La capacità di risolvere problemi – in inglese problem solving – è ormai unanimemente riconosciuta come una delle competenze indispensabili per il cittadino. L’insegnamento della matematica si pone al centro dello sviluppo di questa competenza non solo perché tradizionalmente si esplica proprio nella risoluzione di problemi ed esercizi di vario tipo, ma anche e soprattutto perché dovrebbe avere come obiettivo quello di promuovere il senso critico, la capacità di costruire argomentazioni basate su concatenazioni logicamente corrette, individuare strategie, applicare procedure adeguate. Tuttavia, questi due aspetti, benché intimamente legati, non sempre procedono di pari passo nella pratica didattica; anzi, l’insegnamento basato sul proporre problemi ed esercizi, se non è metodologicamente adeguato, può addirittura nuocere, anziché favorire, lo sviluppo di competenze di problem solving.
Problema o esercizio?
Uno degli aspetti critici nella didattica del problem solving è il concetto stesso di problema: cosa è da ritenersi un problema, intendendosi con questo termine un testo adeguato al nostro scopo, e cosa invece un esercizio?
Consideriamo il seguente esempio:
La somma di due numeri è uguale a 32 e la loro differenza è 12. Trova i due numeri.
Chi viene posto per la prima volta di fronte a una situazione come questa (o una matematicamente analoga, anche calata in contesto reale), troverà problematico il raggiungimento dell’obiettivo; dovrà infatti ingegnarsi per capire di cosa si tratta, poi per trovare una soluzione, magari facendo vari tentativi o ricercando una rappresentazione adeguata, e infine per verificarla.
Supponiamo invece che uno studente sappia già che quando di due grandezze sono date somma e differenza, per trovare la maggiore basterà calcolare la semisomma dei due dati. Si vede che allora la presenza di una procedura predefinita priva il compito del suo aspetto problematico e lo trasforma in un esercizio di applicazione di quella procedura.
Essere un buon risolutore
Una volta chiarito il campo d’azione, e cioè che cosa possa essere considerato un problema, conviene chiederci che cosa rende un individuo un buon solutore di problemi. Sicuramente il buon solutore dovrà essere dotato di alcune abilità fondamentali:
- comprendere il testo (sia espresso in forma testuale, sia simbolica o grafica);
- rappresentare e tradurre (cioè saper passare da un linguaggio all’altro);
- applicare le conoscenze apprese (e quindi saper scegliere, nel suo bagaglio di strumenti, quelli più adatti alla situazione).
Queste abilità possono senz’altro essere sviluppate attraverso esercizi mirati, ma esse non bastano: il buon solutore è infatti colui che sa mettere in atto una serie di atteggiamenti che gli garantiscono il raggiungimento dell’obiettivo.
- Approccio non lineare alla risoluzione del problema: le attività di lettura, esplorazione, pianificazione, implementazione e controllo procedono in maniera non sequenziale
- Controllo sul processo: i bravi solutori tornano spesso sui propri passi per valutare come convenga procedere.
- Provare più strade: un bravo solutore considera diversi approcci, tra cui suddividere il problema in sottoproblemi, esplorare casi particolari in cerca di regolarità, individuare analogie con problemi noti.
In aula
Alla luce di quanto detto, per formare dei buoni solutori di problemi è necessario:
- scegliere bene i problemi da proporre;
- valorizzare ogni tentativo di risoluzione;
- concedere tempo (anche più giorni);
- confrontare diverse strategie risolutive;
- non dare regole fisse, ma proporre modelli e rappresentazioni;
- dare spazio al confronto tra pari, ma anche al lavoro individuale.
Per approfondire
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- R. Zan, Difficoltà in matematica. Osservare, interpretare, intervenire, pp.122-124, Springer, 2007
- L. Ferri, E. Matteo, E. Pellegrini, Assi in matematica, Rizzoli Education, 2024
- Rally Matematico Transalpino
- E. Pellegrini, Problemi, no problem! Possiamo proporre problemi senza crearne?