Lo stereotipo dell’italiano buono (e magari un po’ pasticcione)
Resiste ancora oggi un’idea molto stereotipata riguardo al comportamento dell’esercito italiano durante alcuni momenti cruciali del XX secolo. Secondo questa convinzione, condivisa anche da persone con orientamenti culturali, ideologici e politici molto diversi tra loro, l’Italia sarebbe stato un paese incapace di commettere in guerra crimini paragonabili a quelli perpetrati, ad esempio, dai nazisti tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale.
Questo luogo comune è spesso accompagnato da una visione critica – talvolta falsamente dissacrante e un po’ liquidatoria – sulle reali capacità militari italiane nei conflitti del Novecento, con un’eccezione parziale per la prima guerra mondiale (1915-1918), considerata l’unica vittoria effettiva della nazione. In sostanza, si tende ad associare le carenze nell’equipaggiamento, il limitato addestramento e la gestione tattico-strategica contraddittoria delle forze armate alla convinzione che questi elementi abbiano quasi automaticamente impedito agli italiani di compiere azioni disumane e criminali.
La narrazione ha spesso insistito sull’immagine di soldati un po’ maldestri, ma fondamentalmente “buoni” e incapaci di gesti realmente efferati. Questa visione è stata alimentata già dalla propaganda di guerra: basti pensare, ad esempio, al periodo della guerra di Libia, quando venivano diffuse canzoni leggere come Tripoli, bel suol d’amore, che contribuivano a diffondere il mito dell’italiano seduttore e grande amatore. Uno stereotipo ripreso anche durante la campagna d’Etiopia, con la celebre Faccetta nera, canzone divenuta simbolo del regime fascista, in cui si raccontava di una giovane abissina che attendeva con speranza l’arrivo dei soldati italiani, venuti ad amarla e a liberarla dalla barbarie.
Dopo la guerra, anche il cinema, la letteratura e persino i manuali scolastici hanno spesso evitato di affrontare i temi più controversi legati al comportamento dei soldati italiani sui vari fronti del Novecento. Quando questi argomenti sono stati trattati, lo si è fatto con un tono ironico o caricaturale, contribuendo a rafforzare lo stereotipo degli “italiani brava gente”.
Il colonialismo italiano in Africa e la guerra “parallela” di Mussolini hanno avuto caratteri criminali
Durante il periodo del colonialismo l’esercito italiano si è macchiato di vari crimini la cui natura e il cui dettaglio sono stati scarsamente sottolineati e, soprattutto, sono quasi del tutto assenti dalla memoria collettiva.
L’impresa di Eritrea nel 1885 e il tentativo fallito in Etiopia tra il 1895-96, sono spesso ricordati più che altro per l’esito tragico di Adua o per alcune battaglie come quella di Alba Alagi, mentre sono poco note le violenze commesse dai militari italiani inviati da Crispi nel corno d’Africa.
La conquista della Libia (1912) si distinse fin dall’inizio per un uso sproporzionato della forza da parte dell’esercito italiano. Tuttavia, fu soprattutto nei primi anni Trenta, durante il periodo fascista, che Mussolini ordinò l’eliminazione fisica delle tribù Senussi ostili al dominio coloniale italiano e, più in generale, di tutti i ribelli della Cirenaica.
I massacri furono pianificati dal generale Rodolfo Graziani (1882-1955) e dal governatore della Libia Pietro Badoglio (1871-1956). Tra il 1929 e il 1933 vennero istituiti campi di concentramento in Cirenaica, dove furono internate oltre 100.000 persone. Le popolazioni deportate furono costrette a subire condizioni disumane, trovando la morte a causa della fame o dei lavori forzati.
In Etiopia, nel 1936, l’Italia non si limitò ad attaccare senza ragione alcuna un paese riconosciuto dalla comunità internazionale membro della Società delle Nazioni. La campagna di conquista fu condotta con metodi criminali, ad esempio usando i gas velenosi e non esitando a sterminare interi villaggi. In seguito a un attentato subito dal vicerè Graziani (lo stesso che si era sporcato le mani di sangue in Libia) Addis Abeba fu messa a ferro e fuoco e si arrivò a distruggere alcuni antichi monasteri cristiani etiopi e ad assassinare i suoi monaci
Poco nota è la vicenda dell’occupazione italiana della Grecia, durante la seconda guerra mondiale, nell’ambito della cosiddetta “guerra parallela” che Mussolini volle portare avanti per non sfigurare agli occhi dell’alleato Hitler. In essa si consumarono vicende gravissime e quasi sconosciute alla maggior parte degli italiani, persino quelli più informati. È il caso dell’eccidio del villaggio di Domenikòn (1943), oppure della scelta deliberata di affamare la popolazione di Atene nel 1943/44, o degli stupri sistematici contro le donne nella provincia di Salonicco nello stesso periodo.
