Per chi, vent’anni fa, aveva sufficiente memoria del trentennio precedente, l’11 settembre era la data del colpo di stato in Cile, dell’inizio della dittatura del generale Pinochet, un evento che tanto impressionò e influì sulla politica italiana degli anni Settanta. Poi, oltre ogni immaginazione, l’11 settembre 2001 arrivarono le immagini delle Twin towers incendiate, del fallito attentato al Pentagono di Washington e dell’areo caduto nelle campagne della Pennsylvania. Si trattava di immagini potenti, mai viste prima, destinate a imprimersi nell’immaginazioni di tutti coloro che le videro, in diretta o quasi, in un giorno in cui tutto sembrava cambiare per sempre.
A distanza di vent’anni sarebbe eccessivo dire che quell’immaginario nato dal più grave attentato terroristico in un paese occidentale, sia completamente venuto meno. Tuttavia non abbiamo più l’impressione che esso abbia rappresentato una cesura netta nella storia, un evento periodizzante, come si usa dire. I successivi vent’anni di storia, i primi del nuovo Millennio, ci hanno riservato ancora molte immagini di attentati e di stragi dovute al radicalismo islamico, soprattutto nel Medioriente, così come le imprese di quella sorta di multinazionale del terrore guidata da Osama Bin Laden (il miliardario arabo ideatore dell’attentato alle Torri gemelle) nota come Al Qaeda (la base, in arabo) hanno dovuto cedere il passo alle gesta dell’Isis, il cosiddetto nuovo califfato islamista, deciso a creare uno vero e proprio spazio politico e militare jihadista in tutto il Medio, il Vicino Oriente e l’Africa settentrionale e occidentale, non accontentandosi di punire l’Occidente con attentati mirati e periodici.
Se poi volessimo giocare ancora con il potere evocativo delle date, potremmo chiederci se il 30 agosto 2021, il giorno in cui l’ultimo soldato americano ha lasciato l’Afghanistan, dopo una guerra lunghissima ˗ la cui origine fu proprio il desiderio di rivalsa dopo l”11 settembre”˗ rimarrà altrettanto impresso nella nostra memoria. La guerra in Afghanistan, il cui svolgimento è ancora sotto i nostri occhi, sembra quasi la chiusura di un cerchio. L’America ferita del 2001 scatenò tutto il suo potenziale bellico contro il terrorismo islamista. Arrivò a invadere ben due paesi (uno dei quali, l’Iraq, che con lo jihadismo niente centrava), riuscì a scovare il covo di Bin Laden e a eliminare l’ideatore dell’attentato, in quel Pakistan ambiguamente sospeso tra un’alleanza filo-occidentale e il desiderio di considerare il limitrofo Afghanistan come una sorta di “cortile di casa” dove giocare a esperimenti geopolitici inediti. Il più significativo di questi fu la nascita del movimento talebano, una sorta di teocrazia politica capace di tenere unito un territorio tradizionalmente alieno al centralismo statale e caratterizzato da divisioni tribali di lunghissima data.
La memoria dell’11 settembre 2001, allora, non rischia certo di venire a mancare per la tragica spettacolarità che la caratterizzò. E neanche per il corollario di dubbi e teorie stravaganti che si è portata dietro, ossia la pretesa che si sia trattato di una montatura o altre facezie simili. L’11 settembre, piuttosto, può essere visto come l’inizio di quel declino della potenza americana di cui tanti studiosi parlano da almeno una decina di anni.
Il ruolo esercitato dagli Stati uniti dopo la Seconda guerra mondiale sembrò, con la caduta del comunismo della fine degli anni Ottanta dello scorso secolo, divenire assoluto, in assenza di una superpotenza ostile come controparte. Pochi avevano previsto, allora, la gigantesca ascesa economica della Cina che, entro questo decennio, raggiungerà il PIL degli Stati Uniti. In un mondo in cui gli attori economici vanno sempre più diversificandosi, persino l’opinione pubblica americana si sta convincendo che non è più interesse primario per la nazione essere il gendarme del mondo. Ha dimostrato una prima volta questa tendenza nel 2016, eleggendo un presidente dichiaratamente isolazionista come Trump. Il fatto che recentissimi sondaggi elettorali castighino solo relativamente la condotta dell’attuale presidente Biden in Afghanistan, quella cioè di un ritiro immediato e definitivo, è forse il segno che dalla politica mondiale del futuro dobbiamo aspettarci sempre di più una pluralità di protagonisti. Tutti impegnati, come sempre, a rendere centrali i propri interessi particolari.