“Parole, parole, parole, soltanto parole”…o forse no
Di cosa abbiamo bisogno per fare poesia? Delle parole, certamente, ma non di parole qualsiasi. La forza della lingua poetica, infatti, risiede proprio nell’uso particolare che fa dei suoi elementi. Forse è per questo che quando pensiamo alla dimensione poetica nella nostra mente formuliamo pensieri contrastanti: da un lato, percepiamo la poesia difficile e indecifrabile, quasi impossibile da scrivere; dall’altro veniamo rapiti immediatamente da nuovi significati, veicolati talvolta con scelte lessicali tratte dal nostro vocabolario quotidiano.
Nel territorio poetico il testo sprigiona un grande potere generativo: costruisce mondi, nuove possibilità di pensiero e sentimento, e lo fa proprio con la sua insostituibile parola, che dice cose normali in modo speciale, mettendo in crisi il senso dell’ordinario. Nel testo poetico, insegna Mario Luzi, si verifica un vero e proprio processo misterioso di creazione, uno scambio tra le parole e le cose, che si «risvegliano reciprocamente» (Le parole agoniche della poesia).
La compiutezza di un verso
Ma cos’è che rende un testo una poesia? Come spiegare in classe che abbiamo bisogno esattamente di quelle parole e in quella precisa sequenza per ricreare l’esperienza poetica? Una parola, infatti, non vale l’altra, e Giovanni Giudici lo sapeva bene. Nel suo saggio narrativo Andare in Cina a piedi (Ledizioni, 2017) dedica diverse pagine alla potenza creativa della lingua poetica, una lingua che sembra rappresentare un’eccezione, una sfida rispetto agli usi ordinari del linguaggio. Per dimostrare che nel testo poetico esistono legami di significato misteriosi si serve del primo verso della celebre lirica leopardiana L’infinito. Invita il lettore a «variare l’ordine delle parole del verso, senza che ne sia peraltro alterato il senso logico e con modesti cambiamenti nello schema ritmico, così da ottenere una serie di varianti». Possiamo ottenere in questo modo dieci versi, come segue:
- Caro mi fu quest’ermo colle sempre
- Mi fu quest’ermo colle sempre caro
- Quest’ermo colle sempre mi fu caro
- Quest’ermo colle caro mi fu sempre
- Caro mi fu sempre quest’ermo colle
- Mi fu sempre quest’ermo colle caro
- Mi fu quest’ermo colle sempre caro
- Caro sempre mi fu quest’ermo colle
- Caro quest’ermo colle mi fu sempre
- Mi fu caro quest’ermo colle sempre
L’esercizio, spiega Giudici, serve proprio per dimostrare che nessuna delle varianti è lontanamente paragonabile «alla suprema e tranquilla e limpida perfezione del verso leopardiano». Ma perché questo accade? Cosa “stona” effettivamente nelle varianti anche se il significato è rimasto uguale?
La poesia, secondo l’autore, «non vale tanto per quel che dice, quanto invece […] per quel che è una successione di suoni, quasi note musicali, in ordinato e rigido rapporto tra loro, per cui ogni modifica nell’ambito di questa particolare fase (il “suono”) della lingua poetica mette in crisi anche il senso di tutto il resto (anche del semplice che-cosa-vuol-dire)».
Spunti didattici
Quando leggiamo L’infinito di Giacomo Leopardi noi vediamo la siepe che “il guardo esclude”, forse possiamo addirittura sentire il vento che l’accarezza e ci lasciamo attraversare dalla memoria dell’eterno. Un verbo diverso da “naufragar” per il pensiero che vaga nei ricordi e un’altra espressione rispetto a “profondissima quiete” non riuscirebbero a rendere l’immagine acustica del paesaggio che si unisce alle emozioni. Un buon esercizio per far comprendere alle studentesse e agli studenti i legami di senso che caratterizzano le opere poetiche potrebbe essere la riscrittura di un verso, sulla scia degli insegnamenti di Giudici, e riflettere su quanto un sinonimo, per esempio, potrebbe stravolgere il messaggio profondo che intende veicolare l’Io lirico. Proponete alla classe di scegliere in piena autonomia un verso di una poesia a piacimento e di rielaborare dieci varianti che, per quanto possibile, rispettino la semantica. Poi, aprite un dibattito sulle scelte lessicali, metriche e retoriche della variante che più si avvicina all’originale.