“Dove andremo ad abitare?” s’interroga il Sole 24 Ore titolando un articolo a firma di Alba Solaro del 2 dicembre che interpella Carlo Ratti (futuro curatore della Biennale Architettura 2025), l’architetto e scrittore Gianni Biondillo e l’artista tedesca Ursula von Brandeburg. Il tema: la sfida di progettare nell’era dell’Antropocene soluzioni che rispondano ad “un futuro via via più incerto e inospitale” tenendo conto di cambiamenti climatici e dello sviluppo di città che alimentano sempre più le disuguaglianze.
La trattazione esula dal tema sociale abbracciando una prospettiva più ampia e articolata, figlia del nostro tempo.
Eppure il titolo, di primo acchito, potrebbe anche prestarsi ad affrontare un’analisi spinosa ed altrettanto attuale: quella dell’emergenza abitativa. Perché pur nell’era del nomadismo digitale il divario sociale tra chi una casa (o più d’una) l’ha sempre avuta (magari per semplice eredità), chi se la può ancora permettere e chi invece non potrà permettersela mai è sempre più ampio. E mentre social e riviste patinate ci ripropongono modelli sempre più irraggiungibili (dalle declinazioni dei vari boschi verticali a puntuali interventi di interior design nelle principali capitali europee), l’ultimo rapporto CENSIS – Cida 2024 colloca il ceto medio in un’attuale fase di deriva “caratterizzata dall’erosione delle condizioni economiche e sociali, segnata dalla perdita del reale potere d’acquisto”.
In principio furono gli IACP
La legge n. 251 del 31.05.1903 istituì, per iniziativa dell’Onorevole Luigi Luzzatti, di fatto, quelli che un tempo erano gli Istituti Autonomi per le Case Popolari (IACP). Si trattava di enti a livello territoriale (comunale e provinciale) aventi lo scopo di realizzare e gestire “un’edilizia pubblica destinata ai meno abbienti con canoni di locazione calmierati”. Città precorritrici furono Trieste (allora ancora sotto l’Impero austro – ungarico e dove già dal 1902 esisteva un Istituto Comunale per le Abitazioni Minime) e Roma. L’effetto anche sul piano dello sviluppo urbanistico porterà a interventi che man mano cominceranno a rientrare a pieno titolo nella storia dell’architettura novecentesca.
Il piano INA-Casa: 1949-1963
Nell’immediato dopoguerra si pose il problema non soltanto di una rapida ricostruzione ma anche di cominciare a porre rimedio a condizioni abitative ancora connotate da uno status di miseria e da una correlata disoccupazione. Nel 1949 il Parlamento italiano approvò così il progetto di legge Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, “agevolando la costruzione di case per lavoratori ossia il cosiddetto piano INA-Casa”. Una manovra, come scrive Paola di Biagi nella scheda dedicata al tema all’interno dell’Enciclopedia Treccani online “orientata a rilanciare l’economia e l’occupazione, costruendo case economiche, ma anche come un dispositivo di ‘carità istituzionalizzata’ su scala nazionale, di partecipazione solidaristica di tutte le componenti sociali verso i bisogni dei più poveri.
Un piano finanziato attraverso un sistema misto che vide la partecipazione dello Stato, dei datori di lavoro e dei lavoratori dipendenti”.
335.000 alloggi in tutto costruiti in 14 anni, distribuiti sull’intero territorio nazionale.
ATER e Social Housing oggi
Oggi i nuovi enti territoriali (ATER, Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale) hanno preso il posto degli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP), ma la situazione non è rosea. Come osserva Guido Montanari in un articolo de Il Giornale dell’Architettura sono gli stessi enti “a dover trovare in autonomia i finanziamenti per le ristrutturazioni e per le nuove costruzioni. L’esito è l’aumento dei canoni di affitto, l’abbandono al degrado e la svendita di una cospicua parte del patrimonio immobiliare pubblico. Nonostante non esista una banca dati nazionale sul numero complessivo di alloggi popolari, si stima che gli alloggi ERP (edilizia residenziale pubblica) costituiscano circa il 4% dello stock abitativo complessivo del nostro Paese. Una percentuale che pone l’Italia agli ultimi posti in Europa”.
In questo quadro è necessario inoltre un distinguo tra edilizia popolare e Social Housing che “consiste nell’offerta di alloggi e servizi abitativi a prezzi contenuti destinati ai cittadini con reddito medio basso e che allo stesso tempo non hanno i requisiti per accedere all’edilizia pubblica popolare”. Le categorie destinate ad aver accesso a queste soluzioni (sviluppate perlopiù da soggetti privati, banche e fondazioni) sono giovani, studenti, lavoratori precari, anziani, disabili, immigrati.
Oggi la parabola evolutiva dell’immediato futuro sembra destinata ad un progressivo allargamento del divario sociale in assenza però di quegli interventi su larga scala che come ricordato, hanno segnato la storia del Novecento. E mentre le cronache recenti riportano dell’ennesimo sgombero delle Vele di Scampia (il complesso di edilizia popolare realizzato alla periferia di Napoli tra il 1962 e il 1975 su progetto di Franz Di Salvo), molte altre storie, seppur non connotate dalla stessa drammatica emergenza sociale, rimangono nella fascia grigia di un crescente disagio che sembra non fare più notizia.