Sono passati 20 anni dall’attacco alle Twin Towers, al Pentagono, agli Stati Uniti e, più in generale, a quella libertà di movimento che in Occidente costituisce un fondamentale paradigma dei processi di globalizzazione. E questo ventennale cade nel mentre l’Afghanistan è da poco ritornato sotto il pieno e brutale controllo dei Talebani. Mai come in questa circostanza la ricorrenza si presta ben poco, se non nulla, a facili retoriche celebrative, richiedendo semmai un robusto supplemento di riflessione sugli scenari che in quel paese, così come nel complesso quadro delle relazioni internazionali, vanno configurandosi.
L’abbandono da parte americana ed europea, dopo una ventina d’anni di presenza militare, dei territori afghani è avvenuto nel peggiore dei modi possibili: non una transizione controllata bensì una fuga tumultuosa, che ha rivelato il sostanziale fallimento dell’intero disegno di «lotta al terrore» per come le Amministrazioni americane sono andate configurandolo nei fatti, per l’appunto dal 2001 in poi. La scelta di ritirare i contingenti militari occidentali da una parte del Medio Oriente, si inscrive peraltro all’interno di una strategia di lungo periodo, maturata già nel corso del decennio appena trascorso, il cui cardine è la scelta di non considerare più l’intera regione come strategica per gli interessi degli Stati Uniti e per la stessa Europa.
In tutta probabilità, i fuochi della contrapposizione si giocheranno sempre più spesso tra nuove aree di influenza: i cinesi ed i russi, tra di loro alleati come anche in competizione, presenti perlopiù in Africa e nel Medio Oriente continentale; gli americani e, in subordine, gli europei, nel Sud-Est asiatico, al pari di un rapporto di reciprocità con le monarchie del Golfo. Non a caso, la firma degli «accordi di Abramo» con Israele, si inserisce in queste dinamiche di lungo periodo, che stanno ridisegnando la configurazione di poteri e relazioni in quei luoghi. E non solo.
La pedina vagante rimane l’Iran che, sia pure in rapporto con Mosca e Pechino, persegue una sua diplomazia, di taglio nucleare. La questione, per capirci, non rimanda – nel suo insieme -alle fonti energetiche tradizionali, gli idrocarburi, ma ai nuovi assetti di un’economia dell’informazione e della conoscenza, maggiormente svincolata dagli spazi geografici come tali; non di meno, tuttavia strettamente legata a quel territorio globale dell’immaginario che è l’insieme della tecnologie della comunicazione.
E a tale riguardo il rimando all’11 settembre, ovvero a quegli eventi tragici che si svolsero in tempo reale, dinanzi alle televisioni di buona parte del mondo, è qualcosa di più di un ricordo e di un memento. Poiché il fatto e la sua riproduzione in presa diretta, attraverso i mass media, come se ne fossimo tutti immediati protagonisti, costituì uno passaggio epocale nel modo di intendere la cronaca e la storia. I terroristi che avevano dato corso ad una tale catastrofica vicenda, peraltro non potevano non saperlo e – quindi- calcolarlo come effetto di lungo periodo.
Si trattava, concretamente, di un’incredibile commistione tra i fatti (un omicidio di massa in tempo reale, laddove la paternità del delitto era apertamente rivendicata) e la loro raffigurazione collettiva, come se l’intero pianeta fosse stato trasformato in una surreale scenografia degli orrori. Infatti, l’11 settembre rimane fondamentale, nelle nostre coscienze, soprattutto per due ordini di motivi: la dirompenza scenica della violenza terroristica, che catalizza l’attenzione collettiva come, al medesimo tempo, ne indirizza anche sentimenti, atteggiamenti e, quindi, comportamenti; l’affermazione che al potere degli Stati sempre più spesso si contrappone quello di movimenti del terrore, organizzati non tanto su base strettamente spaziale e geografica bensì sulla scorta di un forte radicamento su quel territorio virtuale che rimanda a tutti i mezzi di comunicazione di massa e alla loro capacità di produrre coscienza ed emozioni comuni.
