Dagli studi di legge alla lotta
Nelson Mandela è morto a 95 anni nel 2013. Un’età elevata persino nei paesi occidentali, figuriamoci per il continente africano. Anche se va ricordato che Mandela era sudafricano, e il Sudafrica, il più meridionale degli Stati del continente nero, già nel XX secolo aveva goduto di un’economia molto più avanzata di quella dei paesi confinanti, con un benessere paragonabile a quello dell’Europa occidentale o degli Stati Uniti. Tutto questo se facevi parte della minoranza bianca, di origine inglese o boera. Nelson Mandela era invece nero, del gruppo etnico Xhosa, il maggioritario insieme agli Zulu e il più vessato negli anni dell’apartheid.
Possiamo dire che di vite Mandela ne abbia avuto diverse. La prima è stata quella di un giovane sudafricano nero negli anni in cui il sistema segregazionista si andava precisando e, soprattutto, istituzionalizzando. Nelson, figlio di un capo-tribù (un dettaglio importante nella complessa antropologia africana) studiò legge prima a Johannesburg poi a Fort Hare, convinto che con l’attività di avvocato sarebbe potuto essere utile alla sua comunità. La sua fiducia venne minata dalla sempre più feroce repressione delle autorità segregazioniste sudafricane, decise a non concedere nessuna legittimità, neppure sul piano legale, alla maggioranza nera.
Allora cominciò per Mandela una seconda vita, quella del militante dell’African National Congress; del leader radicale che teorizza la legittimità della lotta armata contro il nemico insensibile a ogni richiesta e contrario a ogni compromesso. Entrò a fare parte del Partito Comunista sudafricano clandestino, scalando le gerarchie interne dell’ANC, grazie al suo carisma e alle sue doti strategiche. Nel 1962 venne arrestato e, dopo un processo formalmente corretto ma sostanzialmente fuori da ogni perimetro accettabile per uno stato di diritto, venne condannato all’ergastolo come terrorista (1964).
Il carcere: Mandela diventa un simbolo contro l’apartheid
Iniziò la terza vita di Mandela: la lunghissima detenzione nel carcere di Robber Island, dove il regime razzista credette di avere seppellito non solo un uomo ma anche quello che lui rappresentava. I leader bianchi del Sudafrica si sbagliavano, perché fu in questa terza e lunghissima fase della sua esistenza che Nelson Mandela diventò il simbolo della lotta contro l’apartheid e l’icona del riscatto per milioni di giovani neri sudafricani che si ribellavano nelle township, i miserabili sobborghi delle grandi città come Johannesburg, Pretoria, Città del Capo, dove la maggioranza nera viveva segregata. Le foto di Mandela durante il processo del 1964 ci consegnano un uomo ancora giovane e per decenni queste saranno le uniche immagini pubbliche conosciute di Madiba, come era chiamato dai suoi sostenitori.
La liberazione e il Nobel per la pace
La sua fama, specialmente a partire dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, diventò planetaria: a lui furono dedicati libri, film, canzoni, concerti e massicce manifestazioni popolari in tutto il mondo; tutte all’insegna di un’unica richiesta: free Nelson Mandela!
Nel 1990 il presidente sudafricano bianco Frederik De Klerk (1936-2021) decise di liberarlo, cedendo alle pressioni internazionali che duravano ormai da tempo. L’immagine di Mandela ormai anziano divenne iconica: nel 1993 insieme allo stesso De Klerk fu insignito del premio Nobel per la pace, in virtù di quel progetto di pacificazione a cui i due ex avversari ambivano. L’anno seguente Mandela votò per la prima volta nella sua vita per le elezione presidenziali, così come milioni di neri sudafricani. I risultati lo videro trionfare sugli altri candidati e divenire presidente della Repubblica sudafricana (1994).
La giustizia riparativa e la non violenza
Negli anni successivi alla liberazione Mandela aveva portato a compimento quell’evoluzione politica che era già maturata negli ultimi anni della detenzione. L’opzione della lotta armata come scelta legittima di lotta della maggioranza nera della popolazione, era stata sostituita dalla convinzione che i cambiamenti avrebbero potuto avvenire solo con strumenti pacifici. La scelta della non-violenza non era tanto l’esito ideologico di un ragionamento astratto, quanto la conseguenza di una mutata situazione politica globale. Era finita la competizione tra superpotenze e il Sudafrica razzista e anticomunista non era più visto come un baluardo (imbarazzante ma utile) del conflitto tra mondo occidentale e blocco sovietico.
La scelta della pacificazione della nazione è stata l’essenza dell’ultima stagione della lunga vita di Nelson Mandela. Il problema della sanzione nei confronti della politica di apartheid (e dei suoi esecutori) è stato affrontato con un approccio nuovo e originale basato sul concetto della “giustizia riparativa” (in inglese Restorative Justice). L’idea era molto semplice: in Sudafrica non si sarebbe applicata la tipica “giustizia dei vincitori” (in questo caso la maggioranza della popolazione nera vessata per decenni dalla politica segregazionista) che ha come elemento fondante la punizione dei colpevoli. Piuttosto si propose un inedito dialogo tra vittime e carnefici, volto ad accertare per prima cosa la verità, sottraendola alla mistificazione possibile dei negazionisti e dei riduzionisti. In secondo luogo si introduceva il principio del perdono (attraverso un’amnistia per gli afrikaner colpevoli e rei confessi) in modo da spostare la sanzione dalle singole persone al principio malato della segregazione.
Una nuova alleanza
Queste due premesse erano le basi per la successiva riconciliazione nazionale il cui scopo non era dimenticare, ma piuttosto proporre una nuova alleanza tra gruppi che si erano fino a quel momento contrapposti violentemente. Strumento di questa politica fu la Commissione per la promozione dell’unità nazionale e la riconciliazione (detta anche “Commissione verità e riconciliazione”), diretta da un altro premio Nobel africano, il vescovo anglicano Desmond Tutu (1931-2021) la cui azione si è rivelata essenziale per pacificare il paese e prepararlo alle sfide del futuro.
Si tratta di un modello la cui efficacia dovrebbe essere valutata seriamente anche oggi, in un momento caratterizzato dall’esplosioni di conflitti sulla cui risoluzione sembra non esserci speranza. L’insegnamento di Mandela e del Sudafrica del dopo apartheid è una lezione che vive, specialmente quando tutte le altre opzione si rivelano impraticabili o disastrose.