Ne parliamo con Simona Bodo, Silvia Mascheroni e Maria Grazia Panigada, co-fondatrici di Patrimonio di Storie
D: Dottoressa Bodo, prima di tutto, può presentarci Patrimonio di Storie: quando nasce, quale l’ambito di azione, la sua specificità?
SB: Patrimonio di Storie è un gruppo di lavoro cui Maria Grazia, Silvia Mascheroni ed io abbiamo dato vita nel 2011. Il nostro è un lavoro di mediazione del patrimonio culturale in chiave narrativa, che nel corso del tempo ci ha portato ad affinare un metodo al cui cuore vi è una forte convinzione: quella che il patrimonio debba essere reso “prossimo”, fatto risuonare con la vita delle persone; riteniamo sia questa la condizione necessaria non solo per salvaguardarlo e trasmetterlo alle generazioni future, ma per renderlo vivo e attuale agli occhi delle persone che lo incontrano oggi, in particolar modo i giovani.
Credo sia importante fermarsi a riflettere sul modo in cui percepiamo il patrimonio, chiedendoci se per noi sia solo un’eredità ricevuta, preziosa ma inerte, oppure un’opera aperta, in costante divenire, che possiamo interrogare e intrecciare ai nostri vissuti non solo per acquisire conoscenze, ma anche per attivare nuove riflessioni, consapevolezze, memorie, emozioni, relazioni.
Questa è la domanda al cuore del nostro lavoro, e questo è quanto abbiamo toccato con mano in questi 12 anni, a prescindere dalle persone con cui di volta in volta abbiamo lavorato (“nuovi cittadini”, giovani in età scolare o meno, anziani, volontari, detenuti, operatori museali, cittadini): stare insieme davanti a un’opera d’arte, dentro a una chiesa, in mezzo a una piazza, darsi tempo perché il patrimonio ci parli di sé e ci solleciti a parlare di noi, apre spazi inattesi e profondi di espressione di sé, di incontro e condivisione tra le persone, di riflessione sulla realtà che ci circonda.
È come se il patrimonio ci facesse da specchio, ci invitasse a intrecciare la nostra storia con la sua. Abbiamo lavorato in contesti diversi come le Gallerie degli Uffizi e la Pinacoteca di Brera, il Sistema museale del Chianti e del Valdarno Fiorentino e la GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, il Museo Popoli e Culture del PIME a Milano, il patrimonio diffuso in terra bergamasca, la città di Cesenatico, e la cosa straordinaria, riscontrata in ogni esperienza da noi vissuta, è che qualsiasi patrimonio ci interroga con la stessa ricchezza e intensità, se a nostra volta siamo disposti a interrogarlo, anziché limitarci a uno sguardo distratto.
D: Dottoressa Panigada, quali sono le peculiarità della narrazione in chiave autobiografica, anche rispetto allo “storytelling” di cui tanto si parla? Come si applica nella relazione con il patrimonio culturale museale e diffuso?
MGP: Il nostro metodo di lavoro – questa è la peculiarità che ci contraddistingue – attinge alla grande tradizione del teatro di narrazione italiano. È dall’intreccio tra quest’ultimo e gli altrettanto preziosi saperi dell’educazione al patrimonio che nasce una visione della narrazione non come atto performativo, bensì come atto quotidiano ed elemento fondamentale della relazione umana: si narra per il desiderio e l’urgenza di comunicare, di condividere i propri vissuti, i propri pensieri, i propri sogni, facendo appello non tanto a tecniche oratorie, quanto piuttosto ad abilità espressive ed emotive. Questa esperienza attraversa la storia umana nei tempi e alle latitudini più diverse.
Il linguaggio della narrazione, in altre parole, è universale.
Non solo: a differenza del linguaggio di una tradizionale visita guidata, ci interpella in prima persona (non come un pubblico indistinto), mettendo in moto quelle risonanze che l’incontro con un’opera d’arte, un oggetto o una qualsiasi testimonianza patrimoniale (anche intangibile) suscita nell’esperienza e nel vissuto personale di ognuno, se ci diamo il tempo per guardarle in profondità.
Ed è qui che entra in gioco un altro elemento fondamentale del nostro lavoro: il potenziamento dell’ascolto e dello sguardo.
La prima fase dei nostri progetti ha sempre luogo in uno spazio “neutro”, e consiste in un laboratorio di narrazione dove le capacità di osservazione, descrizione e ascolto (un buon narratore, non dimentichiamolo, è innanzitutto un buon ascoltatore) delle persone con cui lavoriamo sono progressivamente dilatate attraverso esercitazioni intorno a luoghi, oggetti e memorie personali.
Una volta “in presenza” del patrimonio culturale, queste capacità aiuteranno il “narratore” a lasciarsi interpellare e sollecitare da ciò che guarda senza filtri e preconcetti: individuati gli elementi (ricordi, esperienze, tracce di vita…) su cui concentrare l’attenzione, il nostro compito è quello di accompagnare le persone nello sviluppo di narrazioni dove l’imprescindibile contenuto conoscitivo si intreccia alla dimensione del racconto.
