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Veleni cromatici: quando il colore può uccidere

di  Eva Munter

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Difficilmente contemplando un bel dipinto pensiamo ad una scia di morte che dura da secoli o addirittura da millenni. Eppure, soprattutto un tempo, avere a che fare con il colore significava correre dei rischi per la salute non indifferenti, spesso mortali. Dal piombo al mercurio, passando per l’arsenico e il cianuro, la storia dell’arte e della moda è punteggiata di pigmenti che contengono elementi chimici potenzialmente letali. Eppure, senza questi elementi tossici non avremmo mai avuto la maggior parte delle opere d’arte che oggi conserviamo nei musei e che hanno ispirato l’umanità. Alcuni di questi colori hanno avvelenato lentamente generazioni di pittori e tintori, altri hanno tinto gli abiti e decorato per anni le pareti delle case e di chi voleva essere alla moda. Analizziamo i principali. 

Rosso: Il fascino color sangue del cinabro e del minio

Il rosso è il colore della passione, del potere e… dell’intossicazione da mercurio. Il cinabro, noto anche come vermiglione, è un minerale rosso brillante costituito da solfuro di mercurio (HgS) è tanto bello e ipnotico, quanto velenoso. I minatori che lo estraevano vivevano poco, i pittori che lo maneggiavano poco di più. Durante l’epoca romana, le miniere di cinabro erano considerate luoghi estremamente pericolosi. Schiavi e prigionieri erano spesso costretti a lavorarvi, affrontando le esalazioni letali di mercurio. Questa pratica era talmente rischiosa che equivaleva senza possibilità di scampo a una condanna a morte. Le prime tracce dell’uso del cinabro risalgono al Neolitico, con ritrovamenti a Çatalhöyük, in Anatolia, datati tra l’VIII e il VII millennio a.C. In Cina, già nel 1500 a.C., il cinabro veniva impiegato sia come pigmento che in pratiche alchemiche. Nell’antica Roma, era apprezzato per la sua tonalità vivida, nonostante la ci fosse già la consapevolezza dei rischi associati alla sua manipolazione. Questo non impediva alle matrone di impiegarlo per arrossare le guance o come rossetto: serviva a dare al viso un tono rosato “sano”, passando sopra ai possibili rischi in nome della bellezza. Il cinabro offre una tonalità di rosso senza eguali, se si è disposti ad ignorare la tossicità del mercurio. La polvere di cinabro, se inalata o ingerita, può causare gravi avvelenamenti da mercurio. Nonostante ciò, la sua popolarità è perdurata nei secoli, spesso a scapito della salute di artisti e artigiani. Fu utilizzato anche in Messico e Perù già in epoca pre-colombiana e anche in India, dove veniva impiegato anche come medicinale. Si utilizzò per tutto il medioevo (ce ne parla anche Cennino Cennini) e lo ritroviamo fino all’età moderna, dove venne gradualmente sostituito dal vermiglio, meno caro e sicuramente meno tossico. Scomparve dalle tavolozze, ma rimase negli armadietti dei medici: veniva infatti impiegato come farmaco per la sifilide, fino al divieto del suo uso nel XIX secolo. 

Anche il minio è un minerale presente in natura e si tratta di un ossido misto di piombo(II) e piombo(IV). Il suo nome deriva dal latino minium, probabilmente collegato al fiume Miño in Spagna, vicino al suo luogo di estrazione più famoso. Questo pigmento era ampiamente usato fin dall’antichità per affreschi, manoscritti miniati (da cui il termine miniatura) e decorazioni architettoniche. Nel Rinascimento, il minio venne impiegato anche nella pittura a olio, sebbene la sua forte tendenza a scurire nel tempo ne abbia limitato l’uso. Tra le opere che ne conservano traccia troviamo gli sfondi e le vesti di alcune icone medievali e i dettagli architettonici in affreschi romani di Pompei. La sua tossicità, dovuta alla presenza di piombo, ha portato nel tempo al suo abbandono, ma anche in questo caso il suo ruolo nella storia dell’arte resta innegabile. Restava uno dei pochi modi insieme al tossico realgar (a base di arsenico) per ottenere l’arancione fino alla scoperta dei composti del cromo. 

