Nella selva oscura della Commedia non ci sono confortanti tracce dell’uomo, ma soltanto presenze ostili, animali feroci e la sensazione di una minaccia incombente. Dante ci racconta un bosco che fa paura, in cui sono presenti tutti gli ingredienti che ritroviamo anche nelle fiabe dei bambini, a partire da quella di Cappuccetto Rosso: c’è il senso di smarrimento e c’è persino il lupo cattivo. La sensazione di paura è creata dalla percezione di ritrovarsi in solitudine nel mezzo della natura.
La selva selvaggia e la lupa
L’incipit della Commedia di Dante è stato uno dei più potenti veicoli di un immaginario negativo tanto del lupo, quanto del suo habitat, il bosco. Proviamo però a leggere il testo, per meglio comprenderne la logica interna.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Il viaggio iniziatico di Dante comincia da un bosco, un luogo che è stato spesso usato, basti pensare alle fiabe, come simbolo, non necessariamente negativo, del passaggio e della trasformazione. Dante prova paura quando si ritrova in una “selva” buia e “selvaggia”. Questa qualifica – “selvaggia” – non è per nulla tautologica ed è decisiva per capire quale particolare tipo di bosco terrorizzi gli uomini del Medioevo: si tratta di un bosco profondo, non toccato da mano umana, dove la natura trionfa. È lì che il Poeta si perde («la diritta via era smarrita», «la verace via abbandonai»).
La selva selvaggia di Dante è ben differente dai boschi “domestici”, segnati dalla presenza umana e da coltivazioni temporanee o arboricole, come il castagno, e non è neppure assimilabile alla “foresta”, che, se poteva essere molto simile nella conformazione e nelle specie arboree, evocava invece nei suoi contemporanei un’immagine assai diversa da quella di un luogo pericoloso, abbandonato e incontaminato. La “foresta” del Medioevo è uno spazio di pertinenza regia, sottoposto al diritto pubblico, accessibile soltanto secondo determinate regole e il cui uso può essere riservato per particolari attività, come, per esempio, la caccia del re e dei suoi fedeli. Non stupisce dunque che Dante preferisca usare la parola foresta per definire il bosco dell’Eden, dove giungerà al termine della salita del Purgatorio. La foresta è dunque un luogo sottoposto alla legge imperiale sulla terra dei vivi, secondo gli ideali politici del Poeta, e alla legge divina nel Paradiso terrestre, che prelude al Regno dei Cieli.
Nello spazio ostile della selva, invece, dopo avere incontrato due fiere feroci, Dante si imbatte nella terza, la più temibile di tutte:
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
(Dante, Inf. I)
Fa dunque la comparsa la lupa, che avanzando ricaccia il povero Dante proprio in quella parte più fitta del bosco. Se restiamo sul piano letterale, il comportamento della lupa non ha nulla di sorprendente: spinge la preda nel suo habitat, dove la vegetazione è più fitta, gli alberi crescono affastellandosi gli uni sugli altri ostacolando il passaggio della luce e la presenza umana è assente.
Tra natura e allegoria
Ciò che rende davvero Dante un abile regista dell’horror è la capacità di caricare la selva di una connotazione sinistra, legata non già ai pericoli materiali, ma a quelli allegorici che si intuiscono per l’anima dell’autore. Dante infatti non si è perso soltanto nella foresta, ma anche nella vita, e le fiere sono spaventose, ancor più che per le ferite fisiche che possono produrre, per quelle interiori derivanti dai vizi che rappresentano.
La lupa, in particolare, è l’unica fiera dantesca che ha solo attributi negativi: rappresenta infatti gola, dissolutezza, cupidigia, lussuria e avarizia. E non è per nulla casuale la scelta di Dante di parlare della lupa al femminile: in latino, infatti, il termine lupa era usato per le prostitute (da cui “lupanare”). Insomma, come del resto doveva essere nelle orecchie di qualsiasi contemporaneo di Dante, abituato a sentir parlare di lupi nelle prediche religiose, la lupa era identificabile senza incertezze con l’allegoria del male tout court.
Ma la lupa ha ulteriori significati. Non si riferisce soltanto a peccati e vizi individuali, né a un’allegoria generica. È stata infatti interpretata come la personificazione della chiesa corrotta di Bonifacio VIII, che Dante critica aspramente. E c’è anche la possibilità che, evocando la lupa, Dante avesse in mente un preciso ritratto sociale. Egli doveva essere ben consapevole che per un cittadino di un qualsiasi comune italiano all’inizio del XIV secolo, a partire da Firenze, il lupo aveva anche una precisa connotazione politica. Come abbiamo visto, nei discorsi politici, ai lupi famelici – «di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza» dice Dante – si fa frequentemente ricorso per simboleggiare le divisioni interne alla città, la discordia e gli abusi dei magnati, cioè delle famiglie più potenti della città, caratterizzate dall’ostentazione della ricchezza, da uno stile di vita violento e dalla volontà di dominio sugli altri concittadini. Avari, lussuriosi, dissoluti e golosi: così dovevano apparire i magnati alla maggioranza della popolazione. E proprio questo tema politico – dei conflitti e delle divisioni interne causate dagli odi familiari – è senz’altro fra i leitmotiv della Commedia.
Due sono dunque i piani su cui il Poeta costruisce il nostro senso di angoscia. Da un lato, il confronto con uno spazio naturale che si presenta in una veste temibile e ostile all’uomo, la selva popolata da animali feroci, che svolge un ruolo analogo a quello che avrebbero potuto rivestire il mare in tempesta o il vulcano durante un’eruzione. Dall’altro, Dante gioca sul senso del male, sul significato allegorico che assumono i luoghi e gli animali, ma anche sull’angoscia del presente causata dalla congiuntura politica di inizio XIV secolo.
Scopri l’opera
Il tempo dei lupi
Storia e luoghi di un animale favoloso di Riccardo Rao – edizioni Utet