione” che conseguono da quanto riportato sopra sono molteplici:

  • alimentazione e salute: sottolineare l’importanza di un’alimentazione equilibrata per mantenere un microbiota intestinale sano prevenire malattie legate al metabolismo;
  • probiotici e prebiotici: invitare gli studenti a riflettere sul ruolo dei probiotici (batteri “buoni”) e dei prebiotici (fibre alimentari che nutrono i batteri buoni) nella promozione della salute intestinale e di come, nella vita professionale, possono rendere concrete le con conoscenze acquisite;
  • relazione tra mente e intestino: evidenziare come l’intestino e il cervello siano in costante comunicazione e come l’alimentazione possa influenzare il nostro umore e il nostro benessere psicologico. Valutare, in questo contesto, quali implicazioni professionali si prospettano per le scelte che gli OSA si troveranno ad operare; 
  • educazione alimentare: incoraggiare gli studenti a fare scelte alimentari consapevoli, a leggere con attenzione la lista degli ingredienti e le informazioni nutrizionali riportate nelle etichette degli alimenti processati in modo tale da valutare gli alimenti che consumano non soltanto in funzione delle loro caratteristiche sensoriali.

L’autore

Luca La Fauci è autore, per Rizzoli Education, di testi scolastici dedicati alle discipline Scienza e Cultura dell’Alimentazione e Scienza degli Alimenti.

Sulle Pareti della Storia

“Papà, guarda, bisonti!” 

Con queste parole, pronunciate nel 1879 da una bambina di 8 anni, Maria, è stata riscritta la storia dell’arte. Maria era la figlia di un archeologo dilettante, don Marcelino Sanz de Sautuola e stava indicando al padre i bisonti dipinti della grotta di Altamira, nel nord della Spagna, oggi uno degli esempi più emblematici di arte preistorica mai scoperti in Europa.

Il vibrante rosso ruggine dei corpi dei bisonti dipinti era così ben conservato che l’archeologo fu accusato di aver tracciato egli stesso quelle meravigliose rappresentazioni, a caccia di notorietà. Gli storici dell’epoca erano comprensibilmente scettici di fronte a quelle immagini, che non ritenevano possibile essere state tracciate dalle mani di uomini del 13.000 a.C., che significa tre volte più antichi di Stonehenge o delle piramidi di Giza. 

Quando parliamo di arte rupestre, ci riferiamo a quelle straordinarie rappresentazioni che i nostri lontani antenati hanno lasciato sulle pareti di grotte e caverne in tutto il mondo. Queste opere, tracce vive della creatività dell’uomo preistorico, sono come finestre aperte su un passato affascinante e misterioso, un tempo in cui l’essere umano cercava di interpretare e raccontare il mondo circostante attraverso il segno e il colore.

Ma cosa rappresenta davvero l’arte rupestre? Quali segreti si celano dietro queste antiche testimonianze? Quali tecniche e materiali venivano utilizzati per creare immagini capaci di attraversare i millenni? E quale significato avevano per le culture che le hanno prodotte? Questi interrogativi ci guidano in un viaggio senza tempo, alla scoperta delle radici profonde dell’arte e del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente.

L’arte rupestre è una delle più antiche forme di espressione artistica conosciuta dall’umanità, risalente al periodo del Paleolitico, che si estende da circa 40.000 anni fa fino a 10.000 anni fa, con una continuazione anche nel Neolitico, fino a circa 3.000 anni fa. La datazione di queste pitture è spesso incerta a causa della possibile contaminazione dei campioni, che può alterare i risultati dei metodi come il radiocarbonio.

Nel dicembre 2019, sono state scoperte a Sulawesi (Indonesia) pitture rupestri risalenti a 35.000-44.000 anni fa. Un anno dopo, un dipinto nella grotta di Leang Tedongnge, datato con il metodo uranio-torio, è risultato essere di almeno 45.500 anni, diventando il più antico esempio noto di arte figurativa umana. Durante il Paleolitico, l’uomo viveva principalmente di caccia e raccolta, spostandosi in base alle stagioni e alle disponibilità di risorse naturali. Le grotte e le caverne non solo offrivano rifugio, ma erano anche luoghi di incontro, di vita sociale e, come dimostrano le pitture rupestri, di espressione creativa.

Gli artisti preistorici utilizzavano le pareti di queste cavità naturali come tele su cui rappresentare il mondo che li circondava: gli animali che cacciavano, le scene di vita quotidiana e, forse, anche simboli legati a credenze religiose e rituali. Oltre ai dipinti murali, l’arte preistorica comprendeva anche sculture, incisioni su pietra e osso, ma è proprio l’arte rupestre a rappresentare la forma di espressione più diffusa e più affascinante, per via delle tecniche utilizzate e della sua collocazione nei siti naturali.

I soggetti rappresentati più frequentemente nelle pitture rupestri sono grandi animali selvatici, come bisonti, cavalli, uri (gli antenati delle nostre vacche domestiche) e cervi, insieme a impronte di mani umane e motivi astratti noti come “scanalature delle dita”. Sebbene queste specie animali fossero idonee alla caccia da parte dell’uomo, non sempre corrispondevano alle prede effettivamente consumate, come dimostrano i resti ossei rinvenuti nei siti archeologici. Un esempio è dato dai pittori di Lascaux, che hanno lasciato prevalentemente ossa di renna, mentre questa specie non è raffigurata nelle pitture, dove predominano, invece, i cavalli. Le rappresentazioni umane, erano rare e stilizzate, contrariamente alla maggiore precisione riservata agli animali.