Verde: C’è dell’arsenico sulle mie pareti

Un altro pigmento altrettanto affascinante quanto pericoloso è il verde di Scheele, un composto a base di arsenico scoperto nel 1775 dal chimico svedese Carl Wilhelm Scheele. Questo verde brillante trovò rapidamente applicazione nella pittura e nella decorazione, ma la sua instabilità e la sua tendenza a scurire ne limitarono l’uso artistico. Per risolvere questi problemi, venne sviluppato il verde di Parigi (o verde di Vienna), una variante più resistente alla luce e dal colore ancora più intenso. Questo nuovo pigmento, una polvere cristallina di un verde straordinariamente brillante, trovò impiego non solo nella pittura, ma anche in ambiti molto meno prevedibili.

Il nome verde di Parigi deriva dal suo utilizzo nell’Ottocento per derattizzare le fogne della capitale francese. Tuttavia, la sua diffusione andò ben oltre la lotta ai topi: questo verde straordinariamente attraente finì per colorare di tutto, dai gilet alle scarpe, dai guanti ai pantaloni, dalle candele alla vernice. Persino le decorazioni per dolci e i giocattoli per bambini contenevano questa polvere velenosa. L’impiego più diffuso e letale fu probabilmente nelle carte da parati. Sul finire del XIX secolo, più della metà delle carte da parati conteneva pigmenti a base di arsenico, compresi il verde di Scheele e il verde di Parigi. Questi colori risultavano estremamente economici da produrre e garantivano una resa estetica straordinaria, ma nascondevano un insidioso pericolo. Nonostante le evidenze scientifiche sulla pericolosità dell’arsenico, ci fu per molto tempo un forte scetticismo. Questo elemento era infatti utilizzato in ambito medico e cosmetico: nel periodo vittoriano, era assunto come integratore per migliorare la carnagione, con il risultato di ottenere una pelle bluastra e traslucida. L’arsenico veniva prescritto per l’asma, il tifo, la malaria, i dolori mestruali e persino la sifilide. Ancora oggi si conservano pubblicità dell’epoca che promuovono cialde e saponi a base di arsenico, considerati miracolosi per la bellezza della pelle. Tuttavia, sembra che la quantità di composti tossici emessi dalla carta da parati non fosse sufficiente a uccidere direttamente.

Ciò non ha impedito a qualcuno di ipotizzare che una morte illustre fosse legata a questa sostanza. Nel 1961, l’analisi di un campione di capelli di Napoleone Bonaparte rivelò una concentrazione di arsenico molto elevata, mettendo in discussione la sua presunta morte per cause naturali. I sintomi mostrati dall’imperatore nelle ultime settimane di vita erano compatibili con un avvelenamento da arsenico, e si sapeva che le pareti della sua residenza sull’Isola di Sant’Elena erano rivestite con carta da parati colorata con pigmenti tossici. Per decenni, la teoria dell’avvelenamento tenne banco, fino a quando uno studio del 2011 escluse definitivamente questa ipotesi. Verso la metà dell’Ottocento, il verde cadde progressivamente in disgrazia, soprattutto nell’arredamento. Qualche dama audace continuò a indossarlo, ma la sua reputazione era ormai compromessa. Si racconta che la Regina Vittoria avesse sviluppato una vera e propria fobia per questo colore, temendo per la sua salute e quella della sua famiglia.

