Non è difficile comprendere l’importanza degli oggetti: da quelli tecnologici a quelli più banali a quelli più preziosi, gli oggetti ci circondano e rendono vivibile la nostra esistenza. Di alcuni, come lo smartphone o l’orologio, la maggior parte di noi non potrebbe fare a meno; ma non è solo una questione di consumismo o status symbol: le cose assumono spesso un valore sentimentale o ideale molto forte, che rende significativa e bella la nostra vita. Basti pensare a quelle “cose” del tutto particolari che sono i libri o i quadri e gli oggetti d’arte in generale. Alcuni di questi elementi materiali che ci circondano hanno persino assunto il ruolo di simboli di un’epoca, di una cultura, di una società: il computer, per esempio, ma anche certi capi di vestiario emblematici come la minigonna o certi strumenti di vita quotidiana legati strettamente a luoghi e popoli come il wok o la tajine. Se gli oggetti sono così importanti per noi, oggi, è facile immaginare che lo siano stati sempre, anche nel passato, perciò costituiscono un canale prezioso ed efficace per accostarsi alle epoche antiche, per cogliere affinità o differenze, e farle cogliere, magari, anche ai nostri studenti. L’importanza degli oggetti per lo studio della storia antica è d’altronde confermata dall’archeologia, una disciplina che, in sostanza, studia appunto “le cose”, tentando di dar loro una voce e permettendoci letteralmente di toccare con mano la realtà concreta in cui uomini e donne del passato erano immersi. Scopriamo allora insieme un breve campionario di oggetti del mondo antico, che hanno influenzato la vita dei nostri antenati.
Lo scudo
Per i guerrieri omerici lo scudo, come e più delle altre armi, è un simbolo del valore individuale: basti pensare a quello di Achille, una vera e propria opera d’arte foggiata dal dio Efesto. La sua pregnanza ideologica nelle società aristocratiche arcaiche è tale che il gesto del poeta Archiloco di gettarlo via per poter fuggire meglio, che lui stesso racconta in un celebre frammento, suona fortemente irriverente e rivoluzionario: l’uomo vale più dello scudo, la sopravvivenza conta più della cattiva fama che quel gesto gli procurerà. Nel mondo delle pòleis e della falange oplitica lo scudo – rotondo e dotato di maniglie che permettono di afferrarlo saldamente – diventa poi l’emblema della solidarietà di corpo tra i soldati che, stretti l’uno all’altro, proteggono allo stesso tempo il proprio fianco e quello del compagno vicino, la propria incolumità e la sua.
La bambola
La bambola più bella che ci è giunta dal mondo antico è quella di Crepereia Tryphaena, una giovane romana vissuta alla metà del II secolo d.C. e morta prematuramente all’età di circa diciotto anni. Nella sua tomba, scoperta a Roma alla fine dell’Ottocento, si trovava una splendida bambola d’avorio, snodabile: non un semplice giocattolo ma una scultura in miniatura, dai tratti delicati e curatissimi. Il significato di questo oggetto non è mutato nel tempo: le bambine romane giocavano con le loro bambole e si affezionavano ad esse come quelle di oggi. Però, in genere, i giocattoli venivano donati dalle ragazze romane a Venere o Diana il giorno delle nozze, per segnare ritualmente la conclusione dell’infanzia e l’inizio di una nuova fase della vita. Perciò gli archeologi hanno pensato che la sfortunata Crepereia sia morta prima del matrimonio; ma si potrebbe immaginare che invece la fanciulla abbia voluto conservare la bambola per sé anche dopo le nozze, e che una mano affettuosa e pietosa le abbia deposto accanto, nel sepolcro, quell’oggetto che tanto amava.
La moneta
La moneta è un oggetto simbolico per definizione: il suo peso, la sua forma, il materiale di cui è fatta le conferiscono un valore economico del tutto astratto, perciò la sua esistenza e il suo utilizzo indicano il grado di progresso materiale di una civiltà. Nel mondo occidentale la moneta nasce probabilmente nel regno di Lidia nel VII secolo a.C. e si diffonde poi in Grecia nel secolo successivo. Il suo ruolo simbolico dipende anche dal fatto di essere un oggetto figurato e, almeno in alcuni casi, un’opera d’arte che denota grande abilità, data la piccolissima superficie a disposizione dell’incisore. Le monete delle pòleis recano immagini rappresentative come la civetta di Atene o la rosa di Rodi e, spesso, il volto di una divinità locale, di un eroe, talvolta la riproduzione di una statua o di un tempio. Nel mondo ellenistico e romano imperiale il dritto della moneta è destinato al ritratto del sovrano e dell’imperatore, che viene così divulgato fin nei più remoti angoli dei regni e dell’impero, rendendo le monete veri e propri mass-media dell’antichità.