C’è senz’altro un dato politico nelle Twin Towers (il cosiddetto «attacco all’Occidente»), ossia il conflitto con il radicalismo islamista; ma anche un aspetto simbolico, ovvero la consapevolezza che un nuovo terreno di scontro è la conquista dell’immaginario di massa, dove si generano sia mobilitazioni che contrapposizioni, identità, adesioni così come dinieghi e rifiuti.
È il nuovo modo di declinare un tema vecchio quanto la società di massa: la conquista del consenso, che si traduce in legittimazione delle scelte politiche. Un tempo si sarebbe parlato di «fronte interno»; oggi, nell’età in cui pubblico e privato si contaminano vicendevolmente, forse è meglio riflettere su come la “guerra” sia sempre più spesso, al medesimo tempo, un fenomeno immateriale (di cui abbiamo percezione, nei paesi a sviluppo avanzato, solo sul piano delle comunicazioni di massa) e una sgradevole compagna delle nostre esistenze, occupando la nostra immaginazione ma, non per questo, accrescendo di pari passo la nostra coscienza.
Per certuni, in fondo, è come una sorta di War Game. Anche se le drammatiche immagini del crollo dell’Afghanistan dinanzi alla velocissima avanzata talebana, con tutti gli effetti e i cascami che ciò sta comportando già da adesso, a partire dalla cancellazione dei diritti delle donne, impone di riconsiderare daccapo il rapporto che intratteniamo con i dati della realtà, destinata comunque a imporsi su ognuno di noi con la forza dei fatti.
Affermare che l’11 settembre costituisca in sé uno spartiacque storico è quindi, francamente, improprio. Non lo è, invece, il ritenere che gli eventi che si legano ad esso – ovvero non solo a quel giorno ma ai tempi immediatamente successivi, legati quindi alla sua progressiva ricezione nell’immaginario di massa – siano strettamente correlati alla crescente crisi delle sovranità nazionali: lo Stato-nazione, per come dalla seconda metà del Seicento in poi è andato affermandosi, fino alle più recenti cittadinanze democratiche, sta infatti rivelando la sua debolezza dinanzi ai processi di globalizzazione.
I terroristi che militano nelle formazioni del radicalismo islamista, sono pienamente consapevoli di una tale situazione. Ciò che mercati globali portano con sé è anche la porosità di confini, quindi l’illusorietà che ai processi di massa si possa porre un argine con strumenti e misure pensate in un’altra epoca. Questo, in fondo, ci ricorda l’attacco distruttivo alle Twin Towers: ci pensavamo maggiormente liberi ma ci siamo scoperti sempre di più fragili. E quindi indifesi.
È forse bene evocare un ultimo riferimento: nella coscienza di molti persone, la ricorrenza dell’11 settembre rimandava, fino al 2001, ad un altro evento traumatico, ossia il feroce e implacabile colpo di stato di Augusto Pinochet Duarte, che trasformò il Cile in una sorta di laboratorio civile e sociale, all’ombra del liberismo economico e della violenza di Stato. In quest’ultimo caso, il trauma che ne derivò era quello che veniva prodotto in una società ad economia industriale, travolta da un potere dispotico, liberticida e dittatoriale.
Non esiste contrapposizione ideologica, e neanche competizione politica, tra i due eventi storici di cui stiamo parlando ma senz’altro una sequenza storica, un rapporto tra un prima (il Cile del golpe) ed un poi (il terrorismo contro gli Stati Uniti). Un legame che rimanda non solo ad successione cronologica bensì ad una trasformazione logica: le minacce alla democrazia, in Cile, derivavano da forze interne, prima di tutto l’esercito e la coalizione di consensi che aveva costruito intorno a sé; negli Stati Uniti, sono invece il risultato di forze esterne, il fondamentalismo terrorista, la cui legittimazione non è mai legata all’appartenenza a territori sovrani bensì al suo costituire un attore che si muove liberamente in essi. A tutto ciò si lega adesso la fibrillazione afghana, destinata a ridefinire parte delle dinamiche geopolitiche regionali. E non solo. Questo, in fondo, è il lascito che, anche nella riflessione storica, ci deriva dagli scenari sui quali ci siamo soffermati.