Giallo: Il Traditore al Piombo

Il giallo di Napoli, noto anche come giallo antimonio-piombo, ha una storia affascinante e pericolosa. I Romani lo usavano per decorare le loro ville, gli Egizi lo mescolavano nelle pitture tombali e nel Rinascimento era tra i colori prediletti per le tele dei grandi maestri. Tuttavia, oltre a dare luminosità ai dipinti, aveva anche la fastidiosa caratteristica di avvelenare chi lo maneggiava con troppa leggerezza. Il giallo di Napoli era una miscela di piombo e antimonio, due elementi che oggi sappiamo non sia saggio spalmare sulle pareti di casa nostra o, peggio, sulle dita mentre dipingiamo. Ma nei secoli passati, la consapevolezza del rischio era piuttosto labile: se un pigmento era bello, perché preoccuparsi se faceva venire strane febbri e ulcere cutanee?

Anche l’’adorato giallo di Van Gogh, il cromato di piombo, era tanto luminoso quanto letale. Più lo si manipolava, più il rischio di avvelenamento aumentava. Ma il pittore olandese non fu l’unico a innamorarsi di questa tinta pericolosa.Non meno pericoloso era il giallo di cadmio, scoperto nel XIX secolo e ampiamente utilizzato dagli impressionisti. Questo giallo brillante e intenso aveva una resistenza superiore rispetto ai suoi predecessori e conquistò immediatamente gli artisti. Tuttavia, il cadmio non è esattamente un toccasana per la salute: inalare le sue polveri poteva causare seri problemi ai polmoni e, in alcuni casi, avvelenamenti letali. Eppure, pittori come Monet, Matisse e Picasso non se ne preoccupavano troppo: la ricerca della luce perfetta da fissare nei loro dipinti valeva qualche rischio per la salute.

Arancione: Tubetti radioattivi

Un tempo i modi per ottenere l’arancione non erano molti. L’arancione di realgar, un solfuro di arsenico, garantiva almeno qualche visita al cerusico locale. Poi, come abbiamo visto, c’era il minio, un ossido di piombo ross-arancio che ha decorato affreschi e manoscritti per secoli, avvelenando impietosamente chi lo usava senza precauzioni. Ma quando si dice che l’arancione è un colore caldo…a volte lo si intende in senso letterale, soprattutto quando parliamo di colori radioattivi. Questo pigmento, derivato dai sali di uranio, conobbe il suo momento di gloria nel XX secolo, quando venne impiegato per smalti ceramici, vetri decorativi e perfino quadranti di orologi. Il più famoso tra questi materiali fu il Fiestaware, una linea di ceramiche prodotta negli Stati Uniti a partire dagli anni ’30, caratterizzata da un acceso arancione ottenuto grazie all’ossido di uranio.

L’entusiasmo per i materiali di questo tipo raggiunse il suo apice negli anni 30’ e durò fino agli anni 50’. Ancora oggi possiamo trovare piatti arancione radioattivi nei mercatini vintage, basta essere equipaggiati con un contatore Geiger per scovarli. 

Bianco: Il Fantasma letale del piombo

Tra tutti i pigmenti bianchi della storia, la biacca, o bianco di piombo, è stata senza dubbio la più celebre e la più letale. Utilizzata sin dall’antichità, questa sostanza a base di carbonato basico di piombo garantiva una copertura perfetta e una luminosità senza pari. I pittori fiamminghi e rinascimentali la adoravano per la sua capacità di conferire profondità e volume alle carnagioni, donando una lucentezza quasi tridimensionale. Tuttavia, a fronte di tanta bellezza, c’era un problema non trascurabile: la biacca è altamente tossica.

La sua produzione, che prevedeva l’esposizione del piombo a vapori di aceto in camere sigillate, era un processo tanto ingegnoso quanto pericoloso per gli artigiani che la maneggiavano. Già gli antichi Romani ne conoscevano gli effetti nocivi, eppure il fascino di questo pigmento persistette per secoli. Famosi artisti come Rembrandt, Tiziano e Velázquez ne fecero largo uso, ignari o forse noncuranti dei danni che il piombo poteva causare al loro organismo. Il problema non riguardava solo i pittori: la biacca era anche un ingrediente nei cosmetici, con risultati devastanti per la salute di chi ne faceva uso.

