Questo articolo affronta alcuni aspetti problematici dei rapporti euro-africani in ambito artistico in epoca moderna e contemporanea. Nella letteratura e nella prassi museologica si è consolidata, nel tempo, una visione talvolta semplicistica e parziale di tali rapporti, che si è limitata a rilevare l’assimilazione, da parte delle avanguardie storiche europee di inizio Novecento, di forme e modelli provenienti dall’arte e dall’artigianato coloniale, ovvero da quei paesi extraeuropei (in particolar modo Africa, Oceania, America Centrale), considerati all’epoca primitivi, esotici e, di fatto, asserviti alle potenze imperiali occidentali.
Per affrontare il rapporto intercorso tra Africa ed Europa in termini storico-artistici tra XIX e XX secolo, è necessario munirsi di un buon grado di consapevolezza in quello che può essere considerato il processo primario di ogni assimilazione e comunicazione visiva: lo sguardo. Guardare, esporre allo sguardo, creare e agire per lo sguardo, sono azioni mai prive di significato politico, culturale, antropologico, come riesce a dimostrare John Berger nel suo celebre ciclo di video-lezioni concepite per BBC Two nel 1972 e confluite poi nel volume Ways of Seeing.
La grande influenza dell’arte africana sull’arte moderna europea è stata il prodotto di un rapporto di sguardi essenzialmente europei, che possiamo definire interni ed esterni, ossia lo sguardo dell’individuo occidentale su sé stesso e il suo sguardo verso quel che in definitiva considerava altro da sé: l’individuo africano o comunque extra-occidentale (euroamericano). Quel che si è perso, in questa narrazione dell’arte occidentale diventata ben presto canone, è lo sguardo extra-europeo sull’occidente.
Nel film di Quentin Tarantino Django Unchained (2012), Leonardo Di Caprio interpreta lo spietato possidente terriero e schiavista americano Calvin Candy. In una scena carica di tensione, Candy espone allo sguardo dei suoi ospiti il teschio, perfettamente conservato, dello schiavo africano che aveva servito la sua famiglia per più di una generazione: Old Ben. Egli arriva a eseguire una craniotomia live per dimostrare le cause della sottomissione della “razza negra” a quella occidentale; la frenologia costituirebbe dunque una scienza esatta, in grado di giustificare e spiegare sotto un profilo assolutamente biologico ed evolutivo l’inferiorità degli Africani rispetto alla “razza bianca”. Se nel film di Tarantino le vicende dello schiavo liberato Django risultano inverosimili nella loro tragicomicità, il contesto in cui si svolgono è assolutamente veritiero e storicamente coerente a un pensiero culturale e politico ampiamente diffuso in America e in Europa intorno alla metà dell’Ottocento. La storia dell’arte occidentale, così come la conosciamo nella manualistica scolastica e universitaria, può fornire un utile supporto nella comprensione di quello sguardo interno (proiettato su noi stessi, individui e comunità occidentali) che all’epoca di cui trattiamo porta a discriminare addirittura scientificamente “loro”, gli “altri” (popoli africani e di altre provenienze non occidentali).
Si può iniziare questa rapida ricognizione dal dipinto di Joseph Wright of Derby, Esperimento su di un uccello inserito in una pompa pneumatica (1768), in cui vediamo simbolicamente accendersi la luce della scienza e della conoscenza all’interno della comunità inglese illuminista. La scena, per gli sguardi di stupore, meraviglia e triste preveggenza che circondano l’apparizione luminosa dell’oggetto di culto al centro del quadro, potrebbe di primo acchito ricordare quella di una natività, se non fosse che al posto del Gesù bambino, futuro dio fatto uomo e immolato sulla croce, troviamo la pompa pneumatica. L’esperimento scientifico assume funzione di rito e l’uccellino destinato a morire soffocato è la vittima da sacrificare nel nome del bene collettivo. L’idea che ci identifica come comunità occidentale illuminata inizia proprio da questo modo di guardarci, di ritrarci e raffigurarci. Allo stesso tempo il modello di eroe contemporaneo, vincente e dominante, è quello del Napoleone attraversa le Alpi al Gran San Bernardo di Jacques Louis David (1800), oppure de La libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix (1830), dove l’eroe non è più tanto un modello individuale cui guardare per trovare ispirazione, quanto piuttosto ogni singola parte di un’unità simbolica: l’identità nazionale, sociale e politica, che trova nel movimento rivoluzionario collettivo un senso comune di appartenenza. Altre opere ci informano di uno sguardo auto-riflessivo come società progredita, sia in senso tecnologico-scientifico (si pensi al romantico ma anche proto-impressionista o addirittura proto-futurista dipinto di William Turner Pioggia, vapore e velocità, 1844), sia in quello di un costume sociale sempre più inurbato, emancipato e auto-determinista, espresso bene ne La lettrice di Federico Faruffini (1864-65) o nelle diverse eppur coerenti scene di vita parigine dipinte da Claude Monet (Il carnevale al Boulevard des Capucines, 1873) e Gustave Caillebotte (Strada di Parigi: tempo di pioggia, 1877) ma anche da Henri de Toulouse-Lautrec (Al Moulin Rouge, 1892-1893).
