La chiesa delle origini e il vescovo di Roma
Il Papato è una delle istituzioni più antiche del mondo, e anche a questo si deve il prestigio di cui a tutt’oggi gode. Tuttavia la storia di questa istituzione non coincide con la totalità delle fedi che si richiamano alla figura del Cristo (dai cristiano-ortodossi alle chiese evangeliche emerse dalla Riforma protestante e dai suoi sviluppi successivi), bensì con una sola di queste: la fede cattolico-romana. Inoltre deve essere ben chiaro che il papato in quanto istituzione si è costituito, strutturato ed è mutato nel corso del tempo.
Già le comunità cristiane della cosiddetta “chiesa primitiva” – quella anteriore al 313 d.C., quando il cristianesimo venne legalizzato dall’imperatore Costantino – erano organizzate gerarchicamente in ogni città. Al vertice vi era un episcopo (dal greco episkopèin, “detenere la supervisione e la sorveglianza”, da cui deriva “vescovo”), coadiuvato dai presbiteri (anziani, da cui deriva “preti”) e altri addetti al culto, tra cui gli esorcisti (da exorkistes, “scongiuratore”), con il compito di scacciare i demoni prima del battesimo. Per chiarire le questioni sulla disciplina e la dottrina delle loro comunità, talvolta i vescovi di una regione si riunivano in sinodi (da sýnodos, “incontro”).
Fu soltanto intorno al 400 d.C. che il vescovo di Roma cominciò a sostenere di poter disporre, in quanto successore di san Pietro, della pienezza del potere di “legare e sciogliere”, cioè essere titolare di un carisma maggiore rispetto agli altri vescovi. Questo primato d’onore fu accettato nella parte occidentale dell’impero romano ma non in Oriente poiché lì i patriarchi, cioè i capi delle comunità cristiane più importanti, già godevano di un prestigio non meno autorevole.
Il papato nell’Alto Medioevo
Intorno al 600, nell’area dell’ormai caduto impero romano d’Occidente, il ruolo carismatico del papato fu riaffermato a più livelli (riforma liturgica, diffusione dei monasteri benedettini, invio di missionari nelle parti pagane dell’Europa) da papa Gregorio Magno (590-604). E intorno all’Ottocento questa centralità dell’istituzione papale venne ribadita grazie ai legami con i Franchi e con il loro imperatore, Carlo Magno (800-814).
Ma il papato assunse le caratteristiche che lo contraddistinguono ancor oggi soltanto dopo il Mille, quando andò sempre più differenziandosi dalla Chiesa dei cristiani bizantini. Questi avevano infatti accettato il cesaropapismo, ossia un rapporto di sostanziale subordinazione del patriarca di Costantinopoli al potere politico dell’imperatore d’Oriente: ne nacque lo scisma d’Oriente (1054), cioè la separazione ancor oggi vigente tra la chiesa “papale”, cioè di rito cattolico romano, e quella di rito greco ortodosso. Chiusa la questione dei rapporti con l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, il papato romano si apprestò a rispondere a ciò che la storiografia chiama lo scontro tra gli universalismi.
Il tentativo fatto da alcuni principi tedeschi, in particolar modo quelli di Sassonia, di costruire un Sacro romano impero germanico, portò il vescovo di Roma a contrapporsi a questo progetto universalistico, soprattutto sul piano del ruolo del potere spirituale. Ne conseguì la lotta per le investiture, ossia lo scontro su chi doveva nominare i vescovi, che fu una manifestazione dello scontro fra queste due pretese di poteri universalistici, quello “temporale” dell’impero e quello “spirituale” della Chiesa di Roma.
I “superpapi” del Medioevo
I pontefici dopo l’anno Mille – soprattutto i tre “superpapi”, Gregorio VII (1073-1085), Innocenzo III (1198-1216) e Bonifacio VIII (1294-1303) – lottarono a tutto campo per rivendicare le prerogative del vescovo di Roma inteso non solo come successore di Pietro, ma anche in quanto vicario di Cristo in Terra, quindi autorità indiscutibile e superiore certamente a quella imperiale.
Dopo Bonifacio VIII – che uscì sconfitto dallo scontro con il potere emergente del re di Francia Filippo il Bello (1285-1314) -, l’istituzione papale si avviò verso un lento declino. Gli anni tra l’inizio del Trecento e la prima metà del Quattrocento furono tra i momenti peggiori per il pontificato, poiché la sede papale fu trasferita ad Avignone, sotto la tutela dei sovrani di Francia; inoltre dopo il rientro a Roma (1378), per quasi mezzo secolo al papa romano fu contrapposto un antipapa avignonese.
Dall’Umanesimo alla Riforma: la nuova grande rottura nella cristianità
Quasi alla metà del XV secolo la Chiesa ritrovò la sua unità e, tra il 1450 e il 1550 circa, il papato seppe accogliere molte idee del tempo, come quelle suggerite dalla cultura umanistica, pur lasciando che la parola “riforma”, evocata dalla nuova spiritualità sostenuta da dotti come Erasmo da Rotterdam (1466-1536), restasse sostanzialmente lettera morta.