Nel XIX secolo, con l’avvento di alternative meno pericolose come il bianco di zinco e il bianco di titanio, la biacca iniziò a perdere popolarità, sebbene continuasse a essere usata per la sua ineguagliabile resa pittorica. Oggi è vietata nella maggior parte dei paesi, ma i restauratori e alcuni artisti tradizionalisti ancora la impiegano con cautela. L’arte, si sa, pretende sacrifici—anche se, fortunatamente, sempre meno letali.

Blu: Bello e Maledetto

Il blu sembra un colore rassicurante, ma non sempre è così. ll blu, colore dell’infinito e associato alla calma, ha avuto una storia tutt’altro che serena quando si tratta di pigmenti. Alcuni dei blu più iconici della storia dell’arte sono stati, in realtà, tra i più tossici e insidiosi mai utilizzati. Tra questi, il Blu di Prussia e il Blu di Cobalto si distinguono per bellezza… e pericolosità.

Scoperto per caso nei primi anni del XVIII secolo, il Blu di Prussia (ferrocianuro ferrico) permise di ottenere un blu intenso e stabile: il solo vero blu affidabile, prima, era il lapislazzuli macinato, noto come blu oltremare, che costava quanto l’oro. Il Blu di Prussia divenne dunque una rivoluzione per gli artisti, rendendo il blu accessibile. Si diffuse rapidamente nelle tavolozze di tutta Europa.

Ma, come spesso accade, la sua formula nascondeva un lato oscuro. Il nome ferrocianuro potrebbe far suonare qualche campanello d’allarme, e a ragione: il pigmento può rilasciare acido cianidrico, una delle sostanze più tossiche conosciute, se riscaldato o mescolato con acidi forti. Insomma, una splendida tonalità di blu con il potenziale di trasformarsi in qualcosa di pericoloso.

Paradossalmente, il Blu di Prussia è anche un antidoto per l’avvelenamento da tallio. Grazie alla sua struttura chimica, questo pigmento è in grado di legarsi ai metalli pesanti nell’organismo e facilitarne l’espulsione. Un altro protagonista nella saga dei colori tossici è il Blu di Cobalto, una tonalità straordinariamente vibrante amata da artisti come Van Gogh e Monet. Scoperto alla fine del XVIII secolo, questo pigmento venne salutato come un’alternativa più stabile al Blu di Prussia e all’oltremare naturale. Luminoso, resistente e perfetto per cieli e ombre profonde, il Blu di Cobalto divenne una presenza fissa nelle tavolozze dell’arte moderna.

Tuttavia, il cobalto non è esattamente un ingrediente da maneggiare con leggerezza. L’inalazione prolungata delle sue polveri può causare avvelenamento cronico, problemi respiratori e disturbi neurologici. Inoltre, il cobalto veniva utilizzato anche per smalti e ceramiche, e chiunque abbia lavorato con questi materiali senza precauzioni si esponeva a rischi non trascurabili. Il fascino del Blu di Cobalto era così irresistibile che venne impiegato perfino nei cosmetici e nei coloranti per vetro, senza troppe preoccupazioni per le sue conseguenze sulla salute. Anche oggi è ancora in uso nella pittura artistica, ma con precauzioni maggiori rispetto al passato.

Oggi i colori tossici sono quasi tutti sostituiti da versioni più sicure, ma il fascino della loro storia a tratti sinistra rimane. Ogni pennellata del passato era un rischio e poteva avvicinare di un passo alla tomba. Forse oggi non rischiamo più di intossicarci dipingendo un tramonto, ma possiamo ancora ammirare la bellezza di quei gialli letali sulle tele dei grandi maestri, consapevoli del prezzo che alcuni artisti hanno pagato per regalarci la loro arte.

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