Tutto questo avviene con il sostegno del gruppo, che fa da cassa di risonanza: la narrazione del patrimonio ha un risvolto relazionale importantissimo, e questo è un aspetto che nei nostri progetti rivolti a ragazzi in età scolare ha sempre assunto un significato particolare.
D: Dottoressa Mascheroni, la narrazione in chiave autobiografica può essere una risorsa per i saperi disciplinari e per promuovere anche l’espressione di sé?
SM: Ogni disciplina si caratterizza per i suoi saperi esperti, i concetti chiave, le acquisizioni inerenti alla metodologia della ricerca, che sono imprescindibili nell’azione di insegnamento-apprendimento. Possono essere vivificati grazie all’utilizzo della narrazione in un duplice senso: con l’evidenza delle note salienti della biografia dell’autrice, dell’autore e di ogni testimonianza del patrimonio culturale (che appartenga all’ambito storico-artistico, che sia un testo della letteratura italiana o straniera, una composizione musicale…), promuovendo l’interpretazione da parte delle allieve, degli allievi, che danno voce al loro personale vissuto.
La narrazione sollecita e fa esercitare alcune competenze-chiave del cittadino in formazione.
Saper osservare in modo puntuale, oltre alla superficialità e all’“attenzione distratta”, concedendosi il tempo (e il silenzio) di una dimensione poco praticata; è un saper fare applicabile e trasferibile in ogni contesto di apprendimento.
La messa alla prova del pensiero critico: per narrare devo interrogarmi riguardo a ciò che è essenziale, prioritario, irrinunciabile, e dunque essere capace di selezionare.
Sapersi esprimere: per narrare devo scegliere parole e immagini precise, capaci di veicolare il cuore del mio racconto e gettare un ponte verso chi ascolta.
Custodire pensieri e sguardi diversi dal proprio, nell’ospitare l’alterità: un saper essere prezioso per il vivere in comunità.
Esercitare la riflessione condivisa, che nasce e si alimenta dall’ascolto, supera il pregiudizio, è nemica dello stigma e alleata del riconoscimento della diversità.
Sappiamo bene quanto la stagione pandemica, la forzata sospensione di relazioni tra pari, dello stare e del fare insieme hanno provocato, soprattutto nei giovani, turbamenti, disagi, paure, e in alcuni casi, afasie dei propri sentimenti. Il metodo narrativo in chiave autobiografica ci invita a trovare “le parole per dirlo” e dunque sollecita e alimenta il saper individuare e selezionare quelle parole ed espressioni, superando un esperanto generazionale, omologato e sincopato. Ma, soprattutto, facendo fiorire la consapevolezza che nel narrare e nel narrarsi si può dare voce alla propria fragilità, aiuta a riconoscerla e ad accoglierla, intesa quale essenza di sensibilità e di delicatezza, dando spazio agli stati d’animo e alle emozioni.
La narrazione sollecita la memoria individuale e collettiva, dà voce a una collettività viva e vibrante, come agorà di spazio vissuto, contrapposto all’agorà fluida e manipolabile dei social.
D: Può raccontarci sinteticamente l’esperienza del corso di aggiornamento per insegnanti “Il museo narrativo: un laboratorio per la formazione di nuove cittadinanze culturali”?
SM: Nel 2017, grazie a Laura Colombo, docente di storia dell’arte e Rappresentante Provinciale della Sezione milanese di ANISA, abbiamo ideato e realizzato il corso, al quale hanno partecipato quindici docenti di storia dell’arte, di italiano e una docente di sostegno del Liceo artistico “Boccioni” di Milano.
Il corso si proponeva di far conoscere i concetti chiave e le acquisizioni più recenti nell’ambito dell’educazione al patrimonio in chiave interculturale, ma, soprattutto, le linee guida e gli strumenti operativi per l’utilizzo del metodo narrativo applicato ai patrimoni culturali da utilizzare nella didattica d’aula, in relazione con i saperi disciplinari.
Oltre ad alcuni interventi formativi, i partecipanti hanno seguito in “presa diretta” diversi percorsi narrati da noi curati in collaborazione con la GAMeC Bergamo e il Museo Popoli e Culture del PIME. Le narrazioni, condotte da mediatrici e mediatori di origine immigrata, erano tese non tanto alla trasmissione di nozioni o alla conoscenza delle diversità culturali, quanto all’apertura di spazi dialogici di contaminazione, di ascolto e di apprendimento reciproco, di costruzione e condivisione di significati.
Ai partecipanti del corso è stato affidato un compito di realtà da realizzare in piccoli gruppi: interrogare un patrimonio culturale (museale o diffuso) da loro individuato secondo le linee guida e i criteri del metodo narrativo, mettendone in rilievo le componenti immateriali (le storie, le funzioni d’uso attualizzate, la ritualità…). Per noi, la fase di progettazione alla fine del percorso formativo è sempre molto importante, perché richiede ai partecipanti di concentrarsi sulla trasferibilità del lavoro svolto in un contesto di didattica d’aula per/con i loro allievi.