In quegli anni ci furono molti papi umanisti, intellettuali o amanti dell’arte, ma anche pontefici membri di famiglie che perseguivano interessi privati in una maniera così evidente da far pensare che Roma fosse diventata una sorta di nuova Babilonia e che perciò fosse necessario inaugurare un profondo processo di riforma della Chiesa.
Il risultato di queste tensioni fu una lacerante rottura all’interno della cristianità occidentale. La Riforma protestante avviata da Martin Lutero (1483-1546) diede l’avvio non solo alla nascita di nuove confessioni cristiane, ma anche – in nome della fede – a divisioni violente nell’Occidente europeo, che fino alla guerra dei Trent’anni (1618-1648) lastricarono di sangue le vicende politiche di un’Europa in preda agli scontri del cosiddetto “confessionalismo”.
La reazione della Chiesa romana alla Riforma protestante fu detta Controriforma ed ebbe nel concilio di Trento, svoltosi dal 1545 al 1563, il suo momento organizzativo. L’esito fu una riforma interna della chiesa cattolica, ora più di prima incentrata sul papato romano: le linee stabilite nel concilio si mantennero sostanzialmente inalterate fino al concilio Vaticano II (1962- 1965).
I primi papi post-tridentini erano molto austeri: spesso provenivano da ordini religiosi che avevano combattuto il protestantesimo, ma nello stesso tempo erano critici nei confronti dei comportamenti delle famiglie di ascendenza romana (come i Borghese o i Colonna), che fino a quel momento si erano fondamentalmente spartite il trono di Pietro. Nel Seicento, tuttavia, molte di quelle famiglie riuscirono a riprendere il potere: ne rimane come prova sul piano artistico il Barocco romano, che ancora oggi possiamo ammirare in luoghi come piazza di Spagna, piazza Navona e – simbolicamente primo, in quanto proteso ad abbracciare l’intera cristianità – il doppio colonnato che Bernini realizzò per piazza San Pietro.
La secolarizzazione dell’Europa e il declino del papato
Nella prima metà del XIX secolo, la Chiesa soffrì per l’avvio di un processo di secolarizzazione, ossia della laicizzazione della società e della marginalizzazione della fede a fatto individuale, regolato dalla coscienza interiore.
La cultura illuministica – prima in forme limitate a piccoli e a ristretti gruppi intellettuali, poi in maniera decisamente più massiccia – portò a quella che la storiografia chiama la femminilizzazione delle pratiche devote. I veri fedeli per la Chiesa sono soprattutto le donne e in parte i bambini, mentre vacilla la capacità di mantenere il proprio legame con la comunità dei maschi adulti e dei lavoratori.
Ma ci fu, soprattutto, la Rivoluzione francese: questa, esportata in tutta l’Europa dai cannoni di Napoleone Bonaparte (1769-1821), sostenne questa politica di secolarizzazione, che ebbe come frutto la nascita, nel XIX secolo, delle idee liberali. Il liberalismo fu visto dalla Chiesa dell’Ottocento, come il grande nemico a cui, verso la fine del secolo, se ne aggiungeva un altro: il socialismo ateo e materialista.
Tuttavia fu proprio un papa di fine Ottocento, Leone XIII (1878-1903), a intuire che bisognava agire sulle cose nuove, che bisognava in qualche modo raccontare il mondo moderno e proporre una pastorale sociale che coinvolgesse la comunità cristiana, criticando tanto il socialismo in tutte le sue forme, quanto il liberalismo e quella sua espressione economica che, proprio in quel finir di secolo, si cominciava a chiamare capitalismo.
La Chiesa e il papa nel corso del Novecento
Nel primo Novecento la Chiesa patì i sussulti e le conseguenze dei grandi cambiamenti del secolo precedente. Al tentativo di alcuni cattolici di aprirsi al mondo moderno seguì una dura repressione disciplinare e addirittura, con Pio X (1903-1914), la scomunica dei cosiddetti “modernisti”.
Il successore, Benedetto XV (1914-1922), eletto proprio alla vigilia della Prima guerra mondiale, fu uno dei più lucidi critici della guerra, che definì una “inutile strage”.
I due pontefici successivi, Pio XI (1922-1939) e Pio XII (1939-1958), affrontarono lo scontro della chiesa romana con la società di massa e con l’eredità politico-ideologica dei totalitarismi (nel 1929 furono firmati i Patti Lateranensi). Da parte di entrambi i pontefici vi fu il tentativo di trovare un modo di sopravvivere, a volte anche con comportamenti ambigui che sarebbero stati in seguito molto criticati.
