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Fact Checking | Anche tu, Bruto, figlio mio… O no?

di  Andrea Cazzaniga

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Un’uscita di scena tragica e memorabile

Nella storia di Roma, quella di Giulio Cesare fu una parabola tanto folgorante quanto indelebile. I successi militari e le conquiste, l’ascesa politica, la costruzione del potere assoluto: tutto nella vita pubblica di Cesare fu repentino, e al tempo stesso capace di lasciare il segno.

Persino la sua morte, alle Idi di marzo del 44 a.C., fu un’uscita di scena inattesa e memorabile. A segnarla fu un tradimento atroce, accompagnato da parole pronunciate in un crescendo di emozioni da tragedia greca. Almeno per come ci è stata raccontata…

 

Una ricostruzione drammatica

Il racconto più noto delle ultime, concitate ore della vita di Giulio Cesare proviene dallo scrittore latino Svetonio. Egli ce ne parla nella sua opera Vite dei Cesari, scritta tra il 119 e il 122 d.C. Dunque un secolo e mezzo dopo l’effettivo svolgersi degli avvenimenti: non proprio quella che si definisce una testimonianza diretta!

La ricostruzione di Svetonio è un capolavoro di tecnica narrativa, teso a celebrare “il divino Giulio” e drammatizzare al massimo grado gli eventi. 

Nel testo, prima di raccontarci l’assassinio, Svetonio rievoca i presagi negativi avuti dallo stesso Cesare: la profezia dell’aruspice Spurinna, che lo invita a prestare attenzione a un pericolo “che si prospetta non oltre le Idi di marzo” e il sogno della notte precedente il delitto, quando Cesare vede se stesso “volteggiare al di sopra delle nubi” e “stringere la mano a Giove”.

 

Parole lapidarie o silenzio?

Poi si giunge sulla scena del crimine: i congiurati attorniarono Cesare, lui si ritrae e urla: «Ma questa è violenza!», fino al primo colpo di pugnale, a cui ne seguono altri ventidue.

A questo punto Cesare, vedendo tra i suoi assassini anche Bruto, esclama la celebre frase: «Tu quoque, fili mi» (“Anche tu, figlio mio”). Anzi no! Perché Cesare non parla in latino – e ce lo precisa Svetonio stesso – ma in greco, perché questa è la lingua usata dal mondo politico romano dell’epoca: «Kai su teknòn» (“Anche tu, figlio”).

Poco più avanti, il testo di Svetonio si contraddice e pare negare le parole prima riportate, dicendo che Cesare, dopo il primo colpo, non parla più, ma riesce solamente ad emettere un gemito. 

È questo un dettaglio che l’autore si lascia quasi sfuggire, facendo trapelare un momento di debolezza che poco si addice al grande condottiero.

La celebre frase «Tu quoque, Brute, fili mi» è dunque per lo meno dubbia: di certo è stata tradotta in latino solo in seguito, e pure con l’aggiunta del nome di Bruto.

 

Un timore universale

Come spesso capita, alcune ricostruzioni diventano tanto affascinanti da essere credute vere fin nei minimi dettagli. La frase è ormai parte della tradizione, e chiunque faccia riferimento alla morte di Cesare non può evitare di rievocare quelle dubbie, ma pur sempre fatali parole. La fortuna di queste ultime, però, ha forse un’altra e più profonda ragione, legata alla loro capacità di condensare in sé un timore universale: quello di essere traditi dalle persone più care.