La Tavolozza Naturale dell’Artista Preistorico: Materiali e Pigmenti

Uno degli aspetti più straordinari dell’arte rupestre è l’uso creativo che gli artisti preistorici facevano dei materiali naturali. Privi di strumenti sofisticati, si affidavano completamente ai pigmenti reperibili nell’ambiente circostante. La gamma cromatica di cui disponevano era sicuramente limitata rispetto a quella moderna, ma i risultati sono senza dubbio degni di nota. Gli artisti preistorici utilizzavano una gamma cromatica composta principalmente da quattro colori: bianco, rosso, giallo e nero e loro sfumature.

Questi pigmenti venivano ottenuti da minerali e terre naturali e applicati alle pareti delle grotte attraverso tecniche diverse, a seconda delle risorse disponibili e del contesto ambientale. Ad esempio, gli uomini del Paleolitico usavano la calcite (CaCO₃) come pigmento bianco, un minerale composto da carbonato di calcio, generalmente di origine sedimentaria. Il colore bianco poteva essere ricavato anche dalla caolinite, da rocce silicee e dalle ossa degli animali. Altri colori, come rossi e gialli venivano ottenuti dalla lavorazione di ocre, miscele di argilla e ossidi di ferro.

L’ocra è una classe di geomateriali più comunemente costituiti da argilla, silice e ossidi di ferro. Di solito è ricca di ossidi di ferro, che si presentano in diverse forme cristalline. Le ocre rosse, in particolare, erano tra i pigmenti più utilizzati in Europa e Africa, e a seconda della concentrazione di ossido di ferro potevano assumere tonalità che variavano dal giallo pallido al rosso intenso. Quelli principalmente usati nell’arte parietale erano l’ematite, la goethite e la limonite.

L’ematite (Fe2O3) prende il nome dal termine greco che significa “sangue”, per il suo colore che ricorda il sangue coagulato. Dall’ematite si ottengono per esempio i toni del rosso tipici dei disegni della grotta di Altamira (Spagna) e di Lascaux (Francia). La goethite, invece, è un minerale composto da idrossido di ferro, con un colore che può variare dal giallo bruno al nero. Il suo nome è un omaggio a Johann Wolfgang von Goethe, tra i primi ad occuparsi di teoria del colore. Un importante giacimento di goethite, sfruttato già nel Paleolitico, si trova nei pressi della Grotta della Monaca, in provincia di Cosenza.

Da questo minerale si ottenevano pigmenti caratterizzati da tonalità che spaziavano dal bruno all’ocra. La limonite, invece, indica un ossido idrato di ferro contenente un certo numero di molecole di acqua che si forma per disfacimento di minerali ferrosi. E’ di fatto una miscela di minerali e materiali amorfi. I colori variano dal giallo ocra al marrone. Per quanto riguarda, in ultimo, i toni del nero, questi venivano ottenuti dalla combustione di sostanze organiche, come il carbone, il legno, l’osso o il corno, oppure da minerali come l’ossido di manganese. In alcune regioni, veniva anche utilizzato il biossido di manganese, che conferiva al pigmento nero una tonalità più intensa e resistente.

Il rosso: il primo colore

Va fatta una considerazione particolare sul colore rosso. Il rosso è il colore archetipico, il primo che l’uomo abbia effettivamente ottenuto e padroneggiato. Per millenni il rosso è stato l’unico colore degno di tale nome e infatti spesso “colore”, “bello” e “rosso” sono sinonimi in diverse lingue. Proprio su questo colore l’uomo ha fatto i primi esperimenti e costruito il suo universo cromatico. Proprio sul rosso sono state studiate per la prima volta le sfumature.

Prima di dipingere l’uomo ha iniziato a tingere e dipingersi il corpo. Il rosso ha avuto presto un ruolo importante nelle pratiche ornamentali e nei “letti” color ocra rosso trovati tra gli arredi funerari di alcune tombe. Il colore aveva probabilmente lo scopo di proteggere il defunto durante il suo viaggio, dato che era un colore considerato “magico”, ma è palese che i rossi nella preistoria hanno una triplice funzione: deittica, preservativa ed estetica. In quell’epoca uomini e donne si distinguevano, proteggevano ed abbellivano con il rosso.

Le recenti analisi mostrano come certe ocre gialle venissero scaldate in crogioli di pietra in modo da far perdere loro l’acqua, in modo da trasformarle in ocre rosse. Allo stesso modo, alcuni pigmenti erano arricchiti da sostanze allo scopo di modificarne il colore coprente. Possiamo quasi parlare di chimica: un conto è bruciare legna e fare del carbone per ottenere il nero, ma un altro è estrarre dal suolo l’ematite, lavarla, filtrarla, ridurla in polvere in un mortaio, mescolarla con il feldspato e l’olio vegetale o il grasso animale per dare sfumature diverse. Forse non possiamo parlare di vere e proprie ricette, ma è difficile da dire, dal momento che quello che vediamo è il risultato del tempo e non possiamo vedere lo stato originale. 

I leganti

Oltre ai pigmenti, gli artisti preistorici impiegavano vari leganti naturali per fissare i colori alle superfici rocciose, come grassi animali, resine, cere e sangue. Questi venivano mescolati ai pigmenti per ottenere vernici più resistenti, favorendo una migliore adesione alle pareti e garantendo la conservazione delle opere per millenni. Spesso, i colori venivano preparati con acqua naturalmente ricca di calcio, che assicurava resistenza e aderenza.

Tuttavia, per questi straordinari dipinti venivano utilizzate anche sostanze oleose o grasse, come albume d’uovo, grasso animale, cere o sangue, che fungevano da agenti agglomeranti. La superficie scabra delle grotte faceva il resto, essendo perfettamente adatta a far sì che il composto di pigmento e legante restasse perfettamente adeso. Non solo, favoriva anche gli effetti tridimensionali delle pitture, grazie alle ombre che vi si formavano a seconda dell’incidenza della luce.

