La definizione dell’età della storia occidentale che va sotto il nome di Rinascimento è stata una delle questioni più dibattute dalla storiografia. Quali sono i caratteri distintivi dei due secoli, Quattrocento e Cinquecento, rispetto a ciò che li precedette e ciò che li seguì? Ha senso parlare ancora di Rinascimento come categoria storiografica se i suoi protagonisti usarono altre parole per definire sé stessi, e cioè, ad esempio, humanistae o moderni? Dallo storico francese Jules Michelet (1798-1874), che per primo lo definì in questo modo (Renaissance), fino a oggi il dibattito non si è mai interrotto.
Davanti a un oggetto storico sfuggente, la sua periodizzazione cambia a seconda della prospettiva dello spettatore. Lo storico della filosofia di formazione anglosassone o francese guarderà al Rinascimento come a un periodo di transizione pressoché ininfluente tra la grande filosofia scolastica e Cartesio. Lo storico dell’arte ne fisserà l’inizio in coincidenza dell’invenzione della prospettiva e della pittura di Masaccio. Quello dell’economia parlerà della crisi economica del Cinquecento, dell’espansione e della decadenza delle grandi compagnie mercantili, dell’economia-mondo. Lo storico della politica si concentrerà sulla debolezza del sistema politico italiano di fronte alle grandi monarchie europee, e porrà l’accento sul grande laboratorio di pensiero politico che proprio questa instabilità contribuì a generare, con al culmine il solito Niccolò Machiavelli. Lo storico della scienza avrà a mente le scoperte tecnologiche e scientifiche (Leonardo, Copernico, Galileo). E così via.
La sfida è dunque tenere insieme elementi del periodo in cui convivono la Flagellazione di Piero della Francesca, la pace di Lodi, i Medici a Firenze, Girolamo Savonarola, la caduta di Bisanzio, la nascita dello Stato moderno, le scoperte geografiche, l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la frattura religiosa dell’Europa.
Dal punto di vista della progettazione didattica affrontare periodi come il Rinascimento offre il destro alla più ampia interdisciplinarietà dei contenuti. Ma cosa privilegiare in particolare tra questi aspetti? Quale il focus capace di mettere in grado chiunque di connettere fenomeni in apparenza così distanti tra loro? Quali argomenti offrire alla convinzione diffusa che il Rinascimento italiano ed europeo si collochi all’origine della modernità?
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Una data che nei manuali viene richiamata troppo poco è il 1397. È l’anno in cui il cancelliere della Repubblica di Firenze, Coluccio Salutati, chiama il bizantino Manuele Crisolora a insegnare il greco a Firenze. Ex Oriente lux. La luce dei libri. Dei nuovi libri che Crisolora portò con sé da Costantinopoli, scritti in una lingua che l’Occidente (latino) non aveva frequentato per quasi un millennio. Tra questi vi erano i Dialoghi di Platone e la Geografia di Tolomeo, Plutarco e Luciano.
Fu questa la vera frattura che preluse a un profondo ripensamento di certezze secolari. La conseguenza fu l’affermarsi di una propensione all’ascolto delle ragioni di una cultura altra per riconsiderare radicalmente la propria. Il fenomeno non fu uniforme né coerente. Ma non si può negare che diede un impulso decisivo alla riscrittura di modelli interpretativi della realtà in tutte le sue manifestazioni culturali.
A preparare il terreno era stato Francesco Petrarca, non quello del Canzoniere, ma l’umanista che aveva cominciato a vagliare la tradizione che lo aveva preceduto con nuovi paradigmi intellettuali. Inaugurò una filologia in senso lato, che si configura quale unico criterio intellettuale adatto a conseguire la veritas, e che non accetta mai passivamente l’autorevolezza di una fonte, ma la valuta sempre criticamente.
Ecco, sottoporre a verifica. Una delle più grandi conquiste dell’umanesimo quattrocentesco in virtù della reintroduzione del greco fu, forse, proprio questa: l’allargamento delle prospettive critiche grazie alla riemersione di un termine di confronto funzionale sia allo studio dei testi antichi, sia a sciogliere, per il suo valore di testimonianza estrinseca alla tradizione occidentale, molte incoerenze tra le fonti letterarie, filosofiche, scientifiche e religiose latine.
Tutto ciò passò capillarmente nella scuola. Rinnovare i metodi pedagogici e lo studio della lingua significò rinnovare il pensiero. Le Elegantiae di Lorenzo Valla lo dimostrarono in tutta la sua sconvolgente evidenza. Significò anche rivoluzionare la scrittura, cioè il medium della parola: la rinascita della littera antiqua è all’origine della nostra scrittura moderna; l’invenzione della stampa garantì al libro una circolazione mai vista prima, inaugurando nuove possibilità di dialogo tra i dotti d’Europa e del mondo. Il sapere uscì dai conventi e dalle aule universitarie per entrare nelle botteghe, nelle piazze, negli uffici. Oltre che dalla stampa, la diffusione fu garantita dalla grandiosa operazione di volgarizzamento dei testi classici, tanto latini quanto greci, che garantì l’accesso ai contenuti dell’alta cultura anche a chi era ignaro di latino.
Un esempio fra i tanti? Leonardo riuscì a diventare Leonardo pur essendo «omo sanza lettere», cioè senza conoscere il latino.
Da un lato l’elaborazione di un rigoroso metodo storico di accertamento dell’autenticità del documento aveva segnato un punto di non ritorno nella storia del pensiero critico; dall’altro la sensibilità storica con cui si osservavano la profondità dei secoli passati e le civiltà scomparse aveva insegnato a comparare le diverse culture, compresa la propria. Da qui al relativismo culturale di Montaigne il passo è breve. Nasce l’idea di un’unica religione naturale comune a tutti i popoli, antichi e moderni, con un’unica verità che prende solo forme diverse sotto i diversi culti e le diverse confessioni che la venerano (Marsilio Ficino e Pico della Mirandola). Furono questi gli strumenti concettuali che presiedettero al dibattito sulla tolleranza religiosa nel pieno Cinquecento.
In passato ci fu chi sostenne che la filologia fu la vera cifra dell’umanesimo, perché rimise al centro dell’educazione dell’uomo i testi, i libri (non il libro), la ricerca delle fonti e la loro critica. Non andò lontano dal vero. I più grandi fra gli umanisti riconobbero che è nel dubbio, non nella certezza, che sta il motore del progresso e della ricerca. Si guardò al passato come a un modello non per cercare solo di riprodurlo con timore reverenziale, ma per rinnovarsi alla luce sia della propria storia che di quella dell’altro da sé.
Per questo copie dei lavori del matematico e cartografo fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, che solo studiando la Geografia di Tolomeo aveva potuto andare oltre lo stesso Tolomeo e ipotizzare di raggiungere l’Asia attraverso l’Atlantico, finirono sulla scrivania di Cristoforo Colombo; per questo Copernico osò distruggere il sistema aristotelico-tolemaico e mutare faccia all’universo; per questo Erasmo da Rotterdam, il primo intellettuale veramente ‘europeo’, fece vedere che anche di alcune concezioni religiose che si credevano divinamente immutabili si poteva ricostruire una storia squisitamente umana; per questo Andrea Vesalio rivoluzionò l’anatomia scoprendo la circolazione del sangue e permettendosi così di infrangere il principio di autorità dei medici dell’antichità, considerati intoccabili.
Il lascito più profondo dell’umanesimo, allora, furono davvero i dispositivi intellettuali per storicizzare la realtà umana, le sue espressioni spirituali e materiali. Con l’umanesimo l’uomo entra nella storia, scoprendone relatività e contraddizioni.