Muovendoci rapidamente lungo un secolo, tra Inghilterra, Francia e Italia, siamo così arrivati al decennio che chiude il secolo XIX, un’epoca segnata dal pensiero illuminista e positivista il cui simbolo visivo potrebbe senz’altro essere la Tour Eiffel. Inaugurata nel 1889, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, come è noto questa costruzione cela nel terzo piano un “locale segreto”: un confortevole appartamento, voluto dal suo stesso progettista, Gustave Eiffel, accessibile soltanto a lui e ai suoi ospiti. Fra questi, come oggi documenta il diorama ricostruito all’interno, vi fu anche il geniale inventore americano Thomas Edison. I due effettivamente si incontrarono lì durante i giorni dell’Expo parigina e, dall’alto di quell’opera monumentale, che manifestava e ricordava il successo e il dominio del pensiero razionale occidentale, è possibile abbiano concordato sul fatto che quell’epoca poteva ben essere definita all’avanguardia anche e soprattutto grazie all’ingegno di persone come loro: quell’incontro conchiudeva simbolicamente l’affermazione su scala globale di un modello culturale dominante, quello euro-americano.
Tale modello fondava le sue basi anche sul colonialismo, giustificato perfino “scientificamente” da teorie – e purtroppo anche da pratiche – che stabilivano non tanto una gerarchia di merito e supremazia tra i popoli, quanto una scala di differenziazione specifica tra le “razze umane”, lungo la quale ovviamente gli individui africani si collocavano sul gradino più basso mentre i colti borghesi europei su quello più alto. Tale presunzione para-scientifica veniva divulgata in quelle stesse Esposizioni Universali che presentavano le più aggiornate conquiste tecniche nei più svariati campi di applicazione economica, artistica e sociale. Tra i divertissements venduti durante l’Expo parigina vi erano anche le Vues Stéréoscopiques, un sistema di riproduzione delle immagini che permetteva di osservare delle fotografie all’interno di un visore bioculare che restituiva l’effetto ottico della tridimensionalità (l’antenato del nostro Oculus). Tra le vedute stereoscopiche prodotte dalle edizioni Paris-Stéréo nel 1889, la serie n. 16 permetteva di osservare il Village Nègre. Si trattava della documentazione fotografica delle oltre quattrocento persone deportate a Parigi da diverse colonie francesi in Africa, per essere esposte al pubblico nelle loro “abitudini quotidiane” durante l’Expo. Questa triste pratica inaugurava i cosiddetti “zoo umani” diffusi nelle varie esposizioni universali inaugurate a decine nell’emisfero occidentale dell’epoca. Nell’intenzione dei governi che agevolavano tali prassi, la presenza dei “villaggi negri” in questo tipo di rassegne stava a marcare in modo tangibile e fisico l’incolmabile distanza, la differenza tra la società civilizzata del modello europeo e i “selvaggi”, quei popoli sottosviluppati provenienti dalle colonie. Più sottilmente si trattava di una forma retorica di propaganda estrema che tendeva a rafforzare nelle società occidentali la convinzione nel e il sostegno al modello di sviluppo occidentale fondato sullo sfruttamento delle colonie e dell’altro.
