Può esistere un mondo senza confini? Ripercorrendo la storia, la risposta non può che essere negativa. Eppure, a ben guardare, ci si rende conto che quello tra gli esseri umani e i confini è uno dei rapporti più controversi che siano mai esistiti. Partiamo da un dato di chiara evidenza: tra tutti gli esseri viventi, la specie umana è quella che più crea confini e, allo stesso tempo, più si adopera per superarli. Numerosissime sono le linee di confine tracciate nel corso del tempo, così come numerosissimi sono stati i tentativi di oltrepassarle.
Quello del confine è un concetto che raccoglie attorno a sé una molteplicità di significati. Potremmo dire che esso può rappresentare un luogo di separazione, ma anche di incontro e di scambio; o un oggetto di contesa, fonte di tensioni politiche, etniche e religiose; o ancora un ostacolo che molti vogliono oltrepassare, alla ricerca di nuove prospettive di vita. Proviamo qui a passare in rassegna – senza pretesa di esaustività – alcuni confini del passato e del presente che hanno assunto o assumono questi significati.
Il confine come linea di scambio
Ai tempi dell’Impero romano per indicare il confine si usava la parola limes. Questo termine, che in origine indicava il sentiero che separava i campi agricoli, assunse in questa epoca un significato ben preciso: esso era il confine che sorgeva in prossimità del corso del Reno e del Danubio, e che separava il mondo romano da quello dei germani. Per secoli il limes non fu una barriera insormontabile, anzi rimase un luogo di contatto e di incontro tra due popoli e due culture, una linea permeabile lungo cui si scambiavano non solo le merci, ma anche le conoscenze, gli usi e i costumi, le idee.
La svolta si ebbe solo nel III secolo d.C., quando i germani cominciarono a fare razzie in territorio romano, attratti dalla possibilità di ricchi bottini. Fu a questo punto che il confine venne fortificato, trasformandosi per i romani in una linea difensiva, lungo cui sorgevano torri, fortini e castra, cioè accampamenti militari. Ma a dire il vero anche in questo frangente il limes non cessò del tutto di essere un luogo di passaggio di viaggiatori e prodotti. Anche oggi, quando non sono barriere, i confini permettono l’incontro tra popoli e culture diversi: diventano cioè fonte di nuove conoscenze, scoperte, opportunità, scambi di storie e di idee.
Ricostruzione della torre di di guardia di Pohl, in Sassonia, lungo l’antico limes romano in Germania.
Il confine come linea di contesa
La gran parte dei conflitti della storia si sono combattuti attorno ai confini. Da questo punto di vista il secolo lungo, il Novecento, è stato purtroppo testimone di numerosi e tragici episodi bellici. Il confine tra Francia e Germania, così come quello tra Italia e Austria, divenne teatro delle più spaventose carneficine della Prima guerra mondiale.
Dopo la Grande guerra, il confine tornò presto oggetto di contesa internazionale. I principi di nazionalità ed autodeterminazione dei popoli sostenuti dal presidente statunitense Wilson vennero presto rimessi in discussione, in particolare nelle più delicate aree di confine. Un esempio è quanto accadde per la regione della Dalmazia e per la città di Fiume, che erano abitate da molti italiani e che l’Italia perciò aveva chiesto di annettere. I nazionalisti parlarono di “vittoria mutilata”, perché secondo loro quei territori dovevano rientrare tra i confini italiani. Da qui l’occupazione di Fiume del 1919 guidata dal D’Annunzio, questione chiusa solo nel novembre del 1920 dal trattato di Rapallo, che rese Fiume “città libera”, cioè non dipendente dalla sovranità di uno Stato.
Allargare i propri confini divenne poco più tardi l’imperativo della Germania nazista, in nome del pangermanesimo e della teoria dello “spazio vitale”. Si aprì così un’escalation di pressioni e violenze, di annessioni più o meno “spontanee” (si pensi all’Anschluss dell’Austria o alla rivendicazione da parte di Hitler del territorio dei Sudeti, nel 1938) o propriamente forzate (con l’invasione e l’occupazione della Cecoslovacchia e del corridoio di Danzica, nel 1939)
Di annessioni forzate siamo stati spettatori anche in tempi molto più recenti. Basti pensare a quanto accaduto in Crimea tra il febbraio e il marzo 2014, quando le truppe russe, sostenute da una parte della popolazione locale filorussa, hanno occupato la penisola, sottraendola al controllo ucraino. Nel Novecento come ai giorni nostri, le annessioni forzate si sono dimostrate preludio a successivi conflitti, come la Seconda guerra mondiale o la guerra tra Russia e Ucraina.
Le truppe naziste tedesche rimuovono una sbarra che segna il confine con la Polonia: è l’inizio della Seconda guerra mondiale.
Il confine come barriera
Il confine può essere inteso anche come un limite che le persone cercano di oltrepassare, spinte dalla ricerca di un lavoro o di migliori condizioni di vita. Parliamo a questo proposito dell’emigrazione degli italiani che ha caratterizzato la storia del nostro Paese dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento.
In questo lungo periodo si possono individuare due grandi momenti migratori. Il primo va dal 1850 circa al 1940: circa 10 milioni di italiani emigrarono prevalentemente verso gli Stati Uniti e l’America latina. Il secondo va dal 1946 al 1970: altri 8 milioni di italiani emigrarono soprattutto verso i Paesi più industrializzati del Nord Europa. In entrambi i casi le motivazioni furono la ricerca del lavoro e di una vita più dignitosa rispetto a quella che potevano condurre in alcune aree d’Italia particolarmente arretrate dal punto di vista dello sviluppo economico.
Con il 1970 e la crescita del benessere del nostro Paese, l’emigrazione diminuì, anche se aumentarono le migrazioni interne dal Sud al Nord della penisola. In anni più recenti l’Italia è diventata terra di immigrazione, destinazione di persone provenienti soprattutto da Paesi più poveri. Oggi i cittadini stranieri in Italia sono circa 5 milioni, che costituiscono il 9,5% della popolazione totale. Ma non bisogna scordare che tuttora sono circa 5 milioni gli italiani all’estero e ogni anno 100000 persone circa emigrano.
I Paesi più ricchi del mondo attuale percepiscono l’immigrazione dai Paesi poveri principalmente come un problema e non sono pochi i casi di Stati che si chiudono o si stanno chiudendo entro i propri confini (dal punto degli ingressi, non delle uscite…). Ed è così che in tempi recenti stanno tornando le barriere, i muri, le linee di separazione: si pensi, per citare un celebre caso, al confine tra Messico e Stati Uniti.
Ma il Vecchio Continente non è esente da questa tentazione: a fine 2022 si sono contati 2048 chilometri di muri ai confini dell’Unione europea. Si va dai 21 chilometri di recinzione costruiti dalla Spagna intorno alle sue exclave in Marocco di Ceuta e Melilla, ai 35 chilometri tra Grecia e Turchia, dai 158 chilometri di barriera realizzati dall’Ungheria al confine con la Croazia (oggi membro Ue), ai 235 chilometri tra Bulgaria e Turchia.
A seguire questa strada, dunque, sono proprio i Paesi dell’Unione europea, quell’istituzione che nel 1990 attuò il primo grande tentativo di superare i propri confini, togliendo le frontiere interne e creando il cosiddetto Spazio Schengen per la libera circolazione delle persone. Un paradosso o una necessità? Può il confine ridotto a barriera rappresentare la soluzione del fenomeno migratorio?
Tijuana, un’immagine della barriera eretta al confine tra USA e Messico.