La Disponibilità Regionale dei Materiali

La disponibilità di questi materiali pittorici variava notevolmente da una regione all’altra, influenzando le caratteristiche cromatiche delle opere d’arte rupestre. In Europa occidentale, ad esempio, le ocre rosse erano particolarmente diffuse, dando origine a pitture caratterizzate da tonalità calde e vibranti. In altre aree, come l’Africa e l’Australia, si utilizzavano una gamma più ampia di pigmenti, con diverse sfumature di rosso, giallo e nero.

Strumenti e Tecniche: La Creatività del Mondo Preistorico

Nonostante la semplicità apparente dei materiali e degli strumenti a disposizione, l’arte rupestre è un esempio straordinario di abilità tecnica e creatività. Gli artisti preistorici utilizzavano diverse tecniche per applicare i pigmenti alle pareti delle grotte, dimostrando una profonda comprensione delle proprietà dei materiali e delle superfici rocciose. Gli strumenti utilizzati per dipingere variavano a seconda delle risorse disponibili e del tipo di pittura che si desiderava realizzare. Spesso dipingevano semplicemente con le dita, che consentivano loro di dosare il colore e creare linee sottili o spesse secondo necessità.

Per un’applicazione più precisa, impiegavano pennelli rudimentali fatti con peli di animali, erbe, muschio o fibre vegetali, legati a bastoncini o ossa, ottenendo così tratti uniformi e dettagliati. Per coprire aree estese o creare sfumature, usavano tamponi di muschio o pelle, che garantivano una stesura morbida e omogenea del pigmento. Un’altra tecnica consisteva nel soffiare il colore attraverso tubi o ossa cave, generando un effetto nebulizzato ideale per ampie superfici e ombreggiature delicate.

Oltre agli strumenti, gli artisti svilupparono vari metodi per ottenere effetti visivi complessi. Molte pitture rupestri sono realizzate a mano libera, con figure tracciate direttamente sulla roccia, variando dai contorni semplici a rappresentazioni dettagliate. Per dare profondità e dinamismo, sovrapponevano i colori e li sfumavano, come nell’uso dell’ocra rossa con linee nere sovrapposte per evidenziare i contorni e creare contrasto. Inoltre, sfruttavano le irregolarità della roccia, utilizzando sporgenze naturali per enfatizzare parti del disegno, come la testa o il corpo di un animale, conferendo così un effetto tridimensionale e un senso di movimento.

L’Interpretazione Simbolica: Significati e Funzioni delle Pitture Rupestri

Un aspetto cruciale dell’arte rupestre, che affascina studiosi e archeologi, è la sua possibile funzione simbolica. Sebbene non possiamo sapere con certezza cosa rappresentassero queste pitture per chi le realizzava, sono state formulate numerose teorie sulle motivazioni che spingevano gli uomini preistorici a decorare le pareti delle grotte.

Teoria della Magia della Caccia

Una delle ipotesi più diffuse è che le pitture rupestri fossero legate a riti propiziatori per la caccia. Secondo questa teoria, le rappresentazioni di animali sulle pareti delle grotte avevano un significato magico-religioso: gli artisti dipingevano gli animali per garantirsi il successo nella caccia, come se la loro raffigurazione potesse influenzare il mondo reale. In questo contesto, l’arte rupestre assumeva una funzione rituale e spirituale, un modo per interagire con le forze della natura e per garantirsi la sopravvivenza.

Teoria della Fertilità

Un’altra teoria suggerisce che le pitture rupestri fossero legate a riti di fertilità, non solo della terra ma anche degli esseri umani e degli animali. In alcune pitture, si osservano figure stilizzate di esseri umani in posizioni che potrebbero richiamare simboli di fertilità o di nascita. Questo potrebbe indicare che l’arte rupestre non rappresentava solo la caccia e la vita quotidiana, ma anche un desiderio di garantire la prosperità della comunità e la continuità della specie.

Significato Astronomico e Calendario

Recentemente, alcuni studiosi hanno proposto che alcune pitture rupestri possano avere un significato astronomico. Secondo questa teoria, le rappresentazioni di animali e simboli potrebbero corrispondere a costellazioni o eventi stagionali, e l’arte rupestre potrebbe essere stata utilizzata come una sorta di calendario preistorico. Le posizioni delle stelle e dei pianeti potevano essere osservate e interpretate dagli artisti per prevedere i cicli stagionali, le migrazioni degli animali e altre informazioni cruciali per la sopravvivenza della comunità.

Funzione Sociale e Identità di Gruppo

Oltre al loro possibile significato religioso o rituale, le pitture rupestri potrebbero avere avuto anche una funzione sociale, rappresentando l’identità e i valori di un gruppo specifico. Le grotte decorate potevano essere luoghi di incontro e celebrazione per le comunità, e l’arte rupestre poteva fungere da simbolo di appartenenza a un gruppo o a una tribù. In questo senso, l’arte non era solo un’espressione individuale, ma anche collettiva, con un forte significato culturale e sociale.

I Grandi Siti dell’Arte Rupestre: Casi Studio

Per comprendere meglio l’importanza e la varietà dell’arte rupestre, esaminiamo alcuni dei più importanti siti archeologici del mondo, famosi per la straordinaria qualità delle pitture conservate al loro interno.

Le Grotte di Lascaux (Francia)

Le Grotte di Lascaux, scoperte casualmente nel 1940 in Francia, sono considerate uno dei tesori più preziosi dell’arte rupestre paleolitica. Le pareti delle grotte sono decorate con oltre 600 pitture e incisioni che risalgono a circa 17.500 anni fa, durante il Paleolitico superiore. Le pitture rappresentano principalmente animali, come bisonti, cavalli, cervi e tori, ritratti con un realismo sorprendente. Una delle sale più famose è la Sala dei Tori, che ospita un ciclo di dipinti raffiguranti un grande gruppo di bovini in movimento.