Si può, anzi si deve precisare che benché tale visione fosse di fatto dominante all’epoca, non era in ogni caso totalizzante e univoca nella società occidentale, esistendo un pensiero alternativo. Tuttavia, è bene ricordare come il razzismo scientifico si fosse insediato anche nelle menti più lucide e prestigiose del pensiero filosofico moderno, basti pensare ad alcuni brani contenuti nelle lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, dove si afferma che lo stato di barbarie a cui si trova l’Africano non consente all’Europeo di immedesimarsi e quindi comprendere pienamente la sua natura, così come non è possibile farlo nei confronti di un cane. Se ne deduce, secondo Hegel, che il rapporto di schiavitù è l’unico in grado di stabilire un canale di comunicazione tra “loro” e “noi”, anzi per Hegel la schiavitù rappresenta un’opportunità per gli Africani di evolversi a stretto contatto con gli esseri civilizzati superiori. Hegel, certamente, precisa che la schiavitù rappresenti un’ingiustizia contraria all’essenza libera dell’essere umano, tuttavia non può esimersi dal riconoscere che per conquistarsi la libertà l’uomo deve prima acquisire la necessaria “maturità”. Nel pensiero occidentale ottocentesco la cultura dell’altro da sé viene dunque semplificata in un infantilismo barbarico, suscettibile di essere manipolato, dominato, “educato” a discrezione del popolo illuminato dominante. Nascono in questo secolo termini e miti come quello del “buon selvaggio” (che affonda le sue radici nello “stato di natura” ipotizzato da Jean-Jacuques Rousseau nel suo Discours sur les sciences et les arts, 1750), dell’“arte negra” ma soprattutto del “primitivismo”. Quest’ultimo termine fa la sua comparsa nel Nouveau Larousse Illustré del 1897, mentre nel 1915 Carl Einstein pubblica il suo celebre saggio sulla scultura africana dal titolo Negerplastik.
Il confronto con le “culture altre” prende così vita nei centri urbani europei, non soltanto tramite le Esposizioni Universali ma anche attraverso i primi musei tematici. Parigi rappresenta ancora, in questo senso, l’epicentro di una tendenza che vede sorgere in tutta Europa i musei coloniali ed etnografici, con l’istituzione del Musée Permanent des Colonies (1855) e più tardi nel più noto Musée d’Ethnographie du Trocadéro (1878-1935). Il Trocadéro (come veniva comunemente chiamato a Parigi) si trovava a poche centinaia di metri dalla Tour Eiffel ed era meta frequente delle esplorazioni urbane di alcuni artisti dell’avanguardia parigina internazionale, come ad esempio Matisse, Picasso, Braque, Brancusi e Modigliani, solo per citarne alcuni tra i più noti. All’intero del museo erano esposti, secondo uno schema accumulatorio tipico della museografia dell’epoca, gli oggetti più disparati provenienti dai paesi extraeuropei: amuleti rituali accanto ad armi, utensili agricoli, capi d’abbigliamento e oggetti d’uso quotidiano, tutto senza alcuna contestualizzazione. Il museo come contenitore dei trofei o dei frutti simbolici della colonizzazione permane ben oltre il XIX secolo, basti pensare che nel 1931, con l’Exposition Coloniale Internationale, a Parigi si inaugura il Palais de la Porte Dorée, di fatto un museo delle colonie il cui edificio, esistente ancora oggi, ospita dal 2007 il rinnovato Museo Nazionale di Storia dell’Immigrazione.
La presenza degli artisti in questa tipologia di musei è sicuramente un primo elemento di rottura in un sistema culturale costruito sulla dimostrazione quotidiana della superiorità europea nei confronti delle culture altre. Gli artisti sono uomini del loro tempo, perciò pur spiegandosi anch’essi con termini come “arte negra” o “arte primitiva”, di fatto aprono, con le loro ricerche, a una contaminazione del linguaggio espressivo occidentale che senza dubbio è stata ed è ancora oggi uno dei fenomeni che ha avuto conseguenze e implicazioni più profonde e durature sullo sviluppo delle arti visive globali. Nel discorso storico-artistico, del resto, con il termine primitivismo non si identificano solamente e non tanto le arti plastiche di Africa, Oceania, Asia e Centroamerica, quanto varie declinazioni del confronto innescato dagli artisti occidentali con le civiltà lontane dagli epicentri dell’arte europea (lontane geograficamente o culturalmente). Per questo, nell’ultimo decennio del XIX secolo, la contaminazione del canone, e in un certo senso il suo rinnovamento in senso primitivista si può riscontrare nei paesaggi esotici e naif di Herni Rousseau, come nei quadri eseguiti a Thaiti da Gauguin, o ancora nelle scene bretoni dipinte dallo stesso Gauguin e da Van Gogh. In Italia la ricerca sui primitivi si orienta verso l’arte espressa dai pre-rinascimentali, come Giotto e Masaccio, portando a risultati come Le figlie di Loth di Carlo Carrà (1919), oppure indaga la plastica delle statue funerarie etrusche, come nel caso delle grandi terrecotte eseguite da Arturo Martini degli anni trenta.