D: Ci sono progetti di Patrimonio di Storie rivolti ai giovani in formazione che ritenete particolarmente rilevanti e generativi?
MGP: Un’esperienza per noi molto significativa è stata “My Place / My Texts” (2016), un progetto della GAMeC di Bergamo volto a trasformare il museo in luogo di appartenenza, in cui i giovani si possano riconoscere grazie all’attivazione di un processo di lettura delle collezioni permanenti che li chiama a mettersi in gioco con coraggio, in un contesto di ascolto e valorizzazione di ciascuno.
Attraverso il canale delle scuole superiori e di docenti che avevano già collaborato con il museo, sono state coinvolte diciassette ragazze di “seconda generazione”, che dopo una prima fase di conoscenza della collezione permanente hanno lavorato insieme a me per costruire brevi narrazioni da far confluire in un catalogo “alternativo” della GAMeC, rivolto alle scuole secondarie di secondo grado di Bergamo e provincia, e più in generale al pubblico giovane del museo.
Il percorso si è sempre svolto negli spazi espositivi. In una prima fase abbiamo lavorato sull’osservazione: le ragazze, suddivise in piccoli gruppi di ascolto, hanno descritto singolarmente le opere da loro scelte nei minimi particolari e da diversi punti di vista, se si trattava di una scultura. La libertà di osservazione ha permesso loro di scegliere modalità di approccio alle opere molto varie, dando vita a schede di catalogo piacevoli e interessanti alla lettura, che invitano anche a un approccio diversificato alle collezioni: in alcuni casi l’artista si rivolge al visitatore, in altri è la narratrice che esplicitamente accompagna lo sguardo di chi legge; la scheda invita a osservare alcuni dettagli dell’opera, oppure si articola in una serie di domande aperte che invitano alla riflessione personale.
Una volta steso un canovaccio di lavoro, si è passati alla scrittura individuale. Sebbene i testi siano stati poi rivisti, letti e ricalibrati insieme davanti alle opere, mi preme sottolineare che le autrici del catalogo sono le ragazze: in quanto esperta di narrazione, ho semplicemente lavorato in modo maieutico nel fare emergere e valorizzare le scelte compiute da ciascuna. Ne è nata una pubblicazione in grado di veicolare non solo informazioni storico-artistiche, ma anche suggestioni legate alla sfera emotiva e relazionale; queste ultime consentono ai fruitori del museo di apprendere una nuova modalità esperienziale di confronto con il patrimonio culturale, mettendosi in gioco in prima persona.
SB: Un’altra esperienza esemplare è il workshop “In viaggio attraverso i Sette Palazzi celesti” (2019). A differenza di altri progetti da noi curati, che di solito richiedono mesi di lavoro, questo è stato un percorso intensivo di pochi giorni, ideato e realizzato nell’ambito del progetto europeo “YEAD – Young European (Cultural) Audience Development”.
Fondazione ISMU – Iniziative e Studi sulla Multietnicità ci ha chiesto di accompagnare in un percorso di scoperta dell’installazione permanente di Anselm Kiefer in HangarBicocca (Milano) un gruppo eterogeneo composto da 8 giovani: studenti liceali e universitari con diversi background culturali e due minori stranieri non accompagnati. Oltre a creare un’occasione di incontro, confronto e scambio tra i ragazzi, valorizzandone le appartenenze linguistiche e culturali diverse, il workshop ha attivato un dialogo profondo con le opere di Kiefer attraverso il linguaggio della narrazione. Ne sono nate 8 brevi racconti scritti e una video-testimonianza, da cui emerge come nel corso delle due intense giornate in HangarBicocca (precedute, come di consueto nel nostro lavoro, da un laboratorio di narrazione), i ragazzi abbiano vissuto l’esperienza non come visita tradizionale e preconfezionata a un luogo della cultura, ma come opportunità di espressione, di creazione, di esercizio del pensiero critico; compreso che le istituzioni culturali possono essere dei luoghi straordinari di conversazione, ancor prima che di conservazione (luoghi dove ciò che fa la differenza non è tanto acquisire nozioni, quanto avere occhi, mente e cuore aperti); toccato con mano quanto l’ascolto partecipe, lo sguardo attento che si ferma, si allarga, scende in profondità, possano diventare storia e atto creativo.
LE AUTRICI
Simona Bodo, ricercatrice e consulente in tematiche legate al ruolo sociale dei musei, all’educazione al patrimonio in chiave interculturale e alla promozione della partecipazione culturale di tutti i cittadini.
Silvia Mascheroni, docente al Master “Servizi educativi del patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive”, Università Cattolica di Milano; Scuola di Specializzazione in Beni storico-artistici, Università di Pisa.
Maria Grazia Panigada, esperta di teatro di narrazione, è direttore artistico della prosa del Teatro Donizetti e del Teatro Sociale di Bergamo dal 2015, e dal 2022 del festival “Voci Umane. Musei e teatro di narrazione”.
Insieme, le tre autrici hanno fondato il gruppo di lavoro Patrimonio di Storie.