Il gioco e la scuola non sono sempre andati d’accordo. I bambini e le bambine che giocano non imparano, il tempo del gioco deve essere separato da quello della didattica, il gioco è bello quando consente di imparare qualcosa… ma è proprio così?
Secondo lo storico e linguista Johan Huizinga, il gioco è innanzitutto -e sopra ogni altra cosa- un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco. Tutt’al più può essere una riproduzione obbligata. Questo dovrebbe escludere dal panorama ludico tutte le attività intenzionalmente istruttive che talvolta, anzi spesso, si propongono a scuola.
Con il gioco si impara, sì, ma non necessariamente tabelline o analisi grammaticale. A ben vedere, la parola gioco si muove all’interno di una straordinaria polisemia. Gioco è sicuramente l’attività improduttiva che fa divertire gli esseri umani e che i bambini e le bambine conoscono e mettono in pratica in maniera istintiva appena si incontrano.
Si chiama gioco, però, anche lo spazio lasciato libero tra due ingranaggi diversi. Quando un artigiano, o un’artigiana, ovvio, non riesce a stringere tra loro due diversi pezzi, usa spesso l’espressione “fa gioco”. Questa accezione è sicuramente interessante e, insieme al divertimento tipico dell’attività ludica, parla direttamente all’azione dei/delle docenti. Una progettazione didattica, per essere accattivante e motivante, deve avere entrambi questi due significati: l’interesse suscitato dall’azione ludica e lo spazio di libertà garantito dal “fare gioco”.
Non basta, però: la parola gioco richiama un’ulteriore suggestione, che è quella dell’”entrare in gioco”. Si entra in gioco quando si partecipa attivamente, ci si sente pienamente coinvolti nella realtà che si costruisce insieme ad altri. Rimanere ai bordi del campo, osservare decisioni e schemi dall’esterno dà un senso di frustrazione e di estraneità. Questo terzo significato, quindi, chiarisce la necessità dell’inclusione di tutte le diversità nella didattica.
Il gioco a scuola, quindi, non come stratagemma per rendere più appetibili contenuti indigesti, ma come riferimento culturale e schema mentale dei/delle docenti per interpretare una realtà complessa come quella didattica. Non resta che indossare scarpe comode ed entrare in campo.
Uno, due, tre…si gioca!