Nei primi anni del XX secolo Henri Matisse fu l’artista che maggiormente colse e seppe far propri gli stimoli provenienti dalla visione e dallo studio delle opere d’arte africana, non soltanto grazie ai musei e alle esposizioni parigine ma anche attraverso un’esperienza diretta presso i popoli dell’Africa settentrionale, dove l’artista si reca più volte fino al 1907, anno del suo viaggio in Italia. Le geometrie di sculture e tessuti africani forniscono a Matisse nuovi spunti di carattere formale e strutturale, che egli riporta nella composizione dei propri dipinti di quegli anni, in una fusione di riferimenti alla tradizione pittorica rinascimentale e alle arti africane. Tale sapiente integrazione e rielaborazione di modelli per certi versi antitetici è percepibile anche in opere fondamentali del suo percorso, ben note al grande pubblico, come La joie de vivre (1905-06) o La danse (1910). Anche in opere più tarde come Portrait de M.me Matisse (1913) e Sculpture et vase de lierre (1916-17) la citazione quasi letterale della scultura africana (rispettivamente nel volto della moglie e nella statua) sottende a un ripensamento globale delle geometrie interne al dipinto.
Come è noto, negli stessi anni dei viaggi africani di Matisse, e in particolare nel 1907, Pablo Picasso completa l’opera che nella letteratura segna l’avvio del cubismo: Les demoiselles d’Avignon (1907), dipinto rimasto visibile per lungo tempo soltanto nello studio dell’artista, che ritrae la celebre scena di nudo di un gruppo di prostitute. L’opera si completa formalmente con la metamorfosi di tre dei cinque volti di donna in maschere africane. Al contrario di Matisse, che nell’arte extraeuropea trova soluzioni inedite ai rapporti geometrici interni a pittura e scultura, Picasso è attratto dalla potenza emozionale, persino spirituale che la sintesi dell’arte africana era in grado di comunicare. Certamente non si trattava soltanto di questo: anche dal punto di vista formale e compositivo i dipinti di Picasso del periodo analitico (seconda metà del primo decennio del secolo) dimostrano rapporti volumetrici e geometrici di chiara derivazione africana. Gli studi di Picasso, di Matisse e di George Braque erano luoghi in cui oggetti artistici o rituali provenienti dall’Africa si potevano ammirare esposti alle pareti.
Nei primi anni dieci del Novecento – mentre l’influenza africana si perpetuava anche in alcuni assemblaggi della versione sintetica della ricerca cubista di Picasso – sempre a Parigi la sintesi formale ispirata alle maschere dei popoli Fang e Makongo si diffonde e si ritrova ben presente nelle sculture di Constantin Brancusi (Mademoiselle Pogany, 1912, La Maiastra, 1912) e Amedeo Modigliani (Testa, 1911-13). La ricezione dei modelli artistici provenienti dal continente a sud del Mediterraneo è evidente anche in altri movimenti d’avanguardia europei, coevi ai Fauves e ai Cubisti, basti pensare ai dipinti ma soprattutto alle xilografie del gruppo espressionista Die Brücke, fondato a Dresda nel 1905, pur in una più asciutta e nervosa configurazione grafica (Erich Heckel, Fränzi distesa, 1910; Karl Schmidt-Rottluff, Devozione, 1912). Con il procedere dei decenni sarà poi soprattutto il Surrealismo ad assimilare opere ed oggetti prodotti da popoli extraeuropei (soprattutto oceanici) in chiave straniante e irrazionale.