Ma la grande novità della Chiesa fu l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII (1958-1963). Egli e il successore Paolo VI (1963-1978), più cauto ma coerente nel portare avanti il progetto giovanneo, rivoluzionarono la Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II (1962-1965): un’apertura al nuovo, al mondo, ai problemi delle popolazioni di tutta la Terra e nello specifico di quello che all’epoca veniva definito il Terzo Mondo. I cambiamenti radicali investirono la Chiesa anche sul piano liturgico: venne abolita la messa in latino, fu cambiata la liturgia e ci si allontanò da quella magnificenza barocca che, volutamente, il concilio di Trento aveva costruito proprio a contrastare la sobrietà protestante. Tutto ciò, stava a rappresentare un profondissimo cambiamento sia sul piano teologico, sia sul piano istituzionale-organizzativo. Mentre il perno della Chiesa tridentina era stato il suo vertice – il papato – , le decisioni del concilio Vaticano II avevano spostato il baricentro sul cosiddetto “popolo di Dio in cammino”, cioè sul gregge dei fedeli che continuavano ad essere guidati dal papa come supremo pastore, ma in piena condivisione con gli aderenti alla Chiesa e, in comunione, addirittura, con tutti gli esseri umani di buona volontà, a prescindere dalla fede religiosa.
La “piccola controriforma” e l’esperienza di papa Francesco
A parere di molti, la “rivoluzione interna” avviata dal concilio Vaticano II conobbe un ridimensionamento ad opera di Giovanni Paolo II (1978-2005) e del suo successore, Benedetto XVI (2005-2013). Papa Wojtyla mise a disposizione di questa nuova Chiesa il suo indiscutibile carisma, molto forte negli anni della caduta del blocco sovietico (1989). D’altro canto, favorì chi tendeva in qualche modo a ridimensionare, a controllare alcune svolte che erano state ipotizzate negli anni Sessanta e Settanta: Ratzinger, già da collaboratore di Giovanni Paolo II, fu invece il teorico lucido di questa sorta di “piccola controriforma”, diventando l’intellettuale organico (per usare un’espressione da Antonio Gramsci) di quel movimento più conservatore volto a limitare gli effetti del concilio Vaticano II.
Le sue dimissioni nel 2013 sorpresero molti, anche se, per certi versi, furono giustificate dall’incredibile confusione nella gestione quotidiana che la Curia romana aveva conosciuto nell’ultima fase del pontificato di Wojtyla. Ratzinger, fine intellettuale e teologo, non era però un tattico e non aveva quell’abilità politica adatta a gestire la Chiesa nella sua quotidianità. Se ne rese conto egli stesso e volle lasciare il suo ruolo, con un gesto che fu certamente eccezionale, ma non un unico, nella storia della Chiesa. Una Chiesa travolta da scandali, anche finanziari, ma soprattutto dalla vergogna degli atti di pedofilia da parte dei sacerdoti così a lungo coperti e negati.
L’elezione di Jorge Mario Bergoglio (2013-2025), il papa che veniva “dai confini del mondo”, sembrò all’inizio quasi un compromesso tra conservatori e progressisti, come spesso sono chiamati, con molta approssimazione, i due fronti che si contrappongono al vertice della Chiesa. Invece papa Francesco – già dalla scelta del nome, così prestigioso nella storia della spiritualità cristiana, quello di Francesco d’Assisi, eppure un nome che mai era stato utilizzato da un pontefice – portò a una novità straordinaria, prima di tutto nei modi, nei comportamenti di un pontefice che voleva essere il papa degli umili e delle persone semplici. Ma egli impresse anche un deciso cambiamento di rotta nel cammino della Chiesa: la ripresa del discorso, interrotto in qualche modo negli anni di Wojtyla e di Ratzinger, di una piena riforma della Chiesa secondo il concilio Vaticano II, e magari spingendosi anche più in là, sul piano etico, ma anche soprattutto sul piano della condanna inequivocabile della guerra e della violenza, in un’epoca in cui essa tornava a essere centrale nel discorso pubblico.
Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avevano detto parole chiare e inequivocabili contro il rischio evidentemente di una neomilitarizzazione del mondo e di un affievolirsi dello spirito del disarmo; ma è stato soprattutto con Francesco che il messaggio politico (nel senso più alto e nobile del termine) del papato, ha assunto un significato indiscutibile, quello della difesa della pace come valore assoluto. Particolarmente significativa è stata la sua difesa dei migranti, prendendo posizioni molto critiche nei confronti di chi professa valori cristiani ma agisce in tutt’altro modo.
Come ebbe modo di dire, “piuttosto che essere cristiani che vanno in chiesa ma hanno pensieri di odio, è forse meglio essere atei”. Ecco, questa è una delle più paradossali, ma non certo l’unica, delle espressioni provocatorie che questo papa, venuto a mancare alla fine del mese di aprile del 2025, ci ha lasciato in eredità, suscitando in credenti e in non credenti un’emozione profonda per la sua scomparsa.