Le tecniche utilizzate per realizzare le pitture di Lascaux sono particolarmente affascinanti. Gli artisti preistorici utilizzavano pigmenti naturali come ocra rossa e gialla, nero (ottenuto da ossidi di manganese e carbone) e bianco (da calcare o argille). I colori venivano applicati con pennelli rudimentali, tamponi di muschio o soffiati attraverso ossa cave, creando effetti di profondità e dinamismo. Gli studi più recenti hanno rivelato che per ottenere alcune tonalità particolari, gli artisti di Lascaux utilizzavano ossa di animali cotte ad alte temperature, un processo che dimostra una conoscenza sofisticata dei materiali e dei processi a cui andavano incontro

Purtroppo, l’apertura al pubblico delle grotte nel XX secolo ha causato danni irreparabili alle pitture, dovuti a umidità e anidride carbonica prodotta dai visitatori. Per proteggere questo inestimabile patrimonio, le grotte sono state chiuse al pubblico nel 1963, e oggi è possibile visitare una replica fedele, Lascaux II, che permette di ammirare queste meraviglie senza danneggiare gli originali.

Grotta di Altamira (Spagna)

La Grotta di Altamira, situata in Cantabria, Spagna, è un altro straordinario esempio di arte rupestre paleolitica, risalente a oltre 35.000 anni fa. Scoperta nel 1879, questa grotta custodisce pitture parietali che rappresentano principalmente animali, come bisonti, cervi e cavalli, ritratti con grande abilità e precisione. Gli artisti di Altamira sfruttarono le irregolarità della roccia per creare effetti tridimensionali, dando l’impressione che gli animali emergessero dalla parete.

I pigmenti utilizzati nelle pitture di Altamira erano simili a quelli di Lascaux: ocra rossa e gialla, nero (ossidi di manganese) e bianco. Le pitture venivano realizzate a mano libera e i colori venivano stesi con tamponi di pelle o muschio per ottenere effetti morbidi e realistici. Una delle tecniche più sorprendenti utilizzate ad Altamira è la rappresentazione delle mani in negativo, ottenuta soffiando pigmento attorno alle mani appoggiate sulla parete.

Come Lascaux, anche Altamira è stata chiusa al pubblico per proteggere le pitture dall’umidità e dai cambiamenti atmosferici causati dai visitatori. Oggi, una replica della grotta permette di ammirare le pitture senza mettere a rischio le opere originali.

Grotta di Chauvet (Francia)

Scoperta nel 1994, la Grotta di Chauvet, situata nel sud della Francia, è uno dei più importanti siti di arte rupestre paleolitica al mondo. Le pitture e le incisioni che decorano le pareti della grotta risalgono a circa 32.000-36.000 anni fa e rappresentano un’incredibile varietà di animali, tra cui bisonti, mammut, cavalli, leoni, orsi e rinoceronti. Una delle caratteristiche più sorprendenti di Chauvet è la rappresentazione dettagliata e dinamica degli animali, realizzata con un’abilità tecnica straordinaria.

Gli artisti di Chauvet utilizzavano pigmenti naturali come ocra rossa, carbone e ossidi di manganese, applicati con tecniche simili a quelle utilizzate a Lascaux e Altamira. Le pitture erano realizzate a mano libera, con l’aggiunta di tamponi e pennelli rudimentali per creare sfumature e dettagli. A Chauvet, gli artisti preistorici dimostrarono una conoscenza sorprendente della prospettiva e del movimento, sovrapponendo figure e utilizzando linee curve per dare vita a scene complesse.

Come negli altri siti di arte rupestre, anche Chauvet è stata chiusa al pubblico per preservare le pitture dal degrado causato dall’esposizione all’aria e dall’umidità. Una replica della grotta, chiamata Chauvet 2, è stata inaugurata nel 2015 e offre ai visitatori l’opportunità di esplorare questa meraviglia dell’arte preistorica senza danneggiare le opere originali.

L’arte rupestre non è solo un’incredibile eredità culturale, ma anche un ponte che ci collega a chi, migliaia di anni fa, ha cercato di dare forma al proprio mondo, dimostrando che la creatività e il desiderio di esprimersi sono caratteristiche universali dell’umanità.

L’autrice

Eva Munter, su Instagram è Chimica in pillole.

Che Storia! | Public History: avvicinare il passato al presente

A settembre 2024 la giunta di Milano ha accolto la proposta di ragazzi e ragazze tra gli 8 e i 13 anni di intitolare i percorsi dei giardini Montanelli a tre scienziate: l’astrofisica Margherita Hack, la zoologa Dian Fossey e la pioniera della fisica Laura Bassi. Diventate famose in ambito accademico e internazionale in tempi diversi, ora diventeranno protagoniste di uno dei parchi più amati della città. In questo esempio ritroviamo uno degli obiettivi della Public History: avvicinare il passato al presente

COS’È LA PUBLIC HISTORY?

Cos’è la Public History? E perché è importante portarla in classe? Nei corsi di Valerio Castronovo, Milleduemilatrenta e Effetto storia, sono proposte numerose schede dedicate alla Public History.  A cominciare da quella introduttiva che si apre con una definizione di Serge Noiret per il quale la Public History  è “la storia applicata alla società in cui viviamo. Essa consiste nel produrre, conservare e diffondere la storia nel territorio e nel tessuto sociale, con ogni tipo di linguaggio, di strumento e di tecnica, per e con ogni tipo di pubblico”. 

Nel concreto sotto il grande cappello della Public History confluiscono numerose pratiche, numerose attività: le mostre, la letteratura, i film, il gaming, i festival di storia, le rievocazioni storiche, la toponomastica, la valorizzazione dei luoghi, i memoriali e molto altro ancora. 

