Cos’è un genocidio? Si possono stabilire comparazione tra eventi storicamente tra di loro diversi? Dove si colloca la linea di divisione tra un massacro di gruppo e, invece, la distruzione sistematica di massa, voluta non solo politicamente ma – soprattutto – realizzata anche in maniera industriale, di intere collettività, definite secondo un criterio puramente razzista? Perché nella storia europea lo sterminio delle comunità ebraiche, durante la Seconda guerra mondiale, costituisce, a tutt’oggi, un punto di non ritorno, rispetto al quale dobbiamo ancora continuare a confrontarci? Non di meno, per quale ragione dovremmo ancora occuparci di tutto ciò, dal momento che molto altro è invece accaduto, nell’insipienza, nel silenzio e nell’immobilismo dei più?
Una questione di modalità e criteri
La questione di fondo, rispetto a ciò che è successo negli anni della guerra tra il 1939 e il 1945, rinvia – ancora una volta – non solo a numeri e vittime bensì a intenzionalità, modalità e criteri operativi. Poiché l’eliminazione della popolazione ebraica in Europa, in quegli anni, non è solo ed esclusivamente un problema della minoranza che ne fu fatta bersaglio ma anche, e soprattutto, un rimando a come le società totalitarie riescano a costruire, intorno a sé, un consenso basato su politiche sia di inclusione che di brutale esclusione, fino all’estremo dell’omicidio di massa. Entrambe su base etnica e, quindi, razzista.
Questioni terminologiche?
Si tratta di una questione che non si esaurisce con il Novecento. Ragionare sul tempo che fu ci dà quindi gli strumenti per capire il nostro confuso presente. Tanto più dal momento che i drammatici eventi in corso in Medio Oriente, a partire dalla guerra tra lo Stato d’Israele e Hamas, sembrano richiamare echi di quel passato. Soprattutto quando vi siano in campo protagonisti che si qualificano (o vengono qualificati) come ebrei. Il rimando, molto spesso incauto così come generalizzato, a termini quali «pogrom», «pulizia etnica» se non addirittura allo stesso «genocidio» o al «nazismo» per definire il significato di quanto sta avvenendo, rischia infatti di sovrapporre, e quindi, confondere, il tracciato del presente con il percorso del passato. Laddove, in una sorta di ribaltamento dei ruoli tra vittime e carnefici, oppure di improbabile ripetizione di quanto già è stato, si ritiene di potere giudicare ciò che avviene con il rigido e acritico ricorso agli schemi interpretativi adottati per comprendere quanto avvenne.
Senza comprendere non si può agire
Da ciò derivano atteggiamenti di falsa consapevolezza che, nel tentativo di inquadrare una volta per sempre un evento, lo riducono invece ad una sorta di elemento di una sequenza destinata a replicarsi inesorabilmente. Mettere a fuoco la consistenza delle categorie analitiche e interpretative che utilizziamo, quindi, non è un esercizio ozioso e di mera natura intellettualistica, dinanzi all’incalzare dei fatti, bensì una necessità irrinunciabile per comprenderne la specifica natura ed evoluzione. Senza una tale cognizione, la possibilità di intervenire attivamente su di essi, condizionandone consapevolmente i loro esiti, rischia altrimenti di essere annullata.
Per approfondire
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