A partire dagli anni Ottanta il latino è stato al centro di un vasto dibattito che oggi sembra coinvolgere, se non proprio appassionare, anche i non-specialisti e che riguarda soprattutto il suo insegnamento e il contributo che può dare alla formazione dei giovani liceali.
Ormai da molto tempo, infatti, una parte dell’opinione pubblica ha cominciato a mettere in discussione il ruolo del latino in un curricolo liceale, chiedendosi se non sia più utile che i ragazzi, destinati a diventare la futura classe dirigente, investano tempo ed energie per imparare l’inglese o il cinese piuttosto che le lingue classiche, definite anche lingue “morte”.
Il dibattito sul latino, inoltre, si sta spostando sempre più dal piano strettamente didattico e culturale a quello sociale, politico ed economico.
Sempre più spesso, infatti, si sente dire che il “sapere” appreso a scuola, e quindi anche il latino, si dovrebbe poter tradurre subito in un “saper fare” ben chiaro, definito e misurabile nell’immediato, come se la conoscenza avesse un senso solo nel momento in cui diventa una competenza visibile e possibilmente valutabile attraverso una griglia. Come sanno bene gli insegnanti, tuttavia, spesso il profitto formativo non ha una ricaduta immediata sul piano operativo e non sempre può essere misurato in tempi brevi.
Più di 70 anni fa Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere scriveva che “il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita.”.
Oltre a richiamare l’attenzione sul carattere metacognitivo dello studio del latino, che insegna innanzitutto a imparare, Gramsci richiama l’attenzione sul fatto che questo “corpo storico” apparentemente morto “continuamente si ricompone in vita” dal momento che continua a nutrire e ad alimentare i nostri linguaggi. Ne sono un esempio evidente gli anglo-latinismi (chiamati anche in modo più informale inglesorum) che i nostri studenti considerano e pronunciano come termini inglesi, mentre sono, almeno in origine, latini: tra i tanti esempi possiamo citare tutor, media o plus. D’altra parte la vitalità del latino come “lingua di cultura” che continua a plasmare i linguaggi moderni, appare evidente anche nell’etimologia di moltissimi termini legati all’ambito dell’informatica: è latina l’origine di audio e video, ma anche di server, explorer, app, demo e dello stesso internet, che meglio di ogni altro suggerisce l’idea di uno stretto legame fra passato e presente.
Lo studio del latino, quindi, costringendo a riflettere costantemente sugli elementi di continuità e discontinuità con l’italiano, costituisce uno straordinario strumento per arricchire il lessico e per arginare il progressivo impoverimento del linguaggio di cui tutti ci lamentiamo e, giustamente, ci preoccupiamo. Dal momento che il linguaggio è la forma con cui non solo esprimiamo ma concepiamo i nostri pensieri, combattere questo impoverimento significa aiutare i ragazzi a difendersi dal conformismo, dalla superficialità e dal qualunquismo, rendendoli più capaci di selezionare e giudicare i messaggi che ricevono.
Il contributo del latino alla formazione delle nuove generazioni, in conclusione, riguarda due aspetti fondamentali: da una parte rende i ragazzi consapevoli del ruolo della cultura classica nella formazione della civiltà europea, dall’altra li allena a dominare il linguaggio e a sviluppare un approccio critico nei confronti della realtà.
Per approfondire
- https://www.ihromamz.it/blog/linfluenza-del-latino-sulla-lingua-inglese/
- https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/12/22/perche-il-latino-e-la-lingua-ideale-per-comunicare-su-twitter48.html
- https://www.lastampa.it/opinioni/buongiorno/2006/10/31/news/il-latino-e-la-cyclette-1.37146799