L’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PUBLIC HISTORY (AIPH) E SERGE NOIRET

In Italia la Public History è una disciplina relativamente giovane. È nel 2016 che, con il sostegno della International Federation for Public History (IFPH) e della Giunta Centrale per gli Studi Storici, nasce l’Associazione Italiana di Public History (AIPH). Tra i cofondatori e attuale Presidente troviamo Serge Noiret, dottore di ricerca in Storia contemporanea dell’Istituto Universitario Europeo, esperto di storia politica italiana, storia digitale e, ovviamente, Public History. 

In questo video lo studioso traccia una panoramica del mondo della Public History, dalla nascita di questa disciplina in America all’arrivo in Italia, dalle sue pratiche ai suoi obiettivi. La Public History rappresenta una grande risorsa, anzi grandissima per le nuove generazioni di studenti e studentesse perché  “la crescita di una piena e consapevole cittadinanza passa attraverso una più diffusa conoscenza del passato che consenta il riconoscimento di una storia plurale e il superamento dei pregiudizi che si moltiplicano nella contemporaneità”.

LA PUBLIC HISTORY ENTRA NELLE SCUOLE

Come portare dunque la Public History nelle scuole? La strada ci viene indicata dall’AIPH e dall’INDIRE (Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa) che da tempo si impegnano per creare connessioni tra Public History e didattica e avvicinare le/i giovani alla storia con spirito critico e suscitando interesse, partecipazione, passione.  

In questo webinar Gianfranco Bandini, docente in Metodologia della Ricerca Pedagogica presso l’Università di Firenze insieme a Pamela Giorgi, Primo Ricercatore dell’INDIRE, ci parlano proprio di progettazione di percorsi di apprendimento della storia con i linguaggi partecipati della Public History, dimostrando la forza di una didattica partecipativa piuttosto che puramente trasmissiva. 

STRUMENTI DIDATTICI PER COINVOLGERE STUDENTI E STUDENTESSE DEL TRIENNIO 

Conoscere la storia giova al presente e al futuro: con questa convinzione proponiamo schede operative dedicate alla Public History con spunti di riflessione, approfondimenti, aneddoti per ogni anno del triennio 

TERZO ANNO

Medievalismo e Medioevo immaginario 

Il Medioevo non è mai stato tanto in voga, protagonista di serie TV, fumetti e videogiochi che catturano l’attenzione dei giovani. Nella scheda si approfondisce il tema a partire da qualche dubbio: il Medioevo è visto sia come oscurantista sia come un mitico passato da rievocare. Perché? Quale valore può avere il Medioevo “fantasy”?

 

Cosa significano i nomi delle vie? 

L’odonomastica è una delle pratiche della Public History, che va a ricercare non solo l’origine dei nomi delle strade, ma si interroga anche su presenze e assenze: siamo sicuri che i nomi delle strade siano testimonianza della visione della comunità? Perché i nomi delle strade sono per lo più maschili? 

 

QUARTO ANNO

Garibaldi e un Risorgimento “pop” 

Il culto di Giuseppe Garibaldi come Padre della Patria viene celebrato in mille contesti diversi: piazze, statue, mostre, videogiochi hanno come protagonista indiscusso l’eroe dei due mondi. Quanto aiutano le immagini iconiche a costruire le identità nazionali? La scuola usa propriamente le immagini per esplorare il passato?

 

#cancelculture 

La cancelculture tende a mettere la storia “sotto processo”, a giudicare personaggi e azioni del passato attraverso il punto di vista e le prospettive del presente. Il dibattito su questo approccio è quantomai caldo e attuale. Come rielaborare i miti di un passato che non ci rappresenta più? Come conciliare la rielaborazione sul passato e lo studio della storia a scuola?

 

QUINTO ANNO

La Grande Guerra: una memoria europea condivisa 

Per l’Unione Europea il ricordo del Primo Conflitto Mondiale è ancora capace di parlare all’oggi e di sensibilizzare le nostre coscienze. Ma fare storia in modo “tradizionale” basta a formare una coscienza comune? Quali altri strumenti si possono  mettere in campo per rielaborare una memoria europea condivisa sul conflitto? 

 

Il calendario civile 

Il calendario civile comprende quelle ricorrenze fondamentali celebrate dallo Stato Nazionale, dal potere politico e dalla collettività. Come e perché mutano le festività in base ai cambiamenti politici? Qual è il ruolo della scuola per rendere intelligibile il calendario civile?

 

PER APPROFONDIRE

Rivedi le lezioni:

 

Un quarto d’ora per vivere la città

Dibattiti, workshop, pubblici incontri, seminari. Il tema, inflazionato e non senza strumentalizzazioni e polemiche, spopola oramai da tempo e ovunque. È la città dei 15 minuti, il nuovo modello di pianificazione urbana teorizzato dal franco-colombiano Carlos Moreno, docente presso IAE Paris Business School – University Paris 1 Panthéon Sorbonne. 

 

Il modello urbanistico di Moreno pone al centro l’individuo e “un’equa distribuzione di tutte le funzioni sociali essenziali per vivere, lavorare, prendersi cura, imparare e divertirsicome lo stesso ricercatore dichiara in un’intervista per il Politecnico di Milano “in modo che tutti i residenti possano beneficiare di tempi di accesso più brevi”. 15 minuti appunto di percorrenza, a piedi, attraverso l’utilizzo di mezzi pubblici o in bicicletta, liberi dal traffico veicolare. 