La corona
La corona non è certo un’invenzione del mondo greco-romano: l’uso di cingere il capo di personaggi illustri e rimarchevoli (sacerdoti, sovrani) è esistito presumibilmente fin dalle epoche più antiche. In Grecia e a Roma però questa tipologia di oggetti era talmente diffusa che l’apologeta cristiano Tertulliano scrisse un’intera opera (De corona, per l’appunto) dedicata alla sua condanna in quanto simbolo del mondo pagano. A partire dagli dèi e dagli eroi, passando per cittadini illustri, partecipanti ai simposi, generali trionfanti, re e imperatori, tutti quanti in occasioni festive o sacre o quando fosse necessario evidenziare la loro eccezionalità, indossavano corone, di foggia e materiali svariati. Per fare solo due esempi tra i molti possibili, i partecipanti al simposio greco si cingevano il capo con rami d’edera perché, come spiega Plutarco, questa pianta era ritenuta adatta a placare gli effetti del vino, mentre la corona radiata che indossano monarchi ellenistici e imperatori romani allude ai raggi solari e deriva da quella di Alessandro Magno, che sulle monete e nei ritratti viene identificato appunto con Helios, il dio-Sole.
Il libro
Nel mondo antico greco e romano, quando si parla di “libro” ci si riferisce al rotolo di papiro (byblos in greco, volumen in latino), che solo nel IV-V secolo d.C. fu sostituito dal codex, il “codice”, rilegato come un libro moderno. In entrambi i formati esso era un oggetto di lusso, riservato a pochi, dato che tutte le fasi della sua lavorazione, dalla preparazione del supporto (papiro o pergamena) fino alla copiatura vera e propria del testo, erano realizzate a mano: non erano molti coloro che potessero permettersi una biblioteca ricca come quella della celebre Villa dei papiri di Ercolano. Nonostante l’iniziale sospetto con cui i libri e i (rarissimi) possessori di biblioteche come l’ateniese Euripide furono guardati, tale oggetto divenne poi amatissimo dagli intellettuali greci e romani. Il grande amico di Cicerone, il coltissimo Attico, aveva persino, nella sua villa sul Quirinale, una vera e propria “casa editrice” dell’epoca, con una squadra di esperti schiavi-copisti che producevano libri di ottimo livello (spesso copie di originali greci) per clienti e amici, tra i quali spicca naturalmente il bibliofilo Cicerone.
La maschera
La “maschera di Agamennone”, scoperta da Heinrich Schliemann nel 1876, è uno dei reperti più suggestivi della civiltà micenea. In lamina d’oro sbalzata, la maschera riproduce le fattezze del defunto cui apparteneva la ricca tomba in cui fu rinvenuta. Benché l’attribuzione al mitico re acheo sia stata smentita, il reperto è comunque uno splendido esempio di maschera funebre, oggetto prezioso destinato a immortalare il volto di un personaggio illustre, preservandolo in qualche misura dall’azione corruttrice del tempo e dall’oblio. Quando invece la maschera veniva indossata da un vivo, gli permetteva di abbandonare temporaneamente la sua identità per assumerne un’altra, proprio come accade oggi a carnevale. Così l’attore tragico o comico “entrava nel personaggio” grazie alla maschera teatrale, che copriva completamente il volto e fungeva anche da cassa di risonanza per la voce, impedendo però del tutto l’uso della mimica e dell’espressività facciale, tanto importante nella recitazione occidentale moderna. Gli interpreti greci e romani supplivano forse a questo limite con la vocalità, la musica e (nel caso del coro) la danza, come accade ancora oggi nel teatro nō giapponese.
La coppa
La più antica testimonianza dell’alfabeto greco compare sulla “coppa di Nestore” (VIII sec. a.C.), importata a Ischia (la greca Pithecusa) da Rodi. L’incisione in versi è formulata in prima persona, come se fosse l’oggetto a parlare, e allude al personaggio omerico: «Io sono la bella coppa di Nestore, chi berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona». Viene qui istituita per la prima volta una relazione tra vino, festa e amore, che sarà poi tradizionale nella poesia greca e latina. La coppa è infatti un oggetto che richiama l’uso tipicamente ellenico del simposio, riunione rigorosamente riservata agli uomini che, bevendo vino annacquato per evitare di ubriacarsi, discutevano di argomenti più o meno elevati, recitavano versi, ridevano, giocavano e cantavano. Immortalato dal Simposio di Platone, lo spirito di tali riunioni, in cui le coppe passavano di mano in mano e non restavano mai vuote troppo a lungo, è espresso efficacemente dai versi del poeta latino Orazio, che propone il momento della bevuta conviviale come una preziosa pausa di serenità contrapposta alle angosce della vita, per esempio nell’Ode I, 7, nella quale l’esule Teucro si rivolge in questo modo ai compagni, la sera prima della partenza verso l’ignoto: “scacciate per ora col vino le preoccupazioni: abbiamo un grande mare da solcare, domani”.
Letture consigliate
- Giovanni Starace, Gli oggetti e la vita, Donzelli 2013
- Paolo Giulierini, Stupor mundi. Storia del Mediterraneo in trenta oggetti, Rizzoli 2021
Link
- Storie di oggetti, Le Umanistiche Live – Temi e metodi per la geostoria, con Anna Però e Riccardo Rao