Per concludere questa breve analisi, è opportuno fare un passo più vicino a noi e considerare un ulteriore sguardo focalizzatosi sulle vicende che abbiamo appena trattato: nel corso del Novecento, infatti, il fenomeno dell’influenza dell’arte africana sulle avanguardie europee è a sua volta diventato oggetto di sguardi e di esposizioni, non sempre centrati sul punto fondamentale della questione. Dal 27 settembre 1984 al 15 gennaio 1985 il Museum of Modern Art di New York ospitò la mostra “Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern, a cura di William Rubin e Kirk Varnedoe. Ancora una volta lo sguardo privilegiato è stato quello eurocentrico, che mette in luce le opere d’arte africana soltanto nella misura in cui possono essere ricondotte a quelle ben più note e celebrate degli artisti modernisti occidentali. Sul numero di novembre 1984 di Artforum, Thomas McEvilly stigmatizzò l’allestimento e il taglio critico dell’esposizione, sottolineando l’assenza di dati e spiegazioni sul contesto di provenienza delle opere africane esposte, denunciando la repressione del contesto, dei significati, dei contenuti e concludendo che la mostra non aveva fatto altro se non dimostrare il perpetrarsi dei meccanismi di appropriazione culturale del colonialismo da parte dell’egoismo occidentale.
Di approccio completamente differente si è rivelata la mostra Africa Reborn. African aesthetics in contemporary art, curata da Philippe Dagen per il Musée du Quai Branly Jacques Chirac di Parigi (9 febbraio-11 luglio 2021). Lo sguardo si sposta qui sulle interrelazioni artistiche fra Africa e mondo un secolo più tardi rispetto ai fatti avvenuti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. La mostra mette infatti in evidenza come le estetiche, i linguaggi e le tradizioni africane abbiano continuato a influire e a fornire nuovi spunti negli artisti d’avanguardia di tutto il mondo, a partire dalla fine del secolo scorso. Significativamente il punto di partenza della mostra del Quai Branly è proprio il ricordo e la documentazione della fallimentare esposizione del MoMA “Primitivism” del 1984.
Oggi che nel micro-universo globalizzato dell’arte contemporanea ogni discriminazione di latitudine e longitudine sembra svanita, in favore di una sempre maggiore consapevolezza interculturale dei fenomeni artistici, è ormai consolidata l’abitudine non tanto a considerare l’arte africana nella sua specificità, ma a considerarla per molti aspetti come l’arte più interessante o – per restituirle un termine modernista – più d’avanguardia nella scena attuale. Anche queste sono semplificazioni, basti pensare all’abusata (ma vera) citazione che non esiste un’Africa ma tante Afriche (e come potrebbe essere altrimenti per un continente tanto vasto quanto complesso, vario e stratificato?). Da molti anni gli artisti provenienti da queste Afriche sono apprezzati e premiati nei contesti espositivi internazionali, basta citare i ghanesi John Akomfrah e El Anatsui, l’americana-etiope Julie Mehretu o i sudafricani William Kentridge e Marlene Dumas, mentre i più giovani emergenti, come Ibrahim Mahama o Godwin Champs Namuyimba, sono oggi all’attenzione della critica e del mercato.
Si può concludere questa breve analisi con quanto riportato sul sito della Phaidon, editore a fine 2021 della vasta ricognizione African Artists: From 1882 to Now: “l’arte moderna e contemporanea africana è in primo piano nell’attuale movimento curatoriale e collezionistico della scena artistica odierna”. Ci troviamo forse in prossimità di un giro di boa nell’incrocio di sguardi?
Bibliografia essenziale
- John Berger, Questione di sguardi, il Saggiatore, Milano 2021.
- Marine Degli, Marie Mauzé, Arts premiers. Le temps de la reconnaissance, Gallimard, Parigi 2006.
- Manlio Dinucci, Geostoria dell’Africa, Zanichelli, Bologna 2000.
- Joseph L. Underwood, Chika Okeke-Agulu, Phaidon Editors, African Artists: From 1882 to Now, Phaidon Press, New York-London 2021.
Scopri l’opera
- “Con gli occhi dell’arte” di Valerio Terraroli – Sansoni per la scuola – Rizzoli Education, 2022 – Testo di storia dell’arte per la scuola secondaria di secondo grado