Perché i nuovi quartieri della città del quarto d’ora, oltre a rispondere alle esigenze essenziali di un benessere collettivo e ad assicuare quindi servizi di prossimità (dall’ospedale all’istruzione, dallo sport alla cultura), devono anche rispondere all’emergenza climatica dovuta all’inquinamento da emissioni di C02  

Pioniere della smart city, Moreno presenta la sua ville du ¼ d’heure a partire dal 2016 ma sarà l’attuale sindaco di Parigi, Hanne Hidalgo a darne una prima concreta applicazione e ad usarla anche nella campagna elettorale per la sua rielezione nel 2020. Tra i punti cardine del suo Manifesto Paris en Commun: incremento di piste ciclabili e spazi pubblici, incentivi per i negozi di quartiere e ridistribuzione delle strutture sanitarie.

Né poteva mancare l’applicazione degli obiettivi teorizzati da Moreno all’ultima edizione di questi giochi olimpici nell’ambito dei quali il ricercatore focalizza l’attenzione sulla trasformazione urbana del comune di Saint-Denis, da ex sobborgo industriale della banlieue a sito scelto per erigere il villaggio olimpico. Le ricadute però di questa metamorfosi si potranno misurare solo nel tempo. 

Nel mentre il modello della città dei 15 minuti è stato accolto anche da C40, la rete globale di sindaci delle principali città del mondo (tra cui anche Milano e Roma) uniti nell’azione per affrontare la crisi climatica e UN Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani volta a “favorire un’urbanizzazione socialmente ed ambientalmente sostenibile e il diritto ad una casa dignitosa”. 

Dal Moderno in avanti siamo stati dominati da tre elementi; edifici, automobili, strade afferma ancora Moreno. “La rigenerazione delle città passa da una forma di prossimità felice, all’interno della quale è possibile trovare diverse opportunità.

Sarà questa, dunque, la direzione per una radiosa città del futuro?

Rispondere in maniera affermativa sarebbe semplicistico e riduttivo e non terrebbe conto anche delle osservazioni critiche mosse al modello come il rischio di una possibile “ghettizzazione”. Certo è che l’attuale direzione supera le ripartizioni di funzioni per zone e traccia un interessante evoluzione rispetto ai modelli novecenteschi. Allora a fare da protagonisti erano i grandi nomi dell’architettura che oltre ad occuparsi della questione abitativa (che a sua volta assorbiva e rifletteva una temperie culturale nel linguaggio estetico) potevano esser chiamati a redigere l’intero piano urbanistico di una città (un esempio fra tutti: Le Corbusier per Chandigarh). Ad oggi l’indirizzo di una futura pianificazione sembra non poter prescindere da un approccio di ricerca transdisciplinare che le singole amministrazioni dovranno essere in grado sempre più di recepire ed applicare.  

 

Per approfondire

  • Per conoscere meglio la proposta urbanistica di Moreno si può consultare l’intervista all’architetto pubblicata sul Giornale dell’Architettura:
    Carlos Moreno: «Saranno le Olimpiadi della prossimità. E via tutte le auto dai centri urbani densi»
  • Su Le Corbusier e le proposte urbanistiche di vari esponenti del Movimento Moderno, si veda Valerio Terrraroli, Con gli occhi dell’Arte, Sansoni per la Scuola, vol. 5

Leggere ad alta voce gli albi illustrati: che magia!

Ogni volta che entravo in classe con un nuovo albo illustrato, sapevo di avere tra le mani un oggetto capace di sprigionare una magia incredibile.

Chi ha vissuto l’esperienza di leggere un albo illustrato ad alta voce, anche solo una volta, sa di cosa parlo. Negli anni ho avuto il privilegio di esplorare a fondo la storia degli albi illustrati, scoprendone le caratteristiche tecniche e narrative. Ma con questo articolo vorrei portarvi a scoprire le vere “meraviglie” che questi tesori possono portare nelle aule della scuola primaria, quando li leggiamo ad alta voce.

Oggi, leggere ad alta voce in classe è una vera sfida: c’è la corsa a raggiungere obiettivi di competenze, le scelte didattiche dei colleghi, le valutazioni… Tutto sembra spingere a ridurre il tempo per questi momenti che, in realtà, dovrebbero essere quotidiani. Alcuni credono che questa attività appartenga solo alla scuola dell’infanzia. Ma riservare un “momento di lettura ad alta voce degli albi” significa gettare i semi di futuri lettori appassionati e cittadini consapevoli. Leggere ad alta voce è un regalo che facciamo agli alunni: un tempo di condivisione, inclusione e scoperta, dove parole e immagini si intrecciano per creare qualcosa di speciale.

Nel 2003, due importanti studiosi, Serafini e Giorgis, hanno stilato tredici ragioni che sottolineano l’importanza della lettura ad alta voce:

  1. Aumenta i punteggi dei test standardizzati;
  2. Introduce i lettori a nuovi titoli, autori, illustratori, generi e strutture testuali;
  3. Crea un senso di comunità, condividendo i pensieri sui libri e creando spazi di discussione e relazione;
  4. Porta a riconoscere posizioni di “discussione non univoche”;
  5. È un momento di puro piacere;
  6. Connette gli studenti a nuove conoscenze;
  7. Spinge gli studenti a cercare significati non banali, anche distanti dalle interpretazioni più immediate;
  8. Aumenta l’interesse per la lettura indipendente;
  9. Permette l’accesso a libri che i lettori potrebbero non riuscire a leggere da soli;
  10. Fornisce dimostrazioni di lettura orale e fluidità;
  11. Aiuta i lettori a comprendere il legame tra la lettura a scuola e la lettura nella vita;
  12. Fornisce modelli potenti di scrittura che gli studenti possono mettere in pratica;
  13. Mostra “le cose che fanno i lettori competenti”.

Tra tutti questi punti, due sono quelli che mi colpiscono di più: il terzo e il quinto.