Non meno criminale fu l’azione italiana in Jugoslavia, sotto la direzione di generali come Alessandro Pirzio Biroli (1877-1962) e Mario Roatta (1887-1968), che introdussero nella loro lotta contro la resistenza antifascista e antinazista, metodi come le decimazioni, le fucilazioni sommarie e gli internamenti in campi di concentramento.
Secondo lo storico Filippo Focardi (1965- ) l’esercito italiano, negli anni del fascismo, procurò la morte a 500 000 etiopi, 250 000 jugoslavi, 100 000 greci e 100 000 libici.
“Ma l’italiano non ama la guerra…”
Il generale italiano Giacomo Zanussi (1894-1966) impegnato sul fronte balcanico – il quale (dettaglio importante) dopo l’8 settembre si schierò contro i tedeschi e il regime fascista – combattendo per il governo di Badoglio e Vittorio Emanuele III, si espresse così sulla natura dei soldati italiani in quella campagna.
“Nessuno indurrà mai il nostro contadino, il nostro artigiano è il nostro operaio a cambiare costume mentalità, ad abbassarsi o, peggio, a dilettarsi al delitto, a spogliarsi di quel naturale senso di benevolenza che è indice di una civiltà millenaria e che è insito in lui com’è insito nell’animo del balcanico, non per colpa sua ma per colpa dei secoli dolorosi che gravano sulle sue spalle, l’impulso all’odio, alla vendetta, al cedimento totale e brutale di tutto se stesso alla Furia indomabile dell’istinto. […]
L’italiano fa e, talvolta fa bene, ma non ama la guerra, e meno che meno la strage. Come che sia, la guerra egli si acconcia a farla contro il nemico che gli sta in armi dinanzi: non, tranne rarissime eccezioni e per brevissimi episodi […], contro le vite o gli averi della popolazione civile”.
Si trattava di opinioni, purtroppo, ben lontane dalla verità.
Perché non si è stati capaci di fare i conti con la propria storia?
Per molti anni quanto finora detto è stato espulso dalla memoria collettiva ed è caduto in un lungo oblio. Un effetto collaterale di questa vicenda è stata la scelta, che non può essere considerata causale, di non perseguire con la dovuta coerenza gli autori degli eccidi tedeschi contro gli italiani, specialmente durante l’occupazione nazista tra il 1943 e il 1945. Celebre è il caso del cosiddetto “armadio della vergogna”, un insieme di documenti cruciali per l’istruzione di processi contro i responsabili di stragi gravissime compiute in Italia dall’esercito tedesco e dalle SS (con la complicità, quasi sempre, dei fascisti della repubblica di Salò). La documentazione fu “dimenticata” per decenni in un armadio con le ante rivolte contro il muro, in uno sgabuzzino della sede della procura generale del Tribunale supremo militare. Solo nel 1994, per puro caso, il giudice militare Antonino Intelisano (1943- ) scoprì questi documenti a lungo celati sia alla magistratura competente sia all’opinione pubblica nazionale.
Alla luce di tutto questo possiamo quindi pensare che le ragioni di queste “amnesie” siano dovute a diverse ragioni che possono essere così riassunte.
- La volontà di “mettere una pietra sopra” un passato doloroso, in un momento in cui si profilavano nuove tensioni geopolitiche a livello internazionale (la guerra fredda) e l’Italia e la Repubblica federale tedesca dovevano essere alleate.
- Evitare che i processi contro i “cattivi tedeschi” facessero emergere la realtà scomoda dei crimini compiuti dai “bravi soldati italiani” contro la popolazione civile in Africa e nei Balcani.
Queste scelte ebbero quindi delle conseguenze sul modo con cui è stata letta la storia nazionale dell’intero Novecento.
Le ricostruzioni storiche sulla vicenda coloniale italiana è stata tardiva e spesso mal sopportata, come se si trattasse di una pagina poco importante, da dimenticare in fretta. O peggio da ridurre a un meritoria opera di civilizzazione. Di conseguenza non esiste una public history equilibrata su questo argomento.
In particolare l’oblio sugli eccidi italiani durante l’invasione della Grecia è stato quasi totale. La strage di Domenikòn, sopra citata, è rimasta sconosciuta fino al 2008 quando la vicenda è stata ricostruita in un documentario americano andato in onda su History Channel.
Le vicende stesse legate al dramma del confine italo/jugoslavo e della popolazione dalmata-giuliana, sono state coinvolte in questa “rimozione”: prima con il lungo oblio sulle vicende delle foibe, poi con l’affermazione di una narrazione unilaterale sulla tragedia. Infatti, accanto al meritorio ricordo dei morti infoibati si è associato il totale oblio sui crimini italo-tedeschi contro le popolazione slave.
PER APPROFONDIRE
Potete approfondire in classe con questo Laboratorio tratto da Visione torica di S.Manca, G.Manzella e S. Variara, La Nuova Italia (2025).
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