Il terzo perché la lettura ad alta voce permette di creare una comunità di lettori in classe. Ciò che accade quando si ascoltano le parole e si osservano le immagini è una vera e propria “negoziazione di significati”. Pensateci: quanti albi illustrati famosi conoscete che riportano su qualche manuale una spiegazione su cosa significhino davvero? Pochissimi, perché gli albi di qualità sono pieni di significati nascosti. Scoprire con i nostri alunni il legame tra immagine, testo e grafica è infinitamente più stimolante che limitarsi a conoscere l’interpretazione pensata dall’autore o dal critico.

In classe, possiamo fare un lavoro profondo e appassionante: domandarci perché l’autore abbia omesso una parola che appare evidente dalle immagini, discutere se il finale sia in linea con il resto della storia, o ancora riflettere sul motivo della scelta di un particolare font o risguardo. Queste discussioni non sono solo affascinanti, ma preparano i ragazzi alla lettura silenziosa e personale. Attraverso il dialogo, mostriamo ciò che sappiamo e impariamo dagli altri. Più leggiamo ad alta voce, più vedremo migliorare la comprensione, arricchirsi il vocabolario e crescere l’attenzione e l’apprendimento. Senza dimenticare che diventeranno anche più tolleranti verso opinioni diverse dalle proprie.

Il quinto punto, il “puro piacere”, è forse quello a cui tengo di più. I bambini, anche se piccoli, capiscono subito quando un adulto sta facendo qualcosa che ama. E se percepiscono che la lettura è un piacere, saranno curiosi di provarlo anche loro. A volte, è bene leggere semplicemente per il piacere di farlo, senza altri scopi. Ascoltare una bella storia, lasciarsi trasportare dalle illustrazioni… senza fretta, senza obiettivi nascosti.

Quindi, leggiamo ad alta voce, spesso. Cerchiamo di difendere questi “momenti sacri” dalle nostre giornate frenetiche e vedremo emergere tanti benefici. Provare per credere!

La sicurezza sul lavoro

Le stagioni della scuola. L’autunno

Se si pensa all’inizio della scuola, l’associazione con l’autunno è immediata, sebbene le lezioni comincino in estate; probabilmente questo accade perché una volta la scuola iniziava il primo di ottobre.

Quale che sia la motivazione, di solito la prima stagione che viene presentata a scuola è l’autunno. Si osservano gli alberi cambiare veste, si raccolgono le foglie gialle e rosse, si mangiano le castagne. Fin dalla Scuola dell’Infanzia, ogni anno si dedica almeno una lezione al tema dell’autunno. Si fanno esperienze all’aperto, si leggono letture ambientate in questo periodo dell’anno, si fanno lavoretti per decorare l’aula a tema e si recitano le poesie. Occorre quindi cercare sempre nuove attività e idee da proporre.

Ma prima di inoltrarci nell’attività che abbiamo pensato, vogliamo condividere una riflessione: nella nostra società l’inizio della scuola, un momento frenetico, dove si deve riprendere il ritmo e accelerare per stare al passo con tutte le cose da fare, coincide con il momento dell’anno in cui la natura, invece, sceglie di rallentare, di entrare in letargo. Da un lato le giornate diventano più corte, ma i nostri impegni come insegnanti e alunni crescono a dismisura, tutto ciò crea una discrepanza su ciò che sentiamo (torpore e sonnolenza) e ciò che ci viene richiesto (velocità e performance).

Sarebbe opportuno partire proprio da questa riflessione per strutturare le attività in classe in modo che i due ritmi, quello naturale e quello scolastico fossero più in sintonia. Questo sicuramente aiuterebbe gli alunni e le alunne a vivere con meno stress l’avvio dell’anno scolastico.

Per riflettere sul tema dell’autunno abbiamo pensato di partire da una favola nota “La cicala e la formica” di Esopo, nella versione tratta dal nostro manuale “Didattica per competenze con i lapbook” edito da Centro Studi Erickson. Partendo dalla storia, abbiamo voluto porre l’accento sul ciclo delle stagioni e in particolare sull’autunno e ciò che lo caratterizza.

Il video qui proposto è suddiviso in tre parti:

  • prima parte: lettura espressiva della storia;
  • seconda parte: presentazione del lavoro;
  • terza parte: video tutorial con i passaggi per realizzare il template “Autunno”

VIDEO

MATERIALI

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LE AUTRICI

Ginevra G. Gottardi
Esperta di attività storico -artistiche, insieme a Giuditta Gottardi ha fondato il centro di formazione Laboratorio Interattivo Manuale, un atelier dove creatività e didattica si incontrano.

Giuditta Gottardi
Insegnante di scuola primaria, insieme a Ginevra Gottardi ha creato il sito Laboratorio Interattivo Manuale, una piattaforma digitale di incontro e discussione sulla didattica attiva per migliaia di insegnanti.

Entrambe sono autrici Fabbri–Erickson.

Fact Checking | Anche tu, Bruto, figlio mio… O no?

Un’uscita di scena tragica e memorabile

Nella storia di Roma, quella di Giulio Cesare fu una parabola tanto folgorante quanto indelebile. I successi militari e le conquiste, l’ascesa politica, la costruzione del potere assoluto: tutto nella vita pubblica di Cesare fu repentino, e al tempo stesso capace di lasciare il segno.

Persino la sua morte, alle Idi di marzo del 44 a.C., fu un’uscita di scena inattesa e memorabile. A segnarla fu un tradimento atroce, accompagnato da parole pronunciate in un crescendo di emozioni da tragedia greca. Almeno per come ci è stata raccontata…

 

Una ricostruzione drammatica

Il racconto più noto delle ultime, concitate ore della vita di Giulio Cesare proviene dallo scrittore latino Svetonio. Egli ce ne parla nella sua opera Vite dei Cesari, scritta tra il 119 e il 122 d.C. Dunque un secolo e mezzo dopo l’effettivo svolgersi degli avvenimenti: non proprio quella che si definisce una testimonianza diretta!

La ricostruzione di Svetonio è un capolavoro di tecnica narrativa, teso a celebrare “il divino Giulio” e drammatizzare al massimo grado gli eventi. 

Nel testo, prima di raccontarci l’assassinio, Svetonio rievoca i presagi negativi avuti dallo stesso Cesare: la profezia dell’aruspice Spurinna, che lo invita a prestare attenzione a un pericolo “che si prospetta non oltre le Idi di marzo” e il sogno della notte precedente il delitto, quando Cesare vede se stesso “volteggiare al di sopra delle nubi” e “stringere la mano a Giove”.

 

Parole lapidarie o silenzio?

Poi si giunge sulla scena del crimine: i congiurati attorniarono Cesare, lui si ritrae e urla: «Ma questa è violenza!», fino al primo colpo di pugnale, a cui ne seguono altri ventidue.

A questo punto Cesare, vedendo tra i suoi assassini anche Bruto, esclama la celebre frase: «Tu quoque, fili mi» (“Anche tu, figlio mio”). Anzi no! Perché Cesare non parla in latino – e ce lo precisa Svetonio stesso – ma in greco, perché questa è la lingua usata dal mondo politico romano dell’epoca: «Kaì su teknòn» (“Anche tu, figlio”).

Poco più avanti, il testo di Svetonio si contraddice e pare negare le parole prima riportate, dicendo che Cesare, dopo il primo colpo, non parla più, ma riesce solamente ad emettere un gemito. 

È questo un dettaglio che l’autore si lascia quasi sfuggire, facendo trapelare un momento di debolezza che poco si addice al grande condottiero.

La celebre frase «Tu quoque, Brute, fili mi» è dunque per lo meno dubbia: di certo è stata tradotta in latino solo in seguito, e pure con l’aggiunta del nome di Bruto.

 

Un timore universale

Come spesso capita, alcune ricostruzioni diventano tanto affascinanti da essere credute vere fin nei minimi dettagli. La frase è ormai parte della tradizione, e chiunque faccia riferimento alla morte di Cesare non può evitare di rievocare quelle dubbie, ma pur sempre fatali parole. La fortuna di queste ultime, però, ha forse un’altra e più profonda ragione, legata alla loro capacità di condensare in sé un timore universale: quello di essere traditi dalle persone più care.

Chute du Mur de Berlin

Le 9 novembre 1989, la chute du Mur de Berlin, séparant l’Est et l’Ouest de la ville depuis 1961, marquait la fin de la Guerre Froide et une nouvelle ère pour l’Allemagne et l’Europe Mémorial du mur de Berlin. À travers ces quelques lignes, nous chercherons à nous interroger sur l’importance de mots comme Liberté, Unité, chers à la France comme le rappelle sa devise Liberté, Égalité, Fraternité. 

Il y a quelques jours, le maire-gouverneur de Berlin, Kai Wegner, a dévoilé ses plans pour célébrer le 35anniversaire de la chute du Mur de Berlin.  Un parcours de quatre kilomètres en plein air sera établi sur le tracé de l’ancien Mur et proposera aux visiteurs une installation artistique pour réfléchir sur des thèmes liés à la Liberté et à la Démocratie. 35 ans de la chute du Mur à Berlin

Le mot Liberté signifiait pour les Berlinois pouvoir franchir cette frontière érigée depuis presque 30 ans. L’Unité retrouvée, la réunification de l’Est et de l’Ouest de la ville, sont aujourd’hui au cœur des commémorations qui ont pour but de rendre hommage aux citoyens et aux mouvements populaires qui ont permis la chute du Mur. Nous avons tous encore en tête la photo de Conrad Schumann, soldat est-allemand qui est passé au-delà des barbelés pour rejoindre l’Ouest. “Le Saut vers la liberté” de Patrice Romedenne.

En 1989, pour célébrer cet événement, la Tour Eiffel avait été illuminée aux couleurs de l’Allemagne. Cette période historique a marqué le début d’une profonde amitié franco-allemande et d’une nouvelle solidarité européenne. Cette année-là, de nombreux jeunes français se sont rendus à Berlin pour fêter ce jour historique et certains ont même aidé à détruire le Mur avec des pioches. Qu’ont-ils pu ressentir en voyant les morceaux de Mur s’effondrer ? Que signifie aujourd’hui être un citoyen libre ? Que représente pour nous l’Unité au sein d’ un pays, d’une ville ? A l’époque, de nombreux slogans militants ont été lancés, comme « Wir sind das Volk ! » (« Nous sommes le peuple !) « Le Mur doit tomber », « Ville libre », « Ouvrez la frontière », « Non au Mur ». Comment résonnent en nous ces formules frappantes de nos jours ? 

L’anniversaire de la Chute du Mur de Berlin constitue bien plus qu’un événement historique. C’est une occasion de réfléchir sur la Liberté, sur les revendications contre les divisions mais aussi sur l’ existence de murs physiques ou symboliques encore érigés de nos jours. En passant d’un contexte mondial à un contexte plus national, nous pourrions aussi réfléchir sur l’interprétation des valeurs de la devise française de nos jours, Liberté – Égalité – Fraternité  déclinées en tant que Liberté de culte, d’expression –  Égalité des chances  – Inclusion sociale. Cette commémoration relance l’interrogation sur les valeurs de notre époque, sur la Liberté en tant que fondement d’une société ouverte et diversifiée, ainsi que l’ont définie les organisateurs de la manifestation qui cette année aura pour slogan